Il Sesso è un carnaio di Segni.
Il Segno è un Sesso disincarnato.
Tutta la storia attuale del corpo è quella della sua demarcazione, della rete di marchi e di segni che lo suddividono, lo sminuzzano, lo negano nella sua differenza e ambivalenza radicale, per organizzarlo in un materiale strutturale di scambio/segno, al pari della sfera degli oggetti, per ridurre la sua virtualità di gioco e di scambio simbolico (che non si confonde con la sessualità) in una sessualità assunta come istanza determinante – istanza fallica interamente organizzata intorno alla feticizzazione del fallo come equivalente generale.
È in questo senso che il corpo, sotto il segno della sessualità nella sua accezione attuale, cioè sotto il segno della sua «liberazione», è preso in un processo il cui funzionamento e la cui strategia sono quelli stessi dell’economia politica.
Moda, pubblicità, nude-look, teatro nudo, strip-tease: ovunque è lo scenodramma dell’erezione e della castrazione. Esso è d’una varietà e d’una monotonia assolute. Gli stivali, i cosciali, i calzoncini corti sotto il mantello lungo, i guanti fin sopra il gomito o le calze a metà coscia, la ciocca di capelli sull’occhio o il cache-sexe della spogliarellista, ma anche i braccialetti, le collane, gli anelli, le cinture, i gioielli e le catene – ovunque lo scenario è lo stesso: un marchio che assume valore di segno e con questo anche una funzione erotica perversa, una linea di demarcazione che simboleggia la castrazione, che parodia la castrazione come articolazione simbolica della mancanza, sotto la forma strutturale d’una barra che articola due termini pieni (che fungono allora da entrambe le parti come il significante e il significato nell’economia classica del segno).
Ciò che la barra fa fungere qui da termini rispettivi è una zona del corpo – nient’affatto una zona erogena, ma una zona erotica, erotizzata, una parte elevata a significante fallico d’una sessualità diventata puro e semplice concetto, puro e semplice significato.
In questo schema fondamentale, analogo a quello del segno linguistico, la castrazione è significata (passa allo stato di segno) e quindi disconosciuta. Il nudo e il non-nudo giocano in una opposizione strutturale e contribuiscono così alla designazione del feticcio.
Così la linea della calza sulla coscia: la potenza erotica di questa immagine le deriva non dalla vicinanza del sesso reale e della sua promessa positiva (in questa ingenua prospettiva funzionalista, la coscia nuda dovrebbe svolgere il medesimo ruolo), ma dal fatto che l’apprensione del sesso (il riconoscimento panico della castrazione) vi è fermata su una messinscena della castrazione – questo marchio inoffensivo della linea della calza al di là della quale, invece della mancanza, dell’ambivalenza e dell’abisso, non c’è più che un pieno sessuale – la coscia nuda e, metonimicamente, il corpo intero diventato, grazie a questa cesura, effigie fallica, oggetto feticcio di contemplazione e di manipolazione spogliata di qualsiasi minaccia.
Come nel feticismo, il desiderio può allora appagarsi al prezzo dello scongiuro della castrazione e della pulsione di morte.
L’erotizzazione consiste quindi ovunque nell’erettilità d’un frammento di corpo sbarrato, in questa fantasmatizzazione fallica di tutto ciò che è al di là della barra in posizione di significante, e nella simultanea riduzione della sessualità al rango di significato (di valore rappresentato).
Operazione strutturale tranquillizzante di scongiuro, grazie alla quale il soggetto può riconquistarsi come fallo: questo frammento di corpo o questo intero positivizzato, feticizzato, egli può identificarsi con esso e riappropriarsene, nell’appagamento di un desiderio che disconoscerà per sempre la propria perdita.
Questa operazione si legge nei minimi dettagli.
Il braccialetto che serra il braccio o la caviglia, la collana, l’anello istituiscono il piede, la vita, il collo, il dito come eretti. Al limite, non c’è d’altronde affatto bisogno di un tratto o di un segno visibile: spogliato di segni, è comunque sulla base d’una separazione fantasticata, quindi d’una castrazione simulata e sventata, che gioca l’eroticità del corpo intero nella nudità.
Anche non strutturalizzato da qualche tratto (gioiello, belletto o ferita, tutto può servire a tal fine), anche non sminuzzato – la barra è sempre là nei vestiti che cadono, segnalando l’emergere del corpo come fallo, sia pure il corpo della donna, soprattutto se è il corpo della donna: è tutta l’arte dello strip-tease.
Bisognerebbe reinterpretare in questo senso la «simbolica» cosiddetta freudiana. Che il piede, il dito, il naso o qualche altra parte del corpo possano fungere da metafora del pene, non è grazie alla loro forma saliente (secondo uno schema di analogia fra questi diversi significanti e il pene reale): essi hanno una valenza fallica solo sulla base di questo taglio fantasmatico che li erige – peni castrati, peni perché castrati.
Termini pieni, fallificati, designati da questa barra che li autonomizza – tutto ciò che è al di là di questa barra è fallo; tutto si risolve nell’equivalenza fallica, foss’anche il sesso femminile, foss’anche un organo o un oggetto aperto, tradizionalmente inventariato come «simbolo» femminile.
Il corpo non si distribuisce in «simboli» maschili o femminili: è ben più profondamente, il luogo di questo gioco e di questo diniego della castrazione, illustrato dall’uso cinese (citato da Freud ne Il feticismo) di cominciare col mutilare il piede della donna, poi di venerare come un feticcio questo piede mutilato. Il corpo intero è disponibile, in innumerevoli forme, per questa marchiatura/mutilazione seguita da una venerazione fallica (esaltazione erotica).
È qui il suo segreto, e non nell’anamorfosi degli organi genitali.
Così la bocca imbellettata è fallica (rossetto e maquillage fanno eminentemente parte dell’arsenale della valorizzazione strutturale del corpo). Una bocca imbellettata non parla più: labbra beate, semi-aperte, semi-chiuse, non hanno più la funzione di parlare, né di mangiare, né di vomitare, né di baciare.
Al di là di queste funzioni di scambio, d’introiezione e di reiezione, e sulla base della loro negazione, s’istalla la funzione erotica e culturale perversa, la bocca affascinante come segno artificiale, lavoro culturale, gioco e regola del gioco – quella che non parla, che non mangia, che non si abbraccia – la bocca imbellettata, oggettivata come bijou, il cui intenso valore erotico non deriva affatto, come si immagina, dalla sua accentuazione come orificio erotico, ma al contrario dalla sua chiusura – il rossetto è in qualche modo il tratto fallico, il marchio che l’istituisce come valore di scambio fallico – bocca erettile, tumescenza sessuale mediante la quale la donna si erige, e dove il desiderio del maschio verrà a prendersi a propria immagine.
Mediatizzato da questo lavoro strutturale, il desiderio, da irriducibile qual è quando si fonda sulla perdita, sull’apertura dell’uno all’altro, diventa negoziabile, in termini di segni e di valori fallici scambiati, ancorati a una equivalenza fallica generale – ciascuno giocando contrattualmente e monetizzando il proprio godimento in termini di accumulazione fallica – situazione perfetta d’una economia politica del desiderio.
La stessa cosa vale per lo sguardo.
Ciò che opera la ciocca di capelli sull’occhio (e qualsiasi altro artificio erotico degli occhi) è la negazione dello sguardo come dimensione perpetua della castrazione allo stesso tempo che offerta amorosa.
Occhi metamorfizzati dal maquillage, è la riduzione estatica di questa minaccia, dello sguardo dell’altro in cui il soggetto può vedersi nella propria mancanza, ma in cui può anche abolirsi vertiginosamente se essi si aprono su di lui.
Questi occhi sofisticati, medusizzati non guardano nessuno, non s’aprono su nulla. Presi nel lavoro del segno, hanno la ridondanza del segno: si esaltano del proprio fascino, e la loro seduzione deriva loro da questo onanismo perverso.
Si potrebbe continuare: ciò che vale per quei luoghi privilegiati dello scambio simbolico che sono la bocca e lo sguardo, vale anche per qualsiasi altra parte o dettaglio del corpo preso in questo processo di significazione erotica.
Ma l’oggetto più bello, quello che riassume ovunque questa messinscena, e appare come la chiave di volta dell’economia politica del corpo, è il corpo della donna. Il corpo scoperto della donna, nelle mille varianti dell’erotismo, è certamente l’emergere del fallo, dell’oggetto feticcio, è un gigantesco lavoro di simulazione fallica e allo stesso tempo lo spettacolo incessantemente rinnovato della castrazione.
Dall’immensa diffusione delle immagini al rituale minuzioso dello strip-tease, ovunque la potenza liscia e senza difetti del corpo femminile scoperto funge da manifesto fallico, potenza incantata in un’esigenza fallica senza tregua (è qui che è l’affinità immaginaria profonda tra l’escalation erotica e quella della credenza produttivistica).
Il privilegio erotico del corpo femminile funziona per le donne come per gli uomini. In effetti, una medesima struttura perversa opera per tutti: imperniata sul diniego della castrazione, essa si serve di preferenza del corpo femminile come con l’imminenza della castrazione. (Se la linea della calza è più erotica della ciocca di capelli sull’occhio o della linea del guanto sul braccio, ciò non dipende dalla prossimità genitale – è semplicemente che la castrazione vi è rappresentata da più vicino, in modo più approssimato, nella sua maggiore imminenza. Così, in Freud, è l’ultimo oggetto percepito, il più vicino alla scoperta dell’assenza del pene nella donna, che diventerà l’oggetto-feticcio.)
Così la progressione logica del sistema (ancora una volta, omologa di quella dell’economia politica) porta a una recrudescenza erotica del corpo femminile perché quest’ultimo, privo di pene, si presta meglio all’equivalenza generale fallica.
Se il corpo maschile non permette, minimamente, il medesimo rendimento erotico, è perché non consente né il richiamo fascinante della castrazione, né lo spettacolo del suo continuo superamento. Non può mai diventare veramente oggetto liscio, chiuso, perfetto: marcato dal «vero» marchio (quello valorizzato dal sistema generale), esso è meno disponibile per la demarcazione, per questo lungo lavoro di derivazione fallica.
Ancora non è certo che anch’esso non possa un giorno essere attualizzato come variante fallica. Fino a nuovo ordine, niente pubblicità erettile, niente nudità erettile: è a questo prezzo che l’erettilità può essere trasferita sotto controllo a tutto il ventaglio degli oggetti e del corpo femminile. Ma, al limite, la stessa erezione non è incompatibile col sistema. (Restano impensabili e inaccettabili soltanto l’annullamento del valore/fallo e l’irruzione del gioco radicale della differenza).
Bisognerebbe vedere che ruolo ha, in questo «privilegio» erotico della donna, la soggezione storica e sociale. Non mediante qualche meccanismo di «alienazione» sessuale che raddoppi l’«alienazione» sociale, ma cercando di vedere se non agisce, nei riguardi di qualsiasi discriminazione politica, il medesimo processo di disconoscimento che agisce nei riguardi della differenza dei sessi nel feticismo – portando a una feticizzazione della classe o del gruppo dominato, a una sua sovravalorizzazione sessuale per meglio scongiurare l’interrogativo cruciale che fa pesare sull’ordine del potere.
Se si riflette bene, tutto il materiale significante dell’ordine erotico non è fatto altro che della panoplia degli schiavi (catene, collari, fruste, ecc.), dei selvaggi (negritudine, abbronzatura, nudità, tatuaggi), di tutti i segni delle classi e delle razze dominate.
Così per la donna nel suo corpo, annesso a un ordine fallico la cui espressione politica la condanna all’inesistenza.
Lo dice il fatto che uno dei termini del binomio sessuale, il Maschile, sia diventato il termine marcato, e che questo sia diventato l’equivalente generale nel sistema; questa struttura, che ci sembra ineluttabile, è in sé priva di fondamento biologico: come qualsiasi grande struttura, essa ha per fine precisamente quello di rompere con la natura (Lévi-Strauss).
Si può immaginare una cultura in cui i termini siano invertiti: spogliarello maschile in una società matriarcale! Basta che il femminile diventi il termine marcato e funga da equivalente generale.
Ma si deve comprendere che in questa alternanza dei termini (in cui si riversa gran parte la «liberazione» della donna), la struttura resta immutata, immutato il rifiuto della castrazione e l’astrazione fallica.
Se quindi il sistema comporta una possibilità di alternanza strutturale, si vede che il vero problema non sta qui – ma in un’alternanza radicale, che metta in questione l’astrazione stessa di questa economia politica del sesso fondata su uno dei termini come equivalente generale, sulla negazione della castrazione e dell’economia simbolica.
(Baudrillard, Lo scambio simbolico e la morte)