L’epopea di Gilgameš risale, nella sua forma documentata più antica, all’età sumerica. Essa è stata ripresa e rinarrata con varianti dagli hurriti e dagli ittiti, dai babilonesi e dagli assiri. Anche nelle versioni migliori ci sono lacune notevoli, molte tavolette sono irrimediabilmente danneggiate, e ad aggravare le pessime condizioni del testo si aggiungono poi gli sforzi di un buon numero di specialisti, che non hanno contribuito a rendere più chiare le cose.
Narrata e rinarrata, la storia ha un aspetto abbastanza ben definito nelle sue linee generali ed è ormai patrimonio della letteratura universale.
Si tratta in realtà di un’apparenza ingannevole, perché questi testi sono, a percorrerli, quanto mai sdrucciolevoli, ma è preferibile, almeno per il momento, prenderla come si presenta e limitarsi a tracciare un breve profilo del disegno narrativo accettato, seguendo la versione di Heidel.
In seguito sarà possibile esaminare alcuni punti difficili che alla fine arriveranno forse a sconvolgere tutto quanto il disegno stesso.
Gilgameš viene considerato uno dei primi re di Uruk (o Erech). Le circostanze della sua nascita favolosa lo fanno per due terzi dio e per un terzo uomo, cosicché, secondo il sistema sessagesimale mesopotamico, egli è 2/3 di 60 (= Anu), cioè 40, che è il numero caratterizzante Enki/Ea, il quale appunto veniva denominato «Šanabi (= 2/3 di 60 cioè) e Nimin (parola sumerica per 40)» (Weidner).
Comunque sia, si racconta che egli vivesse nello splendore e nella dissolutezza, rendendosi insopportabile a un punto tale che gli dèi, per alleviare le sofferenze del suo popolo, formarono un essere umano, gemello o corrispettivo, capace di tenergli testa.
Si tratta di Enkidu, l’uomo delle regioni selvagge, una sorta di ragazzo-lupo semplice come le bestie con le quali gioca, felice figlio della natura, peloso in tutto il corpo e, da adulto, immensamente forte.
Una prostituta mandata per sedurlo gli insegna l’amore e i costumi degli uomini e lo attrae nella città.
Il suo primo incontro con Gilgameš è un furioso combattimento che scuote l’edificio delle riunioni e sembra danneggiare lo stipite della porta: il re riesce infine ad atterrare Enkidu e decide che egli è degno di diventare suo amico e compagno di avventure.
Insieme progettano una spedizione nella grande Foresta per sconfiggere il terribile orco Huwawa o Humbaba, guardiano postovi dal dio Enlil, il cosiddetto «dio delle tempeste» o «dio dell’aria». Anzi: «Enlil lo ha designato quale settuplice terrore ai mortali […] il suo ruggito è (come quello dell’) uragano, la sua bocca è fuoco, il suo alito è morte».
Diamo pure per scontata l’antica popolarità dei combattimenti con draghi e orchi; non guasterà però qualche dato di fatto su questo «mostro».
Nei testi Humbaba «viene immancabilmente definito un dio» (Langdon) e corrisponde a quanto pare al dio elamita Humba o Humban, il quale condivide coi pianeti Mercurio e Giove, nonché con Procione (α Canis Minoris), l’attributo di «il prevalente, il forte»; compare inoltre in un elenco di stelle con il determinativo mul (babilonese kakkab), che precede appunto le stelle: mul-Humba.
L’identificazione con Procione risulterà forse l’indizio decisivo che riconcilierà la versione sumerica con le molte altre.
I testi antichi non guadagnano in trasparenza se si tace o si omette ogni elemento che abbia un aspetto strano; è bene quindi notare che Humbaba è una specie di «dio degli intestini»: anzi, la su testa o faccia è fatta di intestini e Langdon fa osservare che «la faccia di questo mostro […] è raffigurata, se si eccettuano gli occhi, con un’unica linea sinuosa».
Böhl, inoltre, nella sua ricerca sull’origine babilonese del labirinto, ha messo in evidenza l’idea babilonese delle viscere come una labirintica «fortezza di intestini».
Tanto basti sulla «persona» di Humbaba il quale, evidentemente, non è affatto un mostro primitivo, tanto più che la sua faccia poco attraente ha una forte somiglianza con quella di Tlaloc, il cosiddetto «dio della pioggia» degli aztechi, che è costituita da due serpenti.
Le identificazioni precipitose portano solo guai, e il caso Humbaba, nonostante i numerosi tentativi, è ancora lontano da una soluzione anche solo parziale.
Gli unici elementi sicuri della storia sembrano l’arrivo dei due eroi alla foresta dei cedri – che, dice il racconto, si estende per «diecimila ore doppie» (circa 70.000 miglia) – e la decapitazione di Humbaba preceduta, a quanto pare, dall’abbattimento del più grande dei cedri che questi aveva avuto in custodia da Enlil; ma l’impresa non è compiuta senza il possente aiuto di Šamaš-Helios «che manda una grande tempesta per accecare il mostro e metterlo alla loro mercé».
Una volta tornato a Uruk, Gilgameš si lava i capelli e si veste da festa. Mentre egli sta indossando la tiara, la dea dell’amore Ištar (Inanna in sumerico) viene ammaliata dal suo aspetto e gli chiede di sposarla. Gilgameš la respinge, ricordandole con parole sprezzanti il destino dei precedenti paredri di lei, tra cui quello del povero Tammûz, in seguito noto come Adone.
Non è raro che un eroe rifiuti l’amore e gli inauditi doni offerti da una dea. In tutti i casi di questo tipo, sono soltanto due le personalità celesti candidate a questo ruolo: il pianeta Venere e Sirio, cioè Sothis, che ha una certa reputazione di prostituta.
Abbiamo la storia dell’ugaritico Aqht che tratta ‘Anat con beffarda alterigia; quella di Pico che respinge le profferte di Circe e viene di conseguenza trasformato in picchio dalla dea irata; quella di Arjuna – una «parte di Indra» – che rifiuta la celeste Urvašî da lui considerata «genitrice della mia stirpe e oggetto per me di riverenza […], ed è tuo dovere proteggermi come un figlio».
C’è anche il tahitiano Tafa’i (Tawhaki, in maori) il quale con i suoi cinque fratelli andò a corteggiare una principessa degli inferi. Ai pretendenti viene chiesto come prova «di sradicare un albero ava che era posseduto da un demone e che aveva fatto morire tutti coloro che avevano cercato di smuoverlo».
Dei fratelli, tre vengono divorati dal demone; Tafa’i li fa rivivere e rinuncia poi di buon grado alla mano della principessa. […]
Frattanto Ištar, schernita e offesa, sale al cielo furibonda e strappa ad Anu la promessa di mandare il Toro del Cielo a vendicarla. Il Toro discende, orribile a vedersi. Con il primo sbuffo abbatte cento guerrieri. Ma i due eroi gli tengono testa: Enkidu lo afferra per la coda e Gilgameš, a mo’ di espada, riesce a colpirlo a morte tra le corna.
Gli artigiani della città ammirano le dimensioni di quelle corna: «trenta libbre era il loro contenuto di lapislazzuli» (il lapislazzuli era il colore sacro allo Stige; in Messico il suo equivalente è il turchese).
Ištar compare sulla mura di Uruk e maledice i due eroi che l’hanno umiliata, ma Enkidu strappa via la coscia destra del Toro del Cielo e gliela scaglia in faccia con brutali parole di scherno.
Il gesto sembra far parte della normale procedura di quell’ambiente: Susanowo aveva fatto altrettanto con la dea-sole Amaterasu, e così pure Odino, il Cacciatore Feroce, con l’uomo che l’aveva ostacolato.
Segue una scena di trionfo e di esultanza popolare. Ma gli dèi hanno deciso che Enkidu deve morire e l’eroe, ammalatosi, ne ha premonizione in un sogno funesto. […]
Gilgameš che, diversamente dal beato Buddha, non è portato alla metafisica, intraprende allora il suo grande viaggio alla ricerca di Utnapištim il Lontano, che dimora alla «bocca dei fiumi» e che potrà forse dirgli come si ottiene l’immortalità.
Giunge al passo del monte di Mâšu («Gemelli») […] e qui l’eroe è colto «da paura e da sgomento» ma, mentre supplica gli uomini-scorpione, questi riconoscono la sua natura in parte divina: lo avvertono che egli sta per attraversare un’oscurità che nessuno ha mai percorso, ma gli aprono la porta.
«Lungo la via del sole [egli andò?], densa è l’oscur[ità e non c’è luce]».
Per un’ora, poi due, poi tre, fino a dodici ore doppie, Gilgameš viaggia nell’oscurità. Finalmente arriva alla luce e si ritrova in un giardino di pietre preziose, corniole e lapislazzuli: qui incontra Siduri, l’ostessa divina «che dimora presso la riva del mare».
Sotto gli sguardi di arcigni filologi, schiavi dell’esatta «verità», non si ardisce prendere alla leggera questo cosiddetto «dato geografico» con la sua aura vagamente surrealistica. Ecco un’ostessa perfettamente divina presso la riva del mare, chiamata con molti nomi in molte lingue diverse.
Il banco della sua osteria dovrebbe essere lungo quanto quelle celebre di Shangai, perché sui suoi scaffali non ci sono solo vino e birra, ma anche bevande più esotiche e antiquate provenienti da varie civiltà, bevande come l’idromele, il Soma, il sura (una specie di brandy), e ancora kawa, pulque, succo di peyote, decotti di ginseng.
Insomma, questa ostessa ha pozioni inebrianti rituali di tutto il mondo, per confortare le anime meste cui è stata negata la bevanda dell’immortalità: in fondo potremmo chiamarle tutte semplicemente Lethe.
Coscienziosi traduttori hanno concluso in tutta serietà che il «mare» sulla riva del quale dimora l’ostessa sia il Mediterraneo, ma vi sono anche stati pareri favorevoli alle montagne dell’Armenia. Eppure l’itinerario dell’eroe suggerisce piuttosto il paesaggio celeste e gli uomini-scorpione andrebbero cercati nei dintorni dello Scorpione, tanto più che λ e υ Scorpii sono annoverate tra le costellazioni mâšu babilonesi, e questi gemelli, λ e υ, hanno una parte importante, come armi di Marduk, anche nel cosiddetto «Poema della creazione» babilonese.
In ogni modo, Siduri – certo parente prossima degli eddici Ægir e Rán con la loro strana Bierstube, nonché della monaca Gertrude nella cui locanda le anime passavano la prima notte dopo la morte – ha pietà di Gilgameš e del suo aspetto malconcio, ne ascolta la triste storia, ma gli consiglia di tornare a casa e di vivere la sua vita come meglio è capace. Ma Gilgameš insiste perché gli sia mostrata la via che conduce a Utnapištim. […]
Utnapištim, assai arzillo, gli racconta fin nei minimi particolari la storia del Diluvio. Gli dice di come Enki/Ea lo aveva avvertito della decisione di Enlil di eliminare l’umanità, e gli aveva spiegato come costruire l’Arca, senza avvertire gli altri del pericolo imminente.
Utnapištim descrive accuratamente la costruzione e la calafatura della nave: sei ponti, un ikû (acro) di spazio piano, altrettanto per ciascun lato, così che l’imbarcazione è un cubo perfetto, esattamente come gli aveva ordinato Ea.
Questa misura, «1 ikû», è il nome del quadrato di Pegaso e anche del tempio di Marduk in Babilonia, com’è noto dal rito babilonese del Capodanno, dove si dice: «stella ikû, Esagil, immagine del cielo e della terra». […]
La storia [del Diluvio] finisce quasi esattamente come quella di Noè, con l’approdo sulla montagna, solo che Noè invia prima un corvo e poi, per due volte, la colomba, mentre Utnapištim libera la colomba, la rondine e il corvo.
Quando Enlil si mostra ancora adirato perché una famiglia è riuscita a scampare, Enki/Ea, «colui che solo comprende ogni cosa», lo redarguisce: «Come, come hai potuto cagionare questo diluvio senza riflettere?» e aggiunge severamente che Enlil avrebbe potuto limitarsi a punire i peccatori risparmiando gli innocenti – osservazione su cui ancor oggi si trovano a dover meditare i pii esegeti della Bibbia.
Poi Enlil salì fino all’Arca, chiese scusa a Utnapištim e a sua moglie, e concedette loro «di essere come noi dèi. Lontano, alla bocca dei fiumi, dimorerà Utnapištim».
«Ma quanto a te – conclude il vecchio rivolgendosi a Gilgameš – chi per te riunirà gli dèi in assemblea, perché tu possa trovare la via che cerchi? Orsù, non dormire per sei giorni e sette notti».
C’è qui un velato suggerimento: […] gli sta dicendo in sostanza questo: «Giovanotto, sei giunto nella terra dove il tempo si è fermato, e l’immortalità che ci è stata concessa consiste nel rimanere coscienti e partecipi della verità senza essere del tutto desti. Ora provaci tu».
Ma Gilgameš non ci riesce: «Mentre se ne sta lì, accovacciato, il sonno si abbatte su di lui come una tempesta di pioggia». […]
Les jeux sont faits. Gilgameš riceve un cambio di indumenti e l’ordine di andare a casa, gli farà da scorta il barcaiolo Uršanabi: evidentemente per lui non c’è ritorno a pî nârâti, alla bocca dei fiumi. Ma all’ultimo istante, la moglie di Utnapištim dice al marito: «Gilgameš è giunto fino a qui, si è affaticato, si è logorato; che cosa gli darai tu con cui possa ritornare alla sua terra?».
Utnapištim ha compassione dell’eroe e così gli parla: «Gilgameš, io ti rivelerò una cosa segreta […]. C’è una pianta simile a uno spino […]. Come una rosa (?) la sua spina ti pungerà le mani. Se le tue mani otterranno quella pianta, [tu troverai nuova vita]».
«Nuova vita» è un’espressione che può trarre in inganno; Speiser osserva: «Si noti che è un processo di ringiovanimento, non l’immortalità».
Per impadronirsi della pianta, la quale a quanto pare cresce in un cunicolo che porta all’Apsû e che l’eroe deve aprire, Gilgameš s’immerge nel profondo, zavorrandosi con delle pietre.
Ma più tardi, sulla via del ritorno insieme con il barcaiolo, si ferma a un pozzo per fare il bagno e un serpente (alla lettera: un leone di terra) viene su dall’acqua, afferra la pianta e, ritornando in acqua, muta la pelle.
L’ultima speranza è svanita – o almeno così pare nelle traduzioni …
(Santillana-von Dechend, Il mulino di Amleto)