Faraone adagiato sui cuscini del suo artistico letto, elevato su un podio nel mezzo della stanza, la cui parete centrale era ornata di finissimi lavori d’avorio rappresentanti sciacalli, montoni e figure di Bes, cadde quasi subito nel sonno dell’esaurimento, ma per poco tempo. Infatti dopo un paio d’ore di torpore profondo cominciò a sognare, e fece sogni così confusi, angosciosi e assurdamente vivi, come solo da bambino aveva fatto quando aveva la febbre per il mal di gola. Ma non sognò affatto di Bennu, l’uccello padre senza peso, e nemmeno del raggio di sole immateriale, ma tutto l’opposto.
Sognò di trovarsi sulla riva di Hapi, il Nutritore, in un punto deserto, dov’erano acquitrino e sodaglia. Portava sul capo la mitra rossa, corona dell’Egitto inferiore, al mento la barba, e dalla parte superiore del grembiule gli pendeva la coda dell’animale. Era là solo, col cuore triste, e teneva sul braccio il pastorale. All’improvviso, non lontano dalla riva, si sentì uno sciacquio e dalle acque uscì fuori qualcosa in numero di sette: sette vacche salivano a riva, che evidentemente erano state fino allora in acqua come sogliono le bufale e ora andavano l’una dietro l’altra in una fila; sette senza toro.
Non c’era toro, ma solo le sette vacche. Magnifiche vacche, bianche, nere, con dorsi più chiari, anche grigie con ventre più chiaro, due anche pezzate, con macchie come segni: vacche così belle, lucenti, grasse, con mammelle gonfie, con occhi dalle lunghe ciglia come Hathor e alte corna ricurve in forma di lira; e cominciarono a pascolare placidamente nel canneto della riva. Il re non aveva visto mai in tutto il paese un bestiame così magnifico; mettevano in mostra la lucida prosperità dei loro corpi, e il cuore di Meni avrebbe voluto rallegrarsi alla loro vista, ma non poté, rimase triste e preoccupato … per essere invaso poco dopo da spavento e terrore.
Dopo quelle sette infatti non si interruppe la fila: ancora altre vacche uscirono dall’acqua, e non ci fu nessuna interruzione tra queste e quelle. Altre sette vacche vennero a riva, anch’esse senza toro; ma quale toro avrebbe potuto desiderarle? Faraone rabbrividì nel vederle: erano le vacche più brutte, più magre, più affamate che egli avesse mai visto in vita sua, le ossa spuntavano dalla pelle rugosa, le mammelle erano come sacchi vuoti, con capezzoli sottili come fili: il loro aspetto empiva di spavento e profondo sconforto, sembrava che quelle povere bestie potessero reggersi appena sulle zampe, eppure il loro contegno era spudoratamente sfacciato, baldanzosamente assassino, contrastante con la loro debolezza e tuttavia figlio della debolezza, perché era il dissoluto contegno della fame.
Faraone vede: la misera mandria si avvicina alla grossa e lucente, le orribili vacche montano sopra le meravigliose, come fanno talora le vacche quando imitano il toro, e così le squallide e brutte divorano e inghiottono le magnifiche, di cui nel prato non rimane più traccia; ma le vacche scarne sono tuttavia ancora più scarne e secche di prima e non mostrano segno di pienezza.
Qui finì questo sogno e Faraone si svegliò sobbalzando dal sonno, in ansia e sudore. Si mise a sedere, col cuore in tumulto, volse lo sguardo intorno nella camera da letto blandamente illuminata e trovò che tutto era stato un sogno, ma un sogno così vivo e immediato che la sua sfrontatezza era stata uguale a quella delle vacche affamate del fiume, e il sognatore se ne sentiva ancora atterrito.
Non poteva restare più a letto: si alzò, indossò la vestaglia di lana bianca, e girava per la camera meditando su quel sogno insistente, assurdo, ma tangibilmente chiaro. Volentieri avrebbe svegliato lo schiavo, per raccontargli il sogno, o piuttosto per provare se era possibile rendere con parole quel sogno. Ma era troppo delicato per svegliare il vecchio, che aveva fatto aspettare fino a notte tarda. Sedette sulla poltrona dai piedi bovini al lato del letto, si avvolse più strettamente nel mantello per la notte e coi piedi sullo sgabello, e rannicchiato in un angolo della poltrona si riaddormentò.
Ma appena addormentato sognò di nuovo: era la stessa cosa, di nuovo, o meglio, ancora egli stava solitario presso la riva del fiume, con la corona e la coda, e là c’era proprio un pezzo di terra nera coltivata. Ed egli vede: la terra fertile s’increspa, si solleva un poco e uno stelo ne spunta, dal quale germogliano sette spighe, l’una dopo l’altra, tutte sul medesimo stelo, spighe grasse e sode, gonfie di frutto, spighe dorate che si curvano nella loro pienezza. Il cuore vorrebbe rallegrarsi, ma non può, perché subito dopo dallo stelo qualche altra cosa germoglia: ancora una volta vengono fuori sette spighe, misere spighe, vuote, morte, secche, bruciate dal vento dell’Est, annerite dalla golpe e dalla ruggine; e come spuntano miseramente da sotto le grasse, queste scompaiono, quasi scomparissero dentro a quelle, ed è proprio come se le spighe magre inghiottissero le grasse, come poco prima le vacche smunte avevano inghiottito le lucide, ma non diventano né più grasse né più piene. Questo vide Faraone coi propri occhi, tangibilmente; e balzò su dalla sedia, e vide che tutto era stato un sogno.
Ancora una volta un sogno ridicolmente confuso, un silenzioso delirio, ma parlante all’anima in maniera così insistente e diretta, così ammonitrice e allusiva, che fino al mattino, per fortuna già prossimo, non poté né volle riaddormentarsi. Ma continuamente, alternando la poltrona al letto, pensò a quel doppio sogno cresciuto sul medesimo stelo, un sogno di estrema evidenza, ma che aveva bisogno di interpretazione.
Subito decise di non lasciar passare sotto silenzio un tale sogno, di non tenerlo per sé, ma di farne un caso e di richiamare su di esso l’attenzione generale. Sognando egli aveva portato corona, pastorale e coda, dunque erano sogni di re e senza dubbio importanti per l’impero, sogni stranissimi, nuovi, preoccupanti, era impossibile non divulgarli e non tentare ogni mezzo per penetrare nel loro segreto e scoprire il loro significato evidentemente minaccioso.
Meni era addirittura indignato contro i propri sogni e, quanto più tempo passava, tanto più li odiava.
Un re non poteva sopportare siffatti sogni, sebbene tali sogni non potessero capitare che a un re. Sotto un re come lui, sotto Nefer-Cheperu-Rê-Vanrê-Amenhotep, non doveva accadere che vacche orribili divorassero vacche così belle e grasse e che tristi spighe bruciate dalla golpe inghiottissero spighe sode e dorate. Nella realtà non doveva accader nulla che corrispondesse a quell’orribile linguaggio simbolico.
Tutto infatti sarebbe ricaduto su di lui, la sua riputazione ne sarebbe stata scossa, orecchi e cuori si sarebbero chiusi al messaggio di Atôn, e a profittarne sarebbe stato Amun. La luce correva pericolo per opera della tenebra, l’elemento spirituale, senza peso, veniva minacciato dal materiale, non c’era dubbio.
L’eccitazione di Faraone era grande: assunse forma d’ira, questa si concretò nella decisione che il pericolo doveva essere svelato e riconosciuto, affinché vi si potesse ovviare.
Il primo a cui aveva raccontato, per ciò che si poteva raccontare, quei sogni, era il vecchio che aveva dormito sulla soglia e ora lo vestiva, gli aggiustava i capelli e gli legava il copricapo.
Costui aveva soltanto scosso la testa meravigliato, poi disse che ciò proveniva dal fatto che il buon dio era andato a letto troppo tardi, dopo essersi scaldato la testa con interminabili «speculazioni», come egli si esprimeva in modo popolarmente ingenuo. Ma a dire il vero, senza volerlo, egli considerava quei sogni che tanto preoccupavano il suo signore come una specie di punizione perché Meni aveva fatto tanto aspettare e vegliare il suo vecchio servo.
«Ah, pecorella!», disse Faraone indispettito ma ridendo, e gli batté lievemente la mano sulla fronte. Poi era andato dalla regina che, indisposta per la gravidanza, gli prestò poca attenzione. Poi ancora si recò da Teje, la madre dea, che trovò davanti alla toletta nelle mani delle cameriere che la imbellettavano.
Anche a lei raccontò i sogni e dovette fare l’esperienza che con il tempo raccontarli era sempre meno facile e gli riusciva sempre più penoso. Del resto aveva trovato in lei poco incoraggiamento, poca comprensione, Teje si mostrava sempre un po’ ironica quando il figlio veniva da lei con cure e preoccupazioni per l’impero.
Che ora si trattasse di una tale preoccupazione egli era certo, e l’aveva subito dichiarato; ma subito sul volto della madre comparve un risolino di scherno. Sebbene la vedova di Nebmarê spontaneamente e dopo matura riflessione avesse rinunciato alla reggenza e ceduto la sovranità al figlio divenuto maggiorenne, non poté mai nascondere un sentimento di gelosia per questo potere regale: e il doloroso per Meni era che egli si accorgeva di tutto, e quindi non gli sfuggiva nemmeno quell’amarezza che egli stesso provocava proprio col cercar di calmarla, pregando la madre di assisterlo e di consigliarlo.
«Ma perché la Tua Maestà si rivolge a me, che ho abdicato? – soleva dirgli Teje. – Tu sei Faraone, e siilo dunque veramente: sta’ sui tuoi piedi, non sui miei! E se non sai, attieniti ai tuoi servitori, i visir del Sud e del Nord, e fatti dire da loro la tua volontà, se non la conosci, da loro e non da me, che sono vecchia e ho abdicato».
E in un modo simile si comportò anche allora a proposito dei sogni. «Troppo oramai sono io disavvezza al comando e alla responsabilità, amico mio – aveva ella risposto sorridendo – per poter giudicare se hai ragioni per attribuire tanta importanza a queste storie. “Nascosta è la tenebra” sta scritto “quando regna la luce”. Permetti alla madre di nascondersi. Permettimi anzi di non dirti se io credo questi sogni degni e convenienti a un re. Divorate? Inghiottite? Le vacche magre le altre? Le spighe vuote le piene? Questa non è una visione, perché non si può vedere né possiamo farcene alcuna idea nella veglia, e nemmeno nel sonno. Probabilmente la Tua Maestà ha sognato tutt’altra cosa, e tu hai dimenticato e ora in sua vece poni l’assurdità di questo irreale divoramento».
Invano Meni aveva assicurato di aver veduto tutto ciò realmente e chiaramente coi propri occhi sognanti e con un’evidenza tanto significativa che esigeva assolutamente un’interpretazione. Invano aveva parlato della paura del suo cuore per il danno che ne avrebbe sofferto «la dottrina», cioè Atôn, se i sogni si interpretassero da se stessi, senza impedimento, se si realizzassero assumendo quella realtà, di cui erano stati il visionario travestimento.
Ancora una volta aveva fatto l’esperienza che la madre in fondo non aveva cuore per il suo dio e che teneva dalla sua parte solo con la ragione, cioè per motivi dinastico-politici.
Ella aveva sempre rafforzato il figlio nel suo tenero amore, nella sua spirituale passione per Atôn. Ma ora più che mai notava quello che aveva sempre notato: l’atteggiamento della madre era stato soltanto un calcolo, ella si serviva astutamente del cuore di lui come una donna che vede il mondo esclusivamente dal punto di vista della sapienza politica e non della religione. Ciò offendeva e addolorava Meni.
Egli lasciò la madre, che gli consigliò, se veramente riteneva la visione delle vacche e delle spighe tanto importante per lo Stato, di rivolgersi nell’udienza del mattino a Ptahemheb, il visir del Sud. Del resto anche colà non mancavano interpreti di sogni. Ma egli aveva già mandato a chiamare questi interpreti e li aspettava con impazienza.
(Mann, Giuseppe il nutritore)