… [ah!] il miracolo di quel silenzio infinito che rende dio simile al nulla, al punto di doverne negare in coscienza l’esistenza – o ridursi a un giumento, ma che nel contempo è di tale infinita forza da riempire tutto in tutti, sì che non ci si può sottrarre alla sua penetrazione estremamente intima.

Se si viene a trattare del gusto della devozione, che è fatto di spirito filosofico e di verità poetica, e della politica sapienza della versificazione – quale testimone più affidabile dell’immortale Voltaire che giunge quasi a dichiarare la religione quale pietra d’angolo della poesia epica, e nulla più deplora del fatto che la religione sia ridotta a un’immagine riflessa della mitologia?
Bacone si raffigura la mitologia come alato figlio di Eolo, che ha il Sole alle spalle, le nuvole a sgabello dei suoi piedi e per passare il tempo soffia in un flauto ellenico.
Ma i ragionamenti di Voltaire, sommo sacerdote del tempio del gusto, sono più stringenti di quelli di Caifa, e i suoi pensieri più fruttuosi di quelli di Erode. Se cioè la nostra teologia non vale quanto la mitologia, ci sarà affatto impossibile non dico superare, ma solo eguagliare, la poesia dei pagani, come sarebbe nostro dovere e come esigerebbe la nostra vanità.
Ma se la nostra poesia non ce la fa, la nostra storia risulterà ancor più emaciata delle vacche del Faraone; meno male che surrogano alla deficienza dei nostri storici fiabe di fate e cronache di Corte.
Di filosofia non è neppure il caso di parlare!
Si moltiplicano in compenso i trattati di astrologia: più numerosi delle ragnatele d’un castello in rovina.
Ogni perdigiorno, che comprende a stento il latino maccheronico ed il tedesco svizzero, ma il cui nome si fregia dell’intera cifra M [= Maestro] o della mezza cifra della Bestia accademica [D = Dottore], va sillogizzando menzogne tali che i banchi e le teste di legno che vi stanno sopra griderebbero «all’assassino!», se soltanto gli uni avessero orecchio e gli altri, che per penoso dileggio son pur detti «uditori», fossero usi a servirsi delle orecchie per ascoltare.
Dov’è la frusta di Eutifrone, mio povero ronzino?
Perché il mio carro non resti bloccato.
Mitologia qua, mitologia là!
Poesia è imitazione della Natura bella […]
La Natura agisce attraverso sensi e passioni. Come può percepirli chi ne mutila gli organi? Sono forse propizie al movimento anche le vene inaridite?
La Vostra filosofia criminalmente bugiarda ha tolto di mezzo la Natura: perché pretendete poi che la imitiamo?
Perché possiate rinnovarvi il piacere di assassinare pure gli allievi della Natura?
Eh sì! cari raffinati critici, voi non mancate di chiedervi «che cos’è la verità?» e prendete la porta, giacché non vi sentite di aspettare una risposta qualsiasi a questa domanda. Le vostre mani sono sempre lavate, sia che vogliate mangiare il vostro pane, o che abbiate anche pronunciato sentenze di morte.
E non vi domandate pure perché avete tolto di mezzo la Natura?
Bacone vi accusa di scorticarla con le vostre astrazioni. Se Bacone dice la verità, forza! sotto con le pietre! scaricate palle di neve e manciate di fango sulla sua ombra!
Quando come il sole risplende un’unica verità, è giorno.
Se in luogo di quest’unico sole vedete tanti lumi come la rena della spiaggia del mare … e poi un piccolo lume che supera in fulgore tutta quella schiera di astri, allora è la notte, cara ai poeti e ai ladri.
Il Poeta del principio dei giorni è tutt’uno col ladro della fine dei giorni.
Tutti i colori del più bello dei mondi vengono meno, se soffocate quella luce, che è il primogenito della Creazione.
Anche se il vostro dio è il ventre, tuttavia sotto la sua tutela stanno i capelli stessi del vostro capo.
Ogni creatura diviene alternamente vostra vittima e vostro idolo. Sottomessa contro il suo volere, ma nella speranza, sospira sotto il peso della schiavitù o per la vanità di tutto questo: fa del suo meglio per sottrarsi alla vostra tirannia e nei più smaniosi abbracci brama quella libertà di cui gli animali fecero omaggio ad Adamo, perché DIO li condusse dall’Uomo perché vedesse con quale nome chiamarli, giacché secondo il nome che l’Uomo avesse loro dato, così avrebbero dovuto chiamarsi.
Questa analogia dell’Uomo al Creatore assegna ad ogni creatura la sua impronta e la sua condotta, donde dipende fedeltà e fiducia della Natura intera. Più è viva nel nostro animo questa idea, l’immagine del DIO invisibile, più saremo in grado di vedere e assaporare, contemplare e toccare con mano la Sua affabilità.
Ogni impressione della Natura sull’Uomo non è solo una rammemorazione, ma un pegno della verità fondamentale che ci manifesta chi è il SIGNORE.
Ogni reazione dell’Uomo verso la creatura è lettera e sigillo della nostra partecipazione alla natura divina, e del fatto che noi siamo della Sua razza.
(J. G. Hamann, Æsthætica in nuce)