
Il Racconto è abbastanza esplicito su questo punto. Dice che, se ci tocca una vita mortale, solo una breve parentesi tra essere e non-essere, è per via di un’«imprudenza» di cui si è reso responsabile il nostro Antenato, allorché «diede ascolto» a un richiamo che lo «distrasse» dall’immortalità.
Come non pensare a Gilgameš? Era a un passo dal conquistarla, era andato apposta in capo al mondo, solo e unicamente per l’immortalità! e poi?
E poi, va bèh, è andata com’è andata!
Una botta di sonno e tutto è svanito nel nulla.
D’accordo, ma quando diciamo che Gilgameš ha perso l’«immortalità», di che cosa stiamo parlando – se non del più antico e tenace dei Sogni in cui è stato, in illo tempore, iniziato a sognare l’Uomo (a momenti, l’Incubo) che noi saremmo diventati?
Quest’Uomo qui, la cui sola «cosa» preziosa è il Sogno in cui la può sognare e, sognandola, proprio mentre la sogna ha solo da perderla, la Cosa.
Questo è il confine che il Racconto traccia all’Uomo. Perché, a chi ancora non l’avesse capito, sarà bene dirlo a chiare lettere: è il Racconto (del paradiso perduto per un peccatuccio, o dell’immortalità mancata per un pelo), è Lui l’Antenato dell’Uomo.
È il Racconto che «produce» umanità.
E se il Racconto ha avuto i suoi «diluvi», è solo sull’onda di un ritorno del Rimosso che galleggia l’Uomo che a Se stesso si racconta i propri «eroici» totem e tabù.
Ma non ci vuole molto: basta il minimo colpo di sonno, un barcollare tra la veglia e il sonno, perché pure l’Eroe si distragga e venga via di là – dal Sogno.
E qui è il Paradosso Umano: non solubile, non commestibile, non riducibile a nessuno dei nostri Teoremi. Che poi sarebbero i Teoremi del Racconto, gli attrezzi sonori con cui l’Antenato insiste a distrarci nel rammarico del suo «perduto».

Il Paradosso è che il Sogno Umano, il suo «perduto», è tentato continuamente di riprenderselo. E il Racconto, hai mai sentito parlare di un serpente tra i rami di un certo melo? – è lui, il Racconto, che all’Uomo dice: tu puoi sognarlo e, sognandolo, puoi ancora godere del «passato».
Che nobile inganno, questo raggiro «creativo» di vita nuova!
Ci dice: sognalo, ma non ti addormentare!
Oppure: la senti? è la musica delle sfere del Silenzio!
Non fa rumore, non ha odore di carne umana, non somiglia nemmeno alla tua bella Euridice, mio caro Orfeo. Non si tocca, non si mette in bocca. Non ha sapore, non sa di niente, e non è di nessuno. Neanche del padreterno.
Così dice il Racconto.
Dice che l’Antenato ha udito un richiamo, in fondo al quale non c’era che un Ritorno d’eco dal suo Remoto a Se Stesso. Dice che l’Antenato fu preso, a sua insaputa, in uno di questi vortici in cui, a volte, s’ingorgano le Lingue del Mondo. Dice che discese dal cielo dei suoi sogni appresso alla Stella dello strabismo linguistico. Che venne a parlare sopra la Parola del Mondo. E che parlò non una, né due, ma ben tre volte. E che scrisse non una, né due, ma tre lettere-madri. E che le suonò in battere e in levare, perché custodissero la memoria dei Tre Richiami: della Roccia, della Quercia e delle Lusinghe effimere.
Ci sono molti modi di udire la morte «anzitempo», dice il Racconto. Molti modi di arrendersi a una «brevità». Oggi il Dottore dice: sono tutti modi dell’Ansia. E a lui il Filosofo di rincalzo: sono tutte curve dell’Angoscia Umana. Dice che siamo spinti ad affrettarci, a precipitarci in un riso di gioia, man mano che ci approssimiamo al Tesoro. Che più ardente è il desiderio della «cosa», più a precipizio scendiamo nel suo «buco nero».
A tutti i giochi umani, a tutti i nostri desideri è data solo questa «breve vita». Giusto il tempo di salire e scendere … dal Sogno della Cosa. Un’altra onda della stessa Ansia che ci ha spinti fin là, viene a riprenderci … e ci suona la sveglia. Un pensiero: toh, ho lasciato mia moglie sull’altare!
Ci sono molti modi di «distrarsi» dall’Immortalità, e molti codici per scrivere a registro la dolorosa perdita, codici tra loro permutabili – di modo che il «fatale errore» di distrazione può essere tradotto dall’uno all’altro.
Come dire: che l’Ansia «inonda» in uno stesso diluvio tutti i nostri sensi. Se l’orecchio sbaglia a prestare ascolto a uno spiffero qualsiasi, o se l’occhio si fissa nel miraggio di una sua medusa, o se la mano s’azzarda a sfiorare l’Intoccabile, o la bocca ad assaggiare un certo frutto proibito, o il naso a farsi ingannare dall’odore di carne umana – in fondo il Racconto non dice che variazioni multiple di uno stesso Tema.
In breve (per stare in argomento), la sua Sceneggiata contempla: sposalizio e divorzio, consumati in un istante (d’assenza) lungo trecento anni (tienilo a mente, questo numero!).
Contempla: una visita all’altro mondo, un lungo e periglioso itinerario alla volta di dio o del lontano, un’ardua navigazione attraverso mari in tempesta, e tutto questo perché? per l’effimero godimento di un paradiso – solo per quel momentaneo «vissero felici e contenti».
È bastato un rumore, appena un ronzio, un fischio all’orecchio: e la Cosa, com’è venuta ad annunciarsi, così s’è spenta – lasciando solo un’eco senza corpo al suo posto. Non più di uno smanioso sguardo «prematuro» alla bella Euridice, ed ecco Orfeo l’ha perduta per sempre – sicché non gli resta che cercarla nel canto, se mai gli capitasse di ritrovare una nota, di quella Musica lì. Di quel Suono – che è l’unico Immortale.
Non è immortale il Gioco Umano, e immortali non sono che per due terzi i suoi Giocattoli. D’immortale non c’è che la Materia Prima dei Giocatori e dei Giocattoli: il Suono.
Non è immortale nessun concetto, nessuna Idea – mi dispiace per Platone, ma i Pitagorici di Magna Grecia gli avevano suggerito ben altro: che immortale è la Materia di cui son fatte tutte le parole. Le parole passano – mentre questo «rumore» a cui si aggrappano per parlare, è immortale.
Il Rumore, perciò, metterà prima o poi a tacere tutte le parole del Racconto. Solo allora sarà manifesta la sua, che poi è la nostra, incompatibilità con l’Immortale.