Giuseppe stava ad ascoltare senza affettazione, in un atteggiamento semplice e dignitoso. Mentre Faraone descriveva, egli teneva gli occhi chiusi, e questo fu l’unico segno esteriore dell’intima partecipazione e del raccoglimento del suo spirito per ciò che ascoltava. E fece ancora una cosa, seguitò a tenere per un poco gli occhi chiusi, anche quando Amenhotep ebbe cessato di raccontare e aspettava col fiato sospeso. Andò tanto oltre, che lo fece aspettare ancora un po’ e tenne gli occhi chiusi pur sapendo che Faraone era ansioso e lo guardava fissamente. C’era molta calma nella loggia cretese. Soltanto la madre dea tossiva sonoramente e faceva tintinnare le sue collane e i suoi orecchini.
«Dormi, agnello?» domandò finalmente Amenhotep con voce esitante.
«No, son qui» rispose Giuseppe, aprendo senza fretta gli occhi davanti a Faraone. Ma più che guardar lui si può dire che guardava attraverso lui. Il suo sguardo si frangeva pensoso sulla persona del re e ritornava in se stesso; e ciò stava molto bene ai suoi occhi neri che erano quelli di Rachele.
«E che dici dei miei sogni?».
«Dei tuoi sogni? – replicò Giuseppe. – Vuoi dire: del tuo sogno. Sognare due volte non significa avere due sogni. Tu hai sognato un unico sogno. Che tu l’abbia sognato due volte, prima in una forma e poi in un’altra, è solo una conferma che il tuo sogno si avvererà certamente, e al più presto. Inoltre la seconda forma spiega ed esemplifica soltanto quel che intendeva dire la prima».
«La mia Maestà l’aveva subito pensato! – esclamò Amenhotep. – Mamma, questo che ora dice l’agnello, cioè che in fondo i due sogni sono uno solo, fu il mio primo pensiero. Sognai il bestiame florido e il miserabile, e poi fu come se qualcuno mi dicesse: “Mi hai tu ben compreso? Questo è il significato”. E poi sognai le spighe, le turgide e le ingolpate. Anche l’uomo parla per esprimersi e poi ritenta ancora una volta e dice: “In altre parole è così e così”. Mammina, il profetico giovinetto che non getta bava dalla bocca ha cominciato bene. Il principio dell’interpretazione è buono. I cialtroni della Casa dei Libri hanno sbagliato subito fin dall’inizio, e perciò anche in seguito nulla di buono poté venire da essi. Bene, continua pure, o profeta, e interpreta. Qual è il vero significato del mio duplice sogno di re?».
«Il significato è uno solo, come un solo paese sono i due paesi e duplice è il sogno come la tua corona – rispose Giuseppe. – Non volevi tu dir questo con le tue ultime parole e non lo dicesti in maniera imprecisa ma non casuale? Quello che intendevi dire lo rivelasti con la parola “sogno di re”. Nel tuo sogno portavi corona e coda, così io ho sentito nel buio. Tu non eri Amenhotep, ma Nefer-Cheperu-Rê, il re. Dio parlò al re per mezzo di sogni. Mostrò a Faraone quel che progetta per il futuro, affinché egli sappia e prenda le sue provvidenze conformemente all’indicazione».
«Esattamente così! – esclamò di nuovo Amenhotep. – Mamma, niente fin da principio fu più chiaro alla mia Maestà di quel che ora mi dice l’agnello: che cioè non ero io a sognare, ma il re, naturalmente per quel che l’uno possa venir separato dall’altro e per quel che il mio io non era appunto necessario affinché il re sognasse. Non l’ha saputo subito Faraone e subito la mattina dopo non ti ha giurato che il doppio sogno era importante per l’impero e che perciò bisognava assolutamente interpretarlo? Ma questo sogno venne inviato al re non nella sua qualità di padre, ma di madre dei due paesi: poiché duplice è la natura del re. Il sogno riguardava cose del quotidiano bisogno e del sotterraneo buio: questo io subito seppi e questo no. Ma altro ancora non so – disse all’improvviso, come risovvenendosi. – Da che cosa dipende che la mia Maestà dimentica completamente che altro ancora non sa e che la spiegazione ancora non è stata data? Tu hai una maniera speciale – disse rivolgendosi a Giuseppe – di presentare le cose lietamente, come se tutto fosse già stato risolto e compiuto, mentre finora tu non hai fatto che presagirmi quello che io già sapevo. Ma che cosa significa questo sogno e che cosa voleva annunziarmi?».

«Faraone sbaglia – replicò Giuseppe – se crede di non saperlo. Questo servo non può predirgli altro che quello che egli già sa. Non vedesti tu le vacche come salivano dal fiume, l’una dopo l’altra, in fila, prima le grasse e poi le magre, così che non vi fu nessuna interruzione nella loro fila? Che cosa sale così dal serbatoio dell’eternità non l’uno accanto all’altro, ma l’uno dopo l’altro, in fila indiana, in modo che non c’è nessun intervallo tra quelli che vanno e quelli che vengono e non c’è interruzione nella fila?».
«Gli anni!» esclamò Amenhotep mentre, sporgendosi in avanti, faceva schioccare le dita.
«Naturalmente – confermò Giuseppe. – Tutto ciò non ha bisogno di salire da una caldaia e non è proprio necessario versare bava dalla bocca e stralunare gli occhi per sapere che le vacche sono anni, sette e sette. E le spighe che crebbero successivamente, l’una dopo l’altra, in egual numero, saranno forse qualcosa del tutto diversa e straordinariamente difficile da indovinare?».
«No» rispose Faraone, e fece di nuovo schioccare le dita; «anch’esse sono anni».
«Sempre, comunque, secondo la ragione di Dio – rispose Giuseppe – e a questa bisognerebbe lasciar l’onore. Ma per sapere come mai nella seconda forma del tuo sogno le vacche divennero spighe, sette spighe piene e sette spighe vuote, e quale intimo rapporto ci sia tra la bellezza delle sette vacche che vennero per prime e la bruttezza di quelle che le seguirono, ah, sì, per sapere questo ci vuole una caldaia grande come la luna. Faraone abbia la grazia di far venire una caldaia su un tripode».
«Ma va’ con la tua caldaia! – esclamò nuovamente il re. – È questo il momento di parlar di caldaia, e ne abbiamo proprio bisogno? Il rapporto ci sta chiaro davanti agli occhi, è trasparente come una pietra preziosa dell’acqua più pura. La bellezza e la bruttezza delle vacche trovano il loro parallelo nel rigoglioso crescere e nel mancato sviluppo delle spighe».
Tacque un istante con occhi sbarrati, guardando nell’aria. «Sette anni grassi – disse spaventato – e sette anni di carestia».
«Certo e senza indugio – disse Giuseppe – perché due volte ti fu annunziato».
Faraone volse gli occhi su di lui.
«Tu non sei caduto morto dopo la profezia» disse con una certa ammirazione.
«Se non suonasse orribile e degno di punizione – rispose Giuseppe – si dovrebbe dire essere strano che Faraone non sia caduto a terra morto, perché è lui che ha predetto».
«No, tu dici soltanto così e da quel figlio di un furbacchione che sei mi hai presentato la cosa in tal modo – obiettò Amenhotep – come se io stesso avessi presagito e interpretato i miei sogni. Ma perché non seppi farlo prima che venissi tu, e perché sapevo solo quel che era falso ma non quel che era vero? Che questa interpretazione sia vera, di ciò nella mia anima non v’è ombra di dubbio e il mio proprio sogno si riconosce esattamente nell’interpretazione. Tu sei davvero un agnello ispirato, ma nuovo e originale. Tu non sei schiavo del modello divinatorio tradizionale, non mi hai predetto prima la benedizione e poi il flagello; la cosa originale è questa!».
«Fosti tu, o signore dei paesi – rispose Giuseppe – e dipendeva da te. Tu infatti hai sognato prima le vacche grasse e le spighe rigogliose e poi le miserabili. L’unico originale sei tu».
Amenhotep si sollevò con una certa fatica dal fondo della seggiola e balzò in piedi. Con rapidi passi si mosse sulle gambe stranamente grosso-sottili, le cui cosce apparivano attraverso la batista, e andò avanti al seggio della madre.
«Mamma – disse – siamo proprio a questo: i miei sogni di re sono stati interpretati, e io ora so la verità. Se penso al dotto ciarpame che mi si voleva vendere come verità, alle figlie, le città, i re, i quattordici bambini, mi vien da ridere. Tanta stoltezza mi faceva prima disperare, ma ora che, grazie a questo profetico giovane, so la verità, mi fa ridere. Certo, la verità è seria. Alla mia Maestà fu annunziato che in tutto l’Egitto verranno sette anni ricchi e dopo questi sette anni di carestia, tanto terribili che si dimenticherà del tutto la precedente abbondanza. La carestia consumerà il paese proprio come le vacche magre divorarono le grasse e le spighe bruciate le spighe d’oro. E ci è stato annunziato che della precedente abbondanza non si saprà più nulla perché la carestia sarà così assoluta, così radicale da cancellarne perfino il ricordo. Ciò è quanto fu rivelato a Faraone per mezzo dei suoi sogni che erano un sogno solo e che gli furono dati come a madre del paese. Non capisco come ci sia rimasto oscuro fino a quest’ora. Adesso è stato portato alla luce con l’aiuto di questo autentico agnello, pur così diverso dagli altri. Come io ero necessario affinché il re sognasse, così egli era necessario affinché l’agnello potesse predire. Il nostro essere è solo il punto di incidenza tra il non essere e il sempre essere, e la nostra esistenza temporale è il solo mezzo attraverso cui l’eternità si manifesta. Ma questo non è tutto. La domanda, il problema che vorrei porre ai pensatori della casa di mio padre è questo: ciò che è temporalmente unico e particolare riceve più valore e dignità dall’eterno, o questo da ciò che è unico e particolare? Ecco un problema insolubile, uno di quei problemi su cui si può meditare all’infinito da sera a mattina».
Ma vedendo Teje scuotere il capo, si interruppe.
«Meni – disse ella – la tua Maestà è incorreggibile. Prima ci hai costretto a stare a sentire i tuoi sogni, che tu credevi importanti per l’impero e volevi assolutamente interpretati, affinché non si interpretassero da sé, senza nessun impedimento. Ma ora che hai, o credi di avere l’interpretazione, ti comporti come se con ciò fosse fatto tutto, dimentico della predizione che le tue stesse labbra hanno annunziato ti perdi in problemi belli ma insolubili, in remote astrazioni. E questo modo di comportarsi è materno? Non vorrei nemmeno dirlo paterno e non vedo l’ora che costui ritorni donde è venuto e che noi restiamo soli per poterti ammonire senza ritegno dal mio trono di madre. È possibile che questo indovino conosca bene il suo mestiere, e quel che egli dice si avveri. Già nel passato dopo annate ricche e annate misere il Nutritore spesso si ritirò, negò la sua benedizione ai campi, e penuria e carestia strinsero i paesi. Ciò è già accaduto, è accaduto perfino sette volte di seguito, gli annali delle antiche dinastie lo registrano. E può accadere ancora una volta. E forse per questo tu hai fatto il tuo sogno, perché deve accadere di nuovo. Ma se questo è ciò che tu credi, figlio mio, tua madre si deve meravigliare non perché ti rallegri di avere l’interpretazione e perché in un certo senso sei stato tu a farla, ma perché invece di convocare subito tutti i consiglieri e i grandi della corona, per discutere le misure da prendere contro la minacciata calamità, ti abbandoni a considerazioni elegantemente superflue come quella sul punto d’incontro fra “non essere” e “sempre essere”».

«Ma, mammina, abbiamo tempo! – esclamò Amenhotep con un gesto vivace. – Dove non c’è tempo, nessuno si può prendere tempo, ma noi lo possiamo, perché molto tempo sta davanti a noi. Sette anni! E il grande vantaggio, per cui verrebbe quasi voglia di ballare e fregarsi le mani, consiste proprio in questo: che l’agnello, così diverso dagli altri, non era legato a uno schema funesto e non ha predetto l’epoca della maledizione prima dell’epoca della benedizione, ma prima l’epoca della benedizione; e questa durerà sette anni. Tu avresti ragione di sgridarmi se la siccità e il tempo delle vacche rugose cominciassero domani. Allora sì che non ci sarebbe un minuto da perdere, si dovrebbe pensare subito a recare soccorso e a prendere provvedimenti; sebbene la mia Maestà, a essere sinceri, non sappia immaginarsi una provvidenza atta a combattere un’annata senza frutto. Ma poiché l’oscuro regno della fecondità ci concede prima sette annate feconde, sette annate in cui l’amore del popolo per le materne provvidenze di Faraone crescerà come un albero all’ombra del quale egli potrà sedere e bandire la dottrina di suo padre, io non vedo la ragione perché subito al primo giorno … I tuoi occhi parlano, indovino» s’interruppe «tu guardi con indagatrice insistenza. Hai tu da aggiungere qualcosa alla nostra comune interpretazione?».
«No – rispose Giuseppe – solo la preghiera di rimandare il tuo servo al suo luogo, nella prigione, dove egli serviva, e nella fossa da cui tu lo traesti per amor dei tuoi sogni. Il suo compito è finito, la sua presenza non si addice più a lungo nel luogo della grandezza. Egli vivrà nella prigione, illuminato per tutta la vita dal ricordo dell’ora d’oro in cui stette davanti a Faraone, il bel Sole dei paesi, e davanti alla grande madre, che io qui nomino al secondo posto soltanto per necessità di linguaggio: la parola appartiene al tempo ed è perciò costretta a seguire una successione temporale, diversamente dalle arti rappresentative che si rallegrano della contemporaneità. E poiché il nominare le cose appartiene al tempo, la prima parola spetta al re, ma la seconda non è la seconda, perché la madre era prima del figlio. Questo per ciò che riguarda l’ordine di successione. Ma là dove il nostro servo ora fa ritorno, là egli continuerà nei suoi pensieri questo discorso dei grandi nel quale in realtà non potrebbe mischiarsi senza rendersi degno di punizione. Faraone aveva ragione, dirò sommessamente tra me, di rallegrarsi perché l’ordine solito delle profezie si è invertito e questa volta l’epoca felice verrà prima della maledizione e degli anni di siccità. Ma aveva ragione anche la madre che era prima di lui col suo consiglio e il suo monito a provvedere subito, dal primo giorno dell’epoca benedetta, dal giorno stesso dell’interpretazione, ai rimedi contro la futura calamità, non per impedirla – non s’impedisce un decreto di Dio – ma per prevenirla con opportune misure. L’epoca di benedizione che ci è promessa non ha infatti solo il significato di un indugio, di un prender fiato affinché si possa sopportare la dura prova, ma è anche il tempo della previdenza in cui si dispongono i mezzi per tarpare le ali al nero uccello della sventura e non solo combattere e frenare il male imminente, ma forse trarne un vantaggio. Così, o qualcosa di simile, io dirò tra me nel carcere, perché arrischiare le mie parole nei discorsi dei grandi non mi sarebbe mai lecito. Quale cosa grande e magnifica, esclamerò a bassa voce fra me, è la previdenza che alla fine riesce a trasformare in benedizione perfino la maledizione! E come grande è la misericordia di Dio che concede al re di guardare nei suoi sogni tanto lontano nel tempo, non solo per sette anni, ma subito per ben quattordici. E proprio in questo consiste la grazia che gli è concessa: nell’esortazione alla previdenza. I quattordici anni sono infatti un solo tempo anche se suddivisi in due volte sette, essi non cominciano dal mezzo ma dal principio, cioè da oggi, e oggi è il giorno in cui l’occhio già tutto vede e provvede. E tutto vedere e provvedere è previdenza sapiente».
«Ma questo è pur strano – osservò Amenhotep. – Hai tu ora parlato o non hai parlato? Tu hai parlato non parlando e ci facesti ascoltare solo i tuoi pensieri, quelli cioè che ti riprometti di pensare. E tuttavia è come se tu avessi parlato. Mi sembra tu abbia fatto un’invenzione da furbo e creato qualcosa che prima non esisteva».
«Ogni cosa esiste una volta per la prima volta – rispose Giuseppe. – Ma da molto tempo esistono la previdenza sapiente e il giudizioso impiego del tempo concesso. Se Dio avesse posto l’epoca di maledizione prima di quella di benedizione, se essa cominciasse domani, allora ogni consiglio sarebbe inutile, nulla ci sarebbe da fare, i danni che la carestia recherebbe fra gli uomini non potrebbero essere compensati nemmeno dall’abbondanza successiva. Ma in questo caso è tutto l’opposto, ed è tempo che non si sperperi ma che si rimedi alla mancanza per mezzo dell’abbondanza, affinché tra le due si stabilisca un equilibrio. Questo è l’insegnamento che si nasconde nella successione: prima le vacche grasse e poi le magre. Il Signore che tutto vede e provvede è chiamato a far da nutritore nel periodo della mancanza».
«Tu pensi che si debba ammucchiare cibo e raccoglierlo nei granai?», domandò Amenhotep.
«In quantità enorme – rispose Giuseppe con fermezza. – In tutt’altra misura di come si sia mai fatto finora, da quando esistono i paesi. Il Signore che tutto vede e provvede diventi il supremo moderatore dell’abbondanza. Egli la domini severamente e, finché essa dura, tolga giorno per giorno tutto quel che occorre per dominare in seguito la mancanza. Faraone sarà la fonte dell’abbondanza e l’amore del popolo sopporterà facilmente che egli la amministri con dura severità. Ma se poi egli potrà distribuire nella mancanza, come crescerà allora il fiducioso amore del popolo verso di lui! E all’ombra di quell’amore egli potrà sedere e insegnare. Il Signore che tutto vede e provvede diverrà così l’ombra protettrice del re».
Detto questo, gli occhi di Giuseppe incontrarono per caso quelli della grande madre, che piccola, oscura, sedeva sempre dritta e divinamente composta sul suo alto seggio, coi piedi strettamente uniti; i suoi occhi intelligenti, acuti, splendenti oscuri nel volto oscuro erano rivolti su di lui, mentre i solchi intorno alla bocca sporgente formavano un sorriso ironico. Dinanzi a quel sorriso egli chinò serio le palpebre, non senza una pudica occhiata come d’intesa.
«Se io ti ho ben compreso – disse Amenhotep – questo è il tuo parere ed esso concorda con quello della mamma: io dovrei subito, senza prendermi tempo, convocare un’adunanza dei consiglieri e dei grandi affinché decidano come imporre norma alla abbondanza per dominare la mancanza».
«Faraone – disse Giuseppe – non ha finora avuto molta fortuna con le adunanze quando si trattava di interpretare il suo sogno della corona, il duplice sogno. Egli lo interpretò da sé e trovò la verità. A lui solo fu inviato l’annunzio, a lui solo fu data la possibilità di conoscere tutto; e a lui solo spetta di amministrare ogni cosa e di prendere misure per regolare l’abbondanza che viene prima della siccità. Debbono essere per la loro ampiezza e importanza misure straordinarie, quali non furono mai prese, ma le misure che sogliono prendere le adunanze sono di ordinaria amministrazione. Uno ha sognato e interpretato: e uno decida ed esegua».
«Faraone non esegue quel che decide – disse freddamente Teje, la madre, guardando ora Giuseppe ora il figlio. – Immaginarsi una cosa simile è da ignorante. Ammesso pure che egli decida di sua testa le misure da prendersi e qualora, s’intende, si debba agire secondo questi sogni, dovrà affidarne l’esecuzione ai grandi, i due visir del Sud e del Nord, l’amministratore dei granai e dei macelli pubblici e il sovrintendente della Casa del Tesoro».
«Appunto questo – disse Giuseppe con stupore – io pensavo di dire tra me nella fossa, qualora avessi proseguito in pensiero il colloquio dei grandi. Esattamente queste parole, compreso anche “Immaginarsi una cosa simile è da ignorante”, volevo io dire e mettere in bocca alla grande madre per mio castigo. Mi eleva ai miei propri occhi il sentire che ella dice letteralmente quello che io le avrei fatto dire parlando nel carcere con me stesso. Prendo con me la sua parola e se vivrò, nutrendomi laggiù ancora del ricordo di quest’ora sublime, risponderò in spirito e dirò: tutte le mie idee sono idee di un ignorante, ma c’è un’eccezione. Nella mia ignoranza io non ho mai pensato che Faraone, il bel Sole dei paesi, esegua quel che ha deciso e non lasci piuttosto l’esecuzione a servi provati dicendo: “Io sono Faraone! Tu devi essere come sono io: avrai da me pieni poteri in questa cosa in cui ti ho provato, sarai l’intermediario tra me e gli uomini, tra il sole e la terra, per mutare in benedizione la minaccia sospesa su me e sui paesi”. No, la mia ignoranza non è così grande, deve soffrire questa eccezione e chiaramente odo in spirito Faraone parlare così: “Non a molti ma a uno”. E io dirò ancora quando nessuno mi ascolta: “In questo caso parecchi non vanno bene. Uno solo, come sola è la luna tra le stelle, sia l’intermediario tra il cielo e la terra, colui che conosce i sogni del Sole. Misure straordinarie si richiedono; e già solo per scegliere colui che dovrà attuarle, altrimenti non diverranno straordinarie, ma moderate, ordinarie e insufficienti. E perché? Perché non verranno attuate dalla fede e dalla previdenza sapiente. Racconta a parecchi i tuoi sogni: vi crederanno e non vi crederanno, ognuno avrà solo una parte di fede e una parte di previdenza, ma tutte le singole parti riunite non hanno l’intera fede e non danno l’intera previdenza, che sono necessarie e che si ritrovano solo presso uno solo. Perciò Faraone cerchi un uomo accorto e saggio, in cui sia lo spirito dei sogni, lo spirito che tutto vede e provvede, lo spirito della previdenza, e lo ponga sopra l’Egitto con le parole “Sii come me”, affinché di lui si dica come nel canto: “Fu lui che tutto vide sino ai confini del paese e che disciplinò l’abbondanza con provvidenze non mai ancora adottate, per largire al re la sua ombra nei giorni della penuria”. Queste sono le mie parole, che io dirò un giorno fra me nella fossa, perché dirle qui dinanzi agli dèi sarebbe la più grossolana indiscrezione. Vorrà ora Faraone licenziare il servo dal suo cospetto, affinché lasci il sole e torni nella sua ombra?».
E Giuseppe fece una mossa verso la portiera delle api e un gesto del braccio che domandava se poteva andarsene.
Che gli occhi della madre-dea lo guardassero severamente, che le pieghe di amara esperienza intorno alle sue labbra si approfondissero in un sorriso ironico, questo egli di proposito non volle vederlo.
(Mann, Giuseppe il nutritore)