Che cosa diventerà allora la parola nel teatro della crudeltà? Dovrà semplicemente tacere o sparire?
Niente affatto. La parola cesserà di dominare la scena ma sarà presente. Vi occuperà un posto rigorosamente delimitato, avrà una funzione entro un sistema al quale sarà ordinata. Sappiamo infatti che le rappresentazioni del teatro della crudeltà dovevano essere minuziosamente studiate in partenza.
L’assenza dell’autore e del suo testo non lascia la scena in una condizione di abbandono. La scena non è disertata, esposta all’anarchia improvvisatrice, alla «vaticinazione aleatoria», alle «improvvisazioni di Copeau», all’«empirismo surrealista», alla commedia dell’Arte o al «capriccio dell’ispirazione incolta».
Tutto sarà dunque prescritto in una scrittura e in un testo la cui trama non assomiglierà più al modello della rappresentazione classica. Quale posto verrà dunque assegnato alla parola da questa necessità della prescrizione, che è invocata dalla crudeltà?
La parola e la sua notazione – la scrittura fonetica, elemento del teatro classico – la parola e la sua scrittura non saranno abolite sulla scena della crudeltà se non nella misura in cui esse presumevano di essere un dettato: insieme citazione, recitazione e ordine. Il regista e l’attore non riceveranno più un dettato. «Rinunceremo alla superstizione teatrale del testo e della dittatura dello scrittore».
È la fine anche della dizione, che faceva del teatro un esercizio di lettura. Fine di ciò che «fa dire a certi amatori di teatro che un lavoro drammatico quando se ne dà lettura offre soddisfazioni più precise e maggiori dello stesso lavoro quando viene rappresentato».
Come funzioneranno allora la parola e la scrittura?
Ridiventando gesti: sarà ridotta o subordinata l’intenzione logica e discorsiva che fa assumere alla parola la sua trasparenza razionale e dissolve il suo corpo in direzione del senso, lascia che stranamente si sovrapponga ad esso il suo stesso costituirsi come qualcosa di diafano: decostituendo questo diafano, si mette a nudo la carne della parola, la sua sonorità, la sua intonazione, la sua intensità, il grido che l’articolazione della lingua e della logica non è ancora arrivata a raggelare del tutto, quel tanto di gesto oppresso che resta sempre nella parola, quel movimento unico e insostituibile che la generalità del concetto e della ripetizione non ha mai finito di rifiutare.
Sappiamo quale valore Artaud attribuiva a ciò che viene definito – impropriamente in questo caso – onomatopea.
La glosso-poiesi, che non è un linguaggio imitativo né una creazione di nomi, ci riconduce sul limite del momento in cui la parola non è ancora nata, quando l’articolazione non è già più il grido ma non è ancora il discorso, quando la ripetizione è quasi impossibile, e insieme con essa la lingua in generale: la separazione tra concetto e suono, tra significato e significante, tra pneumatico e grammatico, la libertà della traduzione e della tradizione, il movimento dell’interpretazione, la differenza tra l’anima e il corpo, il padrone e lo schiavo, Dio e l’uomo, l’autore e l’attore.
È l’imminenza dell’origine delle lingue e di quel dialogo tra la teologia e l’umanesimo che la metafisica del teatro occidentale ha continuato a tenere aperto in un’inesauribile rimuginazione.
Si tratta dunque di costruire, più che una scena muta, una scena il cui clamore non si sia ancora placato nelle parole.
Le parole sono il cadavere della parola psichica e occorre ritrovare, col linguaggio stesso della vita, «la Parola che è prima delle parole».
Non è ancora intervenuta la logica della rappresentazione a separare il gesto dalla parola.
Aggiungo al linguaggio parlato un altro linguaggio, e cerco di restituire al linguaggio della parola, le cui misteriose risorse sono state dimenticate, la sua antica efficacia magica, la sua efficacia fascinatrice, integrale.
Quando dico che non darò un testo scritto, voglio dire che non darò un testo drammatico basato sulla scrittura e sulla parola, che negli spettacoli che allestirò ci sarà una parte fisica preponderante, tale da non lasciarsi fissare e scrivere nel linguaggio abituale delle parole; e che anche la parte parlata e scritta lo sarà in un senso nuovo.
(Antonino Artaud, Opere complete, IV, pp. 225-6)
Che cosa sarà questo «senso nuovo»? E prima di tutto, questa nuova scrittura teatrale?
Essa non occuperà più l’ambito delimitato di una notazione di parole, ma coprirà tutto il campo di questo nuovo linguaggio: non soltanto scrittura fonetica e trascrizione della parola ma scrittura geroglifica, scrittura nella quale gli elementi fonetici si coordinano a elementi visuali, pittorici, plastici.
La nozione di geroglifico è al centro del Primo manifesto (1932).
Avendo preso coscienza di questo linguaggio nello spazio, linguaggio di suoni, di grida, di luci, di onomatopee, il teatro è tenuto a organizzarlo, creando coi personaggi e con gli oggetti dei veri e propri geroglifici, e servendosi del loro simbolismo e delle loro corrispondenze in rapporto a tutti gli organi e su tutti i piani.
(Antonino Artaud, Opere complete, IV, p. 204)
Nella scena del sogno, quale la descrive Freud, la parola ha il medesimo statuto. È un’analogia che meriterebbe una paziente meditazione.
Nella Interpretazione dei sogni e nel Supplemento metapsicologico alla teoria del sogno, l’ambito e il funzionamento della parola vengono delimitati. La parola è presente nel sogno, ma vi interviene solo come un elemento tra gli altri, talvolta alla stregua di una «cosa» che il processo primario manipola secondo la propria economia.
I pensieri sono allora trasformati in immagini – soprattutto visuali – e le rappresentazioni di parole sono ricondotte alle rappresentazioni di cose corrispondenti, proprio come se l’intero processo fosse dominato da una sola preoccupazione: l’attitudine alla messinscena.
È assai notevole che il lavoro del sogno ricorra così poco alle rappresentazioni di parole; è sempre pronto a sostituire le parole le une con le altre fino ad aver trovato l’espressione che più si presta a essere manovrata nella messinscena plastica.
(Freud, Gesammelte Werke, X, pp.418-19)
Anche Artaud parla di una «materializzazione visuale e plastica della parola»; e di «servirsi della parola in un senso concreto e spaziale», di «manipolarla come un oggetto solido e che smuove le cose».
E quando Freud, parlando del sogno, evoca la scultura e la pittura, o il pittore primitivo che, alla maniera degli autori di storie a fumetti, «dalla bocca delle persone dipinte si facevano pendere biglietti su cui era scritto il discorso che il pittore disperava di raffigurare nel quadro», si capisce che cosa può diventare la parola quando non è più che un elemento, un luogo circoscritto, un scrittura inserita entro la scrittura generale e lo spazio della rappresentazione.
È la struttura del rebus o del geroglifico.
«Il contenuto del sogno è dato, per così dire, in una scrittura geroglifica» (Freud, L’interpretazione dei sogni).
E in un articolo del 1913:
Col termine di linguaggio, non si deve intendere qui soltanto l’espressione del pensiero in parole, ma anche il linguaggio gestuale e qualsiasi altra specie di espressione dell’attività psichica, come la scrittura […]
Se si considera che i mezzi della messinscena nel sogno sono principalmente le immagini visive e non le parole, ci pare più giusto paragonare il sogno a un sistema di scrittura che non a una lingua. In effetti l’interpretazione di un sogno è analoga in tutto e per tutto al deciframento di una scrittura figurativa dell’antichità, come i geroglifici.
È difficile stabilire fino a che punto Artaud, che ha fatto frequenti riferimenti alla psicoanalisi, si sia accostato al testo di Freud. È comunque notevole che egli descriva il gioco della parola e della scrittura nella scena della crudeltà negli stessi termini di Freud, e di un Freud che circolava poco in quel tempo.
Già nel Primo manifesto (1932) scrive:
Il linguaggio della scena. Non si tratta di sopprimere la parola articolata, ma di dare alle parole all’incirca l’importanza che hanno nei sogni. Per il resto bisognerà trovare modi nuovi di registrare questo linguaggio, sia che ci si accosti ai modi della trascrizione musicale sia che si ricorra a una sorta di linguaggio cifrato. Per quanto concerne gli oggetti ordinari e anche il corpo umano, innalzati a dignità di segni, è evidente che ci si può ispirare ai caratteri geroglifici.
(Jacques Derrida, Prefazione a Artaud, Il teatro e il suo doppio)