Santillana – Il crepuscolo degli dèi

Ragnarokr-lupo

La visione di un’intera età del mondo e della sua caduta ci è data dall’Edda, proprio nel primo carme, il Carme della Sibilla o Völuspá, in cui la profetessa (völva) abbraccia passato e futuro in un linguaggio convenientemente strano ed ermetico.
Al principio dell’Età degli Asi, gli dèi si radunano a concilio, danno il nome al sole e alla luna, ai giorni, alle notti e alle stagioni, danno un ordine agli anni e assegnano le stelle ai loro posti. Essi stabiliscono la propria sede su Iðavöllr (il «campo del vortice»; iða = «mulinello», cfr. l’inglese eddy) «nell’Età dell’Oro»; ivi giocano a scacchi con auree pedine e regna la felicità fin quando non vengono «le tre terribili fanciulle» (altro mistero). Ma già prima, secondo un accenno, c’era stata una «guerra mondiale» fra gli Asi e i Vani, cui fu posto termine con una spartizione del potere.

In una visione che amalgama passato e futuro in un solo baleno, la völva ne vede l’esito e lo annuncia «ai figli maggiori e minori di Heimdallr», cioè a tutti gli uomini.
Ella chiede loro di aprire gli occhi, di capire ciò che gli dèi dovevano sapere: la rottura della pace, l’assassinio di Þjazi, Óðinn stesso che favorisce il delitto e inchioda gli occhi di Þjazi al cielo. Così si alza per breve tempo un sipario sul passato; Þjazi, infatti, fa parte delle potenze che hanno preceduto gli Asi (in termini di mitologia greca, i Titani vengono prima degli dèi). Le potenze principali fra i Vani o Titani – secondo la meditata ricostruzione di Rydberg – sono i tre fratelli Þjazi/Völundr, Örvandill/Egill e Slagfinnr: l’Artefice, l’Arciere e il Musico.

Abbiamo finalmente ritrovato Örvandill l’Arciere, il padre di Amlethus. Egli è uno dei tre «figli di Ívaldi» così come, nell’epopea finlandese, i loro equivalenti sono «figli di Kaleva». Ívaldi, come Kaleva, viene appena menzionato, mai descritto, perlomeno sotto il nome di Ívaldi: appare fugacemente sotto l’altro suo nome, Wate. Come Kaleva, egli costituisce un’assenza densa di significato.

volvaMa tutto ciò appartiene al passato; la visione della Sibilla è proiettata verso la fine che incalza. E sì che Loki è stato incatenato all’Inferno da quando ha causato la morte di Baldr e il gran lupo Fenrir è ancora legato dai vincoli fatti di cose insostanziali, quali il rumore del passo di un gatto, le radici di una montagna, il respiro di un pesce, lo sputo di un uccello.
(Altrettanto strano a dirsi, questa stessa insostanzialità – cui vanno aggiunti il latte di Madre Aquila e le lacrime degli aquilotti – dovette procurarsela il tibetano Bogda Gesser Khân, il quale catturò pure il Sole)

Incominciano ora a sorgere le Potenze dell’Abisso, il mondo si sta sfaldando. A questo punto compare in scena Heimdallr, la Scolta di Ásgarðr, il guardiano del Ponte fra la terra e il cielo, il «più bianco degli Asi»; ma il suo ruolo e la sua libertà di azione sono severamente limitati. Egli ha molte doti – riesce a sentir crescere l’erba, vede a cento miglia di distanza – ma questi poteri non sembrano servire a nulla. Egli è il padrone del Gjallarhorn, il gran corno da battaglia degli dèi: solo lui è in grado di suonarlo, ma lo suonerà solo una volta, quando chiamerà gli dèi e gli eroi di Ásgarðr all’ultima battaglia.

Il pensiero nordico, giù giù fino a Richard Wagner, si è soffermato con tetra soddisfazione sul Ragnarök, il Crepuscolo degli Dei, che distruggerà il mondo. Esso viene profetizzato nel Carme della Sibilla, nonché nella Gylfaginning di Snorri: quando il grande cane Garmr latrerà davanti alla caverna Gnípa, quando il lupo Fenrir, spezzati i suoi vincoli, giungerà dalla «foce del fiume» con le fauci spalancate dal cielo fino alla terra e a lui si unirà il serpente di Miðgarðr, allora Heimdallr darà fiato a Gjallarhorn, il cui suono penetra attraverso tutti i mondi: e la battaglia avrà inizio.

Ma sta scritto che le forze dell’ordine cadranno combattendo, per espiare il torto iniziale commesso dagli dèi. Il mondo sarà perduto, buoni e cattivi assieme. Nagflar, la nave costruita coi ritagli delle unghie dei morti, navigherà attraverso le acque oscure e porterà il nemico alla mischia.
Allora, continua Snorri:

I cieli d’un tratto si squarciano in due, e ne galoppano in squadroni splendenti i figli di Muspell, e Surtr con la sua spada fiammeggiante, alla testa delle schiere
(Snorri Sturluson, Gylfaginning, 51)

Assieme a Surtr «il Nero», che uccide Freyr, il Signore del Mulino, escono fiamme che avvolgono ogni cosa. Snorri fa di Surtr «il Signore di Gimlé» e anche il re dell’eterna felicità «al limite meridionale del cielo».
Deve trattarsi dunque di una forza senza tempo che porta al mondo il fuoco distruttore.
Finora il tutto si è svolto come si conviene, in una confusione livida, catastrofica e tenebrosa. Tuttavia […] la profezia della Sibilla non termina con le catastrofi, ma passa dal modo tragico al modo lirico per cantare l’alba di una nuova età. Così, parimenti, in Snorri si legge:

La terra sorge nuovamente dal mare, ed è verda e bella e le cose crescono senza esser state seminate. Víðarr e Váli sono vivi, perché né il mare né le fiamme di Surtr hanno fatto loro del male, ed abitano a Iðavöllr, dove un tempo fu Ásgarðr. Là vengono anche i figli di Þórr, Módi e Magni, e hanno con sé il suo martello. Vengono anche Baldr e Höðr dal mondo di là. Tutti siedono a conversare. Ricordano e ripetono le loro rune e parlano di ciò che accadde nel tempo passato. Poi trovano nell’erba le piastre d’oro con cui una volta giocarono gli Asi. Due figli degli uomini verranno pure trovati sani e salvi dalle grandi fiamme di Surtr. I loro nomi sono Líf e Lífþrasir, e si cibano di rugiada del mattino, e da questa coppia umana verrà una grande progenie che riempirà la terra. È strano a dirsi, la stella del sole, prima d’esser divorata da Fenrir, avrà dato alla luce una figlia, non meno bella, che percorrerà le stesse vie della madre.
(Snorri Sturluson, Gylfaginning, 53)

I tempi – anche quelli verbali – sono deliberatamente mescolati e confusi, ma le affermazioni, anche se ellittiche, sono pregne di antico significato.
La riscoperta delle pedine del gioco sparse sull’erba, già narrata nella Völuspá, diventa più chiara se si pensa al Rig Veda, dove è detto che gli dèi stessi s’aggirano come ayas, «gettate di dadi», e diventa ancora più comprensibile se si considera che il nome delle età del mondo in India (yuga) è stato tratto dalla terminologia del gioco dei dadi.
Entrambi i dati potrebbero sembrare poco illuminanti, se non si ricordasse che in vari tipi di «proto-scacchi» (per usare un’espressione di J. Needham) si faceva uso ad un tempo della scacchiera e dei dadi: il numero della gettata determinava la pedina da muovere.

La medesima regola valeva anche per il tafl, il gioco a scacchiera menzionato nella Völuspá, come ha dimostrato A. G. von Hamel.
Erano quindi i dadi a forzare la mano del giocatore di scacchi; e gli scacchi erano chiamati «battaglie planetarie» dagli indiani e «Guerra celeste» o «Gioco dell’Astrologo» ancora nell’Europa del XVI secolo; la scacchiera cinese, a sua volta, raffigura la Via Lattea che divide i due campi.
Il che dimostra chiaramente che gli islandesi sapevano quel che dicevano.

scacchi-medioevo

Infine, e dalla stessa direzione, viene una coincidenza rimarchevole e sconcertante. Come si sa, nella battaglia finale degli dèi, le legioni schierate dalla parte dell’«ordine» sono i guerrieri morti, gli Einherjarr caduti combattendo sulla terra e che le Valchirie hanno trasportato nella Valhöll a dimorare con Óðinn – un tema sovente ricordato dalla poesia eroica.

Cinquecento porte e quaranta ancora
sono nel possente edificio della Valhöll
ottocento Einherjarr escono da ciascuna porta
allorché vanno a combattere contro il Lupo.
(Grímnismál, 23)

In totale sono dunque 432.000, un numero significativo fin da antica data, anzi sicuramente di significato antichissimo perché è anche il numero delle sillabe del Rig Veda; esso però risale alla cifra fondamentale 10.800, il numero di strofe del Rig Veda (40 sillabe per strofa), che, assieme al 108, compare insistentemente nella tradizione indiana.
Secondo Censorino (De die natali, 18), 10.800 è anche il numero di anni assegnati da Eraclito alla durata dell’Aion, mentre Berosso fa durare il Grande Anno babilonese 432.000; 10.800, inoltre, è anche il numero di mattoni dell’altare del fuoco indiano (Agnicayana). […]

Angkor-Wat

Si dovrà aggiungere anche Angkor all’elenco?
Ha cinque porte, a ciascuna delle quali conduce una strada che scavalca il fossato circondante l’intero complesso. Ciascuna strada è fiancheggiata da una fila di enormi figure di pietra. Ve ne sono 108 per ogni strada, 54 per lato: in tutto 540 statue di Deva e di Asura.
In ogni fila le figure reggono un enorme serpente Nâga a nove teste, anzi, non lo «reggono»: sono chiaramente rappresentate nell’atto di «tirarlo», il che dimostra che stanno frullando, come in una zangola, l’Oceano di Latte (rappresentato, invero maldestramente, dal fossato pieno d’acqua): il monte Mandara funge da paletta e Vasuki, principe dei Nâga, da tirante.

(Santillana-von Dechend, Il mulino di Amleto)