La storia è questa. Il padre ha scoperto che il figlio ha avuto rapporti incestuosi con la madre e, per sbarazzarsi di lui, lo spedisce nel Nido delle anime sommerso in fondo alle acque, a rubare tre «sonagli»: il grande, il piccolo e il buttoré (quello che i danzatori portano alle caviglie). A procurarsi, dunque, tre oggetti «rumorosi».
Il padre li ha scelti apposta per questo: infatti, il figlio, per impossessarsene, non potrà fare a meno di muoverli e, una volta mossi, i sonagli faranno rumore e risveglieranno le anime, e queste provvederanno a punire il bricconcello.
La storia viene dal Sudamerica. Dai Bororo del Brasile.
Per rendercela più familiare, potremmo giocare a dare ai personaggi del Racconto nomi greci. Ne verrebbe fuori qualcosa del genere: Laio ha saputo che Edipo va a letto con Giocasta, e perciò decide di mandarlo «all’altro mondo».
Ora, quest’«altro mondo», sia esso l’Egitto della Sfinge, o una Casa in fondo al mare, funge da «nido». Ma sì: lasciami dire che è proprio l’«asilo-nido» dei bambini. Basta col loro «attaccamento» alla mamma. È ora che si diano da fare. Che se la sbrighino da soli!
Il problema è questo: c’è una fontana d’«acqua dolce» che zampilla in mezzo al mare «salato». Una fontana, anzi la Fontana a cui ciascun bambino ha da attingere l’acqua della sua vita.
Nell’attingerla, ora pian piano lo stiamo apprendendo, a una sola cosa deve badare: a non fare rumore!
Voi mi direte: e come si fa a muovere i sonagli senza far rumore? Lo dice la parola stessa: essi «suonano».
Come si fa a parlare una Lingua Muta?
Lasciamo per ora queste domande «appese» e diamo un’occhiata in giro.
Dalla Danimarca alla Russia, per tutta Europa, corre una voce: l’eroe (il terzo di tre fratelli) parte alla conquista del «farmaco» che guarirà suo padre.
Non si parla d’incesto, dalla scena è scomparsa pure Giocasta, e il figlio non solo non «uccide» il padre, ma addirittura gli salva la pelle.
A prima vista, questa è tutta un’altra storia. E allora, perché la tiriamo in ballo?
Semplice: perché, Edipo o non Edipo, il giovanotto ha lo stesso da andare a procurarsi tre «oggetti miracolosi», e ugualmente (anche se non sempre è detto esplicitamente) ha da stare attento a non far rumore, se non vuole svegliare i «guardiani».
Lo schema è antico: perfino di Enkidu è detto che, quando andò agli Inferi a riprendere il pukku e il mikkû, fallì perché indossava «calzari rumorosi» (erano per caso qualcosa come le sonagliere del buttoré?).
Di più: Enkidu morì in seguito a questo fallimento. L’ingenuo non aveva compreso l’abbiccì del ladro: primo, tacere, non nominare!
Niente di nuovo. È, pari pari, lo stesso insegnamento che a Perceval aveva impartito il suo maestro: mi raccomando, non farti scappare di bocca il benché minimo suono!

Perceval, lo sappiamo, era un bambino disciplinato. Perciò, seguì alla lettera le istruzioni ricevute: non fece nessuna domanda, non disse «ah!» né «oh», mentre vedeva sfilare il santo Graal.
Eppure, fallì lo stesso.
Comprendi il paradosso? se il «ladro» tace, se riesce a tapparsi la bocca mentre ruba, vuol dire che sta «rubando» qualcosa che non lo provoca, qualcosa a cui è indifferente, che non gli fa uscire di bocca neanche un sospiro di meraviglia.
Vuol dire che non sta rubando l’«uccello d’oro», ma un pennuto qualsiasi di cui non è invaghito, o che addirittura non gli fa né caldo né freddo.
Se viceversa parla, se la «refurtiva» davvero lo eccita, e lo rende, per così dire, verbalmente incontinente, è inevitabile che attiri su di sé l’attenzione dei Gendarmi.
E dunque: come se ne esce? anzi: se ne esce, da questo paradosso?
In una variante del racconto sudamericano, l’eroe è sottoposto a un’altra prova: come in tutte le altre storie è tenuto a non fare rumore, altrimenti corre un pericolo mortale, ma anziché «evitare di far cadere gli strumenti sonori, deve astenersi dal masticare rumorosamente mentre mangia la carne arrostita, perché così irriterebbe la moglie (incinta) del suo protettore» (Lévi-Strauss, Il crudo e il cotto).
Rimane costante il Divieto di fare rumore, cambia la modalità della «prova», di questa che, un po’ frettolosamente, potremmo chiamare «iniziatica», in quanto è la prova che inizia (ci siamo!) l’eroe, il cucciolo, alla Parola Umana.
È dunque la Parola Umana il paradosso, intorno a cui il Racconto dibatte. È essa a «oscillare» tra i due estremi del Rumore e del Silenzio assoluto. La Parola Umana, come dire: la Vita che l’uomo tiene appesa alla Parola, «scorre» tra queste due opposte sponde, continuamente in bilico tra il Baccano e il Mutismo.
Tra due «morti» che la minacciano: la morte «culturale» (ovvero la confusione di Babele: gli uomini diventano parlatori e uditori di troppe chiacchiere) e la morte «naturale» (ovvero il rigetto di ogni Lingua umana, e il conseguente regresso alla Tana analfabetica).
La morte «calda» (dell’Edipo chiacchierone che risponde anche alle domande che la Sfinge non gli ha posto «di persona») e la morte «fredda» (del Perceval inchiodato dal silenzio a rimanere prigioniero delle sue «segrete» mentali, più o meno autistiche).

Et voilà. Da un piccolo impercettibile tintinnio di sonagli, ecco che siamo saltati, senza averne licenza, da mariuoli (proprio come il Racconto consiglia), siamo schizzati, non so se in giù o in su, fino a farne una questione di vita e di morte!
Però, se c’è qui un’esagerazione, parliamoci chiaro: non è nostra.
È il Racconto che esagera. È il Racconto che ammonisce i suoi «uditori»: chi di voi si fa scappare il minimo rumore, dice, chi – non sia mai dio! – appena appena si fa distrarre dal volo d’una mosca, si condanna per questo a una vita «breve»!
Il Racconto, il solito Esagerato, sta dicendo che, non solo il suo «eroe», ma tutti gli uomini «per colpa sua» sono condannati a perdere l’Immortalità, o l’Acqua della Vita, o il Farmaco Miracoloso, o l’Olio di misericordia o, per dire tutto questo in una sola parola: a perdere la Musica (delle loro sfere più intime). Condannati a lasciare per sempre laggiù, nella Casa in fondo al mare, il pukku e il mikkû.
La «dolce» Casa, per questo, è diventata un inferno.
Perché non ci restituisce i tre sonagli: l’uccello, il cavallo e la bella Elena.
Se li tiene laggiù, per via di quel «rumorino» là.
Guai a coloro, dice il Racconto, che rispondono a troppi richiami (πολυήκοοι), anche a quelli che avrebbe fatto bene a ignorare (perché, direbbe Mastro Platone, non riguardando la sua propria personale alêthé, erano «richiami forestieri», non narcisistici).
Gli era consentito rispondere ai richiami sonori della roccia e del legno duro, e se si fosse attenuto a tale disposizione, gli uomini avrebbero vissuto altrettanto a lungo che questi due esseri, l’uno minerale e l’altro vegetale; ma siccome egli risponde anche “ai dolci richiami del legno putrido”, la durata della vita umana sarà ormai abbreviata […]
Non è dunque possibile supporre che forse il carattere della vita sulla terra (il fatto cioè di essere, per la determinatezza della sua durata, una mediazione dell’opposizione fra l’esistenza e la non esistenza) è concepito come una funzione dell’impossibilità, propria dell’uomo, di definirsi senza ambiguità nei confronti del silenzio e del rumore?
(Lévi-Strauss, Il crudo e il cotto)
Impotenza della Parola a sottrarsi al dilemma.
L’ambiguità che rintracciamo nel «significato» delle parole, non è che un accidente dell’Ambiguità co-originaria alla Parola.
Ciò che essa ha (o crede di aver) da dire, è sempre in questo Paese di mezzo che, una volta enunciato, «cade».
Cade nell’effimero, nel breve, nel transeunte.
Necessariamente.
Senza scampo: imputridisce.
Altro sarebbe stato, dice il Racconto, dare ascolto alla Lingua della Roccia o del Legno (duro) Secolare.
Incredibile! Sono gli stessi «riferimenti» che, nel Fedro, abbiamo già sentiti per bocca di Socrate. Gli antichi, dice, parlavano per rispondere alle provocazioni «forti», «millenarie», non passeggere.
Non alle suggestioni della Piazza che ogni giorno cambia le sue mode.
Ma alle domande antiche.
Più antiche di Esiodo (cfr. Teogonia, 35) ed Omero (cfr. Iliade, 22: 126; Odissea, 19: 163), nei quali «discorrere con la roccia e la quercia» è ormai diventata una formula «di maniera», e più nulla ha a che vedere col Destino della Parola Umana.