Ovidio – La triste nascita di Bacco-Dioniso

Ricci-Zeus-Semele
Sebastiano Ricci – Zeus e Semele

Come se non bastasse, ecco un altro motivo di doglianza: alla dea [Giunone] duole che Semele sia stata ingravidata dal seme del grande Giove.
E allora, eccola, che affila la lingua per litigare, ma: «Che beneficio ne ho avuto – dice – tutte le volte che ho litigato? È con lei che me la devo prendere, e – quant’è vero che mi chiamo Giunone la suprema – la distruggerò, se davvero mi si addice impugnare nella destra lo scettro di gemme, e sono regina e sorella e sposa di Giove; sorella, perlomeno. Toh, posso pensare che lei si contenta di un’avventura furtiva e che l’oltraggio al nostro letto è passeggero. Ma come? è incinta! Ci mancava solo questo! con quel pancione va in giro a mettere in piazza la sua colpa e vuole essere madre solo grazie a Giove, cosa che a stento è toccata a me: così tanto confida nella sua bellezza. Le farò vedere che s’inganna: non sono più la figlia di Saturno, se non precipiterà nelle acque dello Stige travolta dal suo Giove!».

Ciò detto, si alza dal trono e, nascosta da una fulva nuvola, si reca a casa di Semele. E non dissolve la nuvola prima d’aver preso l’aspetto di una vecchia, mettendosi capelli bianchi alle tempie, solcando la pelle di rughe e trascinando con passo tremolante le membra ricurve; si rende senile anche la voce, ed eccola: è in tutto e per tutto Beroe di Epidauro, la nutrice di Semele.
E così attacca discorso e, quando dopo lunghe chiacchiere arrivano a fare il nome di Giove, sospira e dice: «Ti auguro che sia proprio Giove, ma temo che sia tutto un inganno: quello di spacciarsi per dio, è un trucco che usano in tanti per intrufolarsi nei letti più pudichi. E poi c’è che non basta essere Giove; ti dia un pegno del suo amore, se è vero amore, e quanto e quale è accolto dalla divina Giunone, tanto e tale sentendosi da te desiderato, ti stringa tra le braccia assumendo prima le sue sembianze».

Con tali parole Giunone istiga l’ignara figlia di Cadmo. E quella, dapprima, chiede a Giove un dono senza dire quale; al che il dio: «Scegli! – le dice – non ti rifiuterò nulla e, perché tu mi creda di più, mi sia testimone finanche il nume delle acque dello Stige: è un dio perfino lui che fa paura agli dèi!».
Felice del proprio danno, troppo libera di decidere e destinata a morire per la condiscendenza dell’amante, Semele risponde: «Come la figlia di Saturno suole abbracciarti, quando fate all’amore, così concediti a me!».

Avrebbe voluto il dio tapparle la bocca mentre parlava: ma la voce le era uscita frettolosamente di bocca. Mandò un gemito: infatti, né lei può più ritirare la richiesta, né lui il giuramento. Perciò, tristissimo sale in alto nel cielo e con uno sguardo raduna le nuvole a lui fedeli, a cui aggiunge nembi e lampi misti al vento, nonché tuoni e l’immancabile fulmine.
Tuttavia, per quanto può, tenta di scemare le sue forze e questa volta non si arma del fuoco con cui aveva abbattuto Tifone dalle cento braccia: sarebbe stato troppo selvaggio.
C’è un altro fulmine, più leggero, in cui le mani dei Ciclopi hanno messo meno crudeltà e fiamma, e meno rabbia: gli dèi lo chiamano «la seconda saetta». Giove prende questo ed entra nella casa della nipote di Agenore. Il corpo mortale di lei non sopporta il bagliore e il nuziale dono la brucia.

Un bimbo non ancora pienamente formato viene tratto dal grembo materno, e acerbo com’è – se è cosa che merita di essere creduta – viene cucito in un polpaccio paterno per completare la gestazione.
Di nascosto la zia materna Ino lo alleva nei primi tempi, quelli della culla; poi lo affida alle ninfe di Nisa che lo nascondono nelle loro grotte e lo nutrono di latte.

(Ovidio, Metamorfosi, 3: 259-315)