Qualsiasi corpo o parte può servire funzionalmente allo stesso modo, purché sia assoggettato alla medesima disciplina erotica: è necessario e sufficiente che sia il più chiuso, il più liscio possibile, senza pecche, senza orifizi, senza «difetti», qualsiasi differenza erogena essendo scongiurata dalla barra strutturale che designa questo corpo (nel duplice senso della designazione e del design), barra visibile nel vestito, nel gioiello o nel belletto, invisibile nella nudità totale, ma sempre presente, perché avvolge allora il corpo come una seconda pelle.
Caratteristica è in questo senso l’onnipresenza del discorso pubblicitario del «quasi nuda», del «nuda senza esserlo, come se lo fosse», dei collant nei quali «siete ancora più nuda che al naturale»: tutto questo per riconciliare l’ideale naturalistico di vivere il proprio corpo «in diretta» con l’imperativo commerciale del plusvalore. Sorvoliamo.
La cosa più interessante è che la vera nudità trova qui la sua definizione come nudità seconda: è quella del collant X o Y, del velo trasparente «tale che la sua trasparenza vi cambia in voi stessa».
Molto spesso, d’altronde, questa nudità è sostituita dallo specchio – in ogni modo, è nella duplicità che la donna lega «il corpo di cui sogna: il suo».
E, una volta tanto, il mito pubblicitario ha qui rigorosamente ragione: non c’è nessun’altra nudità che quella che si raddoppia nei segni, che s’avvolge nella sua verità significata e che restituisce, come uno specchio, la regola fondamentale del corpo in materia erotica: quella di diventare, per essere celebrata fallicamente, la sostanza diafana, liscia, depilata, d’un corpo glorioso e asessuato.
L’esempio perfetto ne è la donna dipinta d’oro del film Goldfinger (James Bond): tutti gli orifizi tappati, è il maquillage radicale, che fa del suo corpo un fallo impeccabile (che sia d’oro non fa che sottolineare l’omologia con l’economia politica), e che certamente equivale alla morte.
La play girl nuda verniciata d’oro morirà per aver incarnato fino al limite dell’assurdo il fantasma dell’erotico.
Ma accade lo stesso a qualsiasi pelle nell’estetica funzionale, nella cultura di massa del corpo. Collant, guaine, calze, guanti, vestiti e indumenti «aderenti al corpo», senza contare l’abbronzatura: è sempre il leitmotiv della «seconda pelle», è sempre la pellicola trasparente che vetrifica il corpo.
Di per sé, la pelle non si definisce come «nudità», ma come zona erogena: medium sensuale di contatto e di scambio, metabolismo dell’assorbimento e dell’escrezione. Questa pelle porosa, forata, orifiziale, nella quale il corpo non finisce e che solo la metafisica istituisce come linea di demarcazione del corpo, è negata a vantaggio di una seconda pelle non porosa, senza essudazione né escrezione (tranne la secrezione «nobile» delle lacrime, ma con quali precauzioni!), né calda né fredda (è «fresca», è «tiepida», è «vellutata»), senza spessore proprio (la «trasparenza della tinta»), soprattutto senza orifizi (è «liscia»). Funzionalizzata come un rivestimento di cellofan.
Tutte queste qualità (freschezza, morbidezza, trasparenza, levigatezza) sono delle qualità di chiusura – grado zero risultante dalla negazione degli estremi ambivalenti. Anche la sua «giovinezza»: il paradigma giovane/vecchio vi si neutralizza in una immortale giovinezza di simulazione.
Questa vetrificazione della nudità va accostata alla funzione ossessiva di rivestimento protettivo degli oggetti: cerati, plastificati, ecc., e del lavoro di spazzolatura, di ripulitura, che mira a rimetterli perpetuamente in stato di purezza, d’astrazione impeccabile – e quindi a sbarrare la loro secrezione (patina, ossidazione, polvere), a impedire loro di crollare e a mantenerli in una specie di immortalità astratta.
Nudità «design-ata», essa non sottintende nulla dietro la rete di segni che tesse, soprattutto non un corpo: né un corpo di lavoro, né un corpo di piacere; né un corpo erogeno, né un corpo straziato – essa come B. B. che è «bella perché riempie esattamente il suo vestito» – equazione funzionale senza incognita.
Rispetto alla pelle dello scorticato, sotto la quale palpitano i muscoli, il corpo moderno rientra molto di più nella sfera del gonfiabile, tema illustrato da una sequenza umoristica di «Lui», in cui si vedeva la spogliarellista, al termine del suo spogliarello, fare un ultimo gesto: si strappava l’ombelico e si sgonfiava immediatamente – mucchietto di pelle sul palcoscenico.
Utopia della nudità, del corpo presente nella sua verità: è tutt’al più l’ideologia del corpo che può essere rappresentato.
Un indigeno (non ricordo più quale) diceva: «Il corpo nudo è una maschera inespressiva che nasconde la vera natura di ciascuno». Con ciò intendeva dire che il corpo ha senso solo quando è marcato, rivestito d’iscrizioni.
Il rajah d’Alphonse Allais, fanatico della denotazione e della verità, traduceva tutto questo nella maniera inversa: non contento di aver fatto spogliare la baiadera, la fa scorticare viva.
Da nessuna parte il corpo è questa superficie dell’essere, questa spiaggia vergine e senza tracce, questa natura. Non ha assunto questo valore «originale» che nella rimozione – e liberarlo in quanto tale, secondo l’illusione naturalistica, significa liberarlo in quanto rimosso.
La sua stessa nudità si ritorce allora contro di lui e lo aureola d’una censura aerea e ineluttabile: la seconda pelle.
Perché la pelle, come qualsiasi segno che assume valore di segno, si raddoppia nella significazione: essa è sempre già la seconda pelle. Non è l’ultima, ma è sempre l’unica.
In questa ridondanza della nudità-segno, che lavora a restituire il corpo come fantasma di totalizzazione, ritroviamo la speculazione infinita del soggetto della coscienza attraverso la sua immagine nello specchio – che capta e risolve formalmente nella duplicazione la divisione irriducibile del soggetto.
I segni inscritti sul corpo, e in cui si exinscrive la pulsione di morte, non fanno mai che ripetere sul materiale corporeo questa operazione metafisica del soggetto della coscienza.
È attraverso la pelle che si fa rientrare la metafisica degli spiriti.
(Artaud)
Chiusura dello specchio, raddoppiamento fallico del marchio: in entrambi i casi il soggetto seduce se stesso. Seduce il proprio desiderio, e lo scongiura nel proprio corpo raddoppiato dai segni.
Dietro lo scambio dei segni, dietro il lavoro del codice, che funge da fortificazione fallica, il soggetto può nascondersi e riscoprirsi: nascondersi al desiderio dell’altro (alla propria mancanza), e in qualche modo vedere (vedersi) senza essere visto.
La logica del segno si ricongiunge con la logica della perversione.
È qui importante fare una distinzione radicale fra il lavoro d’iscrizione e di marchio al livello del corpo nelle società «primitive» e nel nostro sistema contemporaneo. Troppo facilmente li si confonde nella categoria generale dell’«espressione simbolica» del corpo. Come se il corpo fosse sempre stato quello che è, come se il tatuaggio arcaico avesse il medesimo senso del maquillage, come se esistesse, al di là di tutte le rivoluzioni del modo di produzione, un modo di significazione immutato dall’inizio dei tempi fino nella sfera dell’economia politica.
Al contrario delle nostre, dove i segni si scambiano sotto il regime d’un equivalente generale, o dove hanno valore di scambio in un sistema d’astrazione fallica e di saturazione immaginaria del soggetto, la marcatura del corpo e la pratica delle maschere nella società arcaica hanno come funzione l’attualizzazione immediata dello scambio simbolico, dello scambio/dono con gli dèi o all’interno del gruppo – scambio che non è negoziazione da parte del soggetto della propria identità dietro la maschera o la manipolazione dei segni, ma in cui al contrario esso consuma la sua identità, si mette in gioco come soggetto nell’appropriazione/espropriazione – il corpo intero diventando, alla stessa stregua dei beni e delle donne, materiale di scambio simbolico – dove, per dirla tutta, non è ancora emerso (non più che l’astrazione del denaro) lo schema standard della significazione, il nostro Significante/Significato trascendentale, Fallo/Soggettività, che governa tutta la nostra economia politica del corpo.
Quando l’indigeno (lo stesso, forse) dice: «in noi dappertutto è il volto», rispondendo alla domanda del bianco sulla nudità del suo corpo, egli dice con questo che tutto il corpo (il quale d’altronde non è mai nudo, come abbiamo visto) è lasciato allo scambio simbolico, mentre questo, presso di noi, tende a ridursi soltanto al viso e allo sguardo.
Presso gli indigeni, i corpi si guardano e si scambiano tutti i loro segni, che si consumano in una relazione incessante e non si riferiscono né a una legge trascendentale del valore né a una appropriazione privata del soggetto.
Presso di noi, il corpo si rinchiude sui suoi segni, si valorizza mediante un calcolo di segni che esso scambia sotto la legge dell’equivalenza e della riproduzione del soggetto. Quest’ultimo non si abolisce più nello scambio: esso specula.
È lui, e non il selvaggio, a essere in pieno feticismo: attraverso lo sfruttamento del suo corpo, è lui a essere feticizzato dalla legge del valore.
(Baudrillard, Lo scambio simbolico e la morte)