Lacan – La coscienza e il corpo

L’individuo è talmente prigioniero del «tipo», che in rapporto a esso si annulla. È, come direbbe Hegel, non so se l’ha detto, già morto in rapporto alla vita eterna della specie.

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Lei sa come sia delicato misurare quanto è percepito dall’animale e quanto non lo è, perché nell’animale come nell’uomo, la percezione sembra andare più lontano di quanto si può mettere in luce nei comportamenti sperimentali, cioè artificiali. Capita di accorgersi che l’animale può fare delle scelte con l’aiuto di cose che non sospettiamo nemmeno.
Ciononostante sappiamo che, quando è preso nel ciclo di un comportamento di tipo istintuale, si produce in lui un ispessimento, una condensazione, un’opacificazione della percezione del mondo esterno. L’animale è allora talmente invischiato in certe condizioni immaginarie che, proprio quando sarebbe più utile per lui non sbagliarsi, l’inganniamo più facilmente.
La fissazione libidica su certi termini si presenta in quel caso come una specie d’imbuto.

pesce-esca

Non vedo perché non cominciare ricordando il tema hegeliano fondamentale: il desiderio dell’uomo è il desiderio dell’altro.
È proprio quello che nel modello è espresso dallo specchio piano. È là che ritroviamo anche il classico stadio dello specchio di Jacques Lacan, quel momento della svolta che compare durante lo sviluppo, quando l’individuo fa della propria immagine allo specchio, di se stesso, un esercizio trionfante.
In base a certe correlazioni del suo comportamento possiamo capire che in quel caso si tratta, per la prima volta, di una cattura anticipata della padronanza.

Tocchiamo con mano anche un’altra cosa, che ho chiamata Urbild: il primo modello in cui si segna il ritardo, lo scollamento dell’uomo in rapporto alla propria libido.
Questa beanza fa sì che vi sia una differenza radicale tra la soddisfazione di un desiderio e la corsa dietro il compimento del desiderio; il desiderio è essenzialmente una negatività introdotta in un momento che non è particolarmente originale, ma che è cruciale, capovolgente.

Il desiderio è colto dapprima nell’altro e nella forma più confusa.
Conosciamo bene la relazione del desiderio umano in rapporto al desiderio dell’altro, in tutte le reazioni in cui vi sia rivalità, concorrenza, e fin dentro ogni sviluppo della civiltà, ivi compreso quel simpatico e fondamentale sfruttamento dell’uomo da parte dell’uomo, di cui non siamo prossimi a vedere la fine per la semplice ragione che è assolutamente strutturale e che costituisce, ammessa una volta per tutte da Hegel, la struttura stessa della nozione di lavoro.
Certo, in questo caso non si tratta più del desiderio ma della mediazione completa dell’attività in quanto propriamente umana, impegnata sulla strada dei desideri umani.

corpo-altroIl soggetto identifica e riconosce originalmente il desiderio tramite l’intermediario, non solo della propria immagine, ma del corpo del proprio simile.
Esattamente in quel momento nell’essere umano si isola la coscienza in quanto coscienza di sé. Lo scambio avviene nella misura in cui riconosce il suo desiderio nel corpo dell’altro. Nella misura in cui il suo desiderio è passato dall’altra parte, egli assimila in sé il corpo dell’altro e si riconosce come corpo.

Nulla permette di affermare che l’animale abbia una coscienza separata del proprio corpo come tale, che la sua corporeità sia per lui un elemento obiettivabile … mentre è certo che per noi un dato fondamentale antecedente ogni emergenza del registro della coscienza infelice è proprio la distinzione tra la nostra coscienza e il nostro corpo.
Questa distinzione fa del nostro corpo qualcosa di fittizio, da cui la nostra coscienza è assolutamente impotente a staccarsi, ma da cui si concepisce – questi termini non sono forse i più adeguati – come distinta.

La distinzione tra la coscienza e il corpo si produce in qualche brusca inversione di ruoli, che avviene nell’esperienza dello specchio quando si tratta dell’altro.
Mannoni ci diceva ieri sera che nei rapporti interpersonali s’introduce sempre qualcosa di fittizio, che è la proiezione dell’altro su di noi stessi.
Ciò dipende indubbiamente dal fatto che noi ci riconosciamo come corpo nella misura in cui questi altri, indispensabili per riconoscere il nostro desiderio, hanno anch’essi un corpo, o più esattamente nella misura in cui noi l’abbiamo come loro.

J. HYPPOLITE: – Faccio fatica a capire, più che la distinzione tra se stessi e il corpo, la distinzione tra due corpi.

Ma certo.

J. HYPPOLITE: – Dato che il sé si rappresenta come il corpo ideale, e dato che c’è il corpo che io sento, vi sono due …?

No, certamente no. È qui che la scoperta freudiana prende la propria dimensione essenziale: l’uomo, nelle sue prime fasi, non arriva subito, in alcuna maniera, a un desiderio domato; l’uomo riconosce e fissa nell’immagine dell’altro un desiderio spezzettato.
E l’apparente padronanza dell’immagine dello specchio gli è data, almeno virtualmente, come totale. È una padronanza ideale.

J. HYPPOLITE: – È quel che io chiamo il corpo ideale.

È l’Ideal-Ich. Il suo desiderio, al contrario, non è per lui già costituito. Il soggetto trova nell’altro, sin dall’inizio, una serie di piani ambivalenti, di alienazioni del suo desiderio, di un desiderio ancora a pezzi.
Tutto quel che conosciamo dell’evoluzione istintuale ce ne dà lo schema, poiché la teoria della libido in Freud è fatta in base alla conservazione, alla composizione progressiva di un certo numero di pulsioni parziali, che riescono o no a confluire in un desiderio maturo.

J. HYPPOLITE: – Credo che noi siamo proprio d’accordo. Sì? Lei diceva tuttavia di no, poco fa. Noi siamo d’accordo. Se io dico due corpi, vuol dire semplicemente che quello che io vedo costituito, sia nell’altro, sia nella mia propria immagine allo specchio, è quello che io non sono e che infatti è aldilà dell’io. Questo è ciò che io chiamo il corpo ideale, statuario o statua. Come dice Valery nella Giovane Parca: «Ma la mia statua allo stesso tempo rabbrividisce», cioè si decompone. La sua decomposizione è quel che io chiamo l’altro corpo.

Il corpo, come desiderio frantumato che cerca se stesso, e il corpo come ideale di sé, si riproiettano dalla parte del soggetto come corpo in pezzi, mentre vede l’altro come corpo perfetto. Per il soggetto un corpo in frammenti è un’immagine essenzialmente smembrabile del proprio corpo.

J. HYPPOLITE: – I due corpi si riproiettano l’uno sull’altro nel senso che, contemporaneamente egli si vede come statua e insieme si smembra, proietta lo smembramento sulla statua e questo in una dialettica senza fine. Mi scuso d’aver ripetuto quel che lei ha detto, per essere sicuro d’aver ben capito.

(Lacan, Il Seminario, 1)