Thot è convinto che la sua invenzione «renderà gli Egiziani più sapienti e arricchirà la loro memoria». Assicura che la scrittura sarà una portentosa «medicina per la sapienza e per la memoria».
Sappiamo come la pensa Platone: σοφία e μνήμη, sapienza e memoria, non sono che le due «chiavi» di uno stesso tesoro – perché sapere è ricordare. L’Albero della conoscenza è l’Albero della memoria.
Perciò ha ragione Thamus: bisogna stare attenti a cogliere il «frutto» che pende dai suoi rami. Bisogna andarci piano coi facili trionfalismi di Thot, perché c’è σοφία e σοφία. Guai a confonderle!
Lo sapevamo già, e Platone ce lo conferma: la «conoscenza» è ambigua. Lo diranno, più avanti, pure i cabalisti: nell’Albero delle sefirot c’è una doppia Sophia. E il Racconto, dal canto suo, non manca di riproporci di volta in volta una doppia Isotta, o una doppia Ginevra, o perfino una doppia porta da cui sarebbe nato «due volte» un dio del calibro di Dioniso.
Cerchiamo però di non perderci in chiacchiere così «strabiche» (in fondo, è questa l’unica preoccupazione del re Thamus), e vediamo piuttosto se Platone non ci dà una mano a distinguere l’una dall’altra σοφία.
Ritorniamo dunque sulle perplessità del re Thamus.
L’invenzione della scrittura, dice, darà agli Egizi una δόξαν σοφίας, darà loro sì una σοφία – qualcosa che può sembrare, che si può credere e scambiare per σοφία, ma che σοφία non è. E il «nuovo sapiente» godrà pure di più μνήμη, di più memoria, ma solo «a parole». La sua «memoria» si ridurrà a ricordare dei segni (μνήμη) che però non sono «suoi», che non provengono dal fondo intimo del suo mistero, ma che sono dettati «da fuori»; e la sua non sarà più la σοφία αλήθεια – ossia, letteralmente, la σοφία che sa del sapiente a cui sboccia, la σοφία che si fa strada in un suo personale «manco di λήθη», in un venir meno «proprio a lui» dell’oblio, in quella particolare breccia che si apre «solo a lui» nel muro dell’ordinaria dimenticanza, in uno squarcio del velo che tutto avvolge nel mantello della sua Incognita, salvo poi svelarsi e farsi riconoscere in un esclusivo «faccia a faccia con lui».
Oggi, per semplificare (sic), diremmo che la σοφία αλήθεια non consiste in altro che in un «ritorno del Rimosso». Ma quale che sia la formula moderna con cui proviamo a renderla a noi più familiare, l’importante è non perdere di vista che si tratta di una «sapienza» che sorge da un’esperienza vissuta del sapiente, di una «sapienza» che è il sapore stesso della sua vita, perciò della sua intimità e della sua singolarità.
L’altra σοφία, quella che da tempo abbiamo preso la pessima abitudine di liquidare come «apparente», quando non addirittura «falsa», differisce solo in questo: che il suo alfabeto è fatto di «segni esterni», di cui ci si può appropriare anche senza averli «vissuti», anche senza sapere che cosa «significano», se mai significano qualcosa che altri hanno «vissuto» e poi «cifrato».
Questi «segni di fuori», questi «ideogrammi pubblici», sono di tutti e non sono di nessuno, parlano di tutto e non dicono niente di «autentico» di nessuno.
Insomma, per non farla difficile, ci conviene ridurre la questione nei minimi termini in cui re Thamus la pone: dimmi da dove vieni, e ti dirò che razza di Sophia sei! Vieni dalle foglie o dalla radice dell’Albero della conoscenza? Dai piani alti della Torre di Babele, o da uno scantinato? Vieni dalle luci delle vetrine del centro di una metropoli, o da uno di quei bassifondi inguinali a cui Nietzsche si appella come al luogo di origine e provenienza di tutta la chimica delle nostre idee, e – ahimé – dei nostri sentimenti?
Vieni dalla Notte dei Campi Elisi, o dall’ultimo aggiornamento alla tv del bollettino meteo?
Non ci vuole molto a capire che due sono le parole-chiave con cui Platone gioca ad aprire e chiudere il dibattito tra Thamus e Thot. Appena due: Lete e a-lêthé, di cui – come ognuno può vedere – la seconda è solo la «privativa» della prima. Se l’una è oblio, dimenticanza o rimozione – l’altra non può essere che ricordo, rimembranza e venire a galla di un «rimosso». Se l’una è Notte – l’altra non può fare a meno di essere l’Aurora. Se l’una si nasconde, l’altra non può non manifestarsi.
Due sole parole: Lete e alêthé – bastano questi due poli a orientare la via maestra a quella σοφία che proprio perciò può dirsi αλήθεια, perché irrompe direttamente dal Lete, in una maglia aperta o in un lembo slabbrato del suo velo. È la via incosciente, notturna e sconosciuta finanche a se stessa, finché non sfocia in un «riconoscimento» (μνήμη) di se stessa.
Questo «riconoscimento» è sempre un avvenimento individuale. Anzi, è proprio ciò che Jung chiamava il «principio di individuazione». Infatti, l’alba di questa σοφία che irrompe da una Memoria che ignorava di avere, è quella che oggi descriveremmo come l’alba dell’«io».
Questo «riconoscimento», questa «identificazione» primitiva, è sempre narcisistica: in prima «istanza» prende sempre la «faccia» del sapiente. E perciò, se pure contaminata e infiltrata dai «segni» pubblici, questa σοφία è l’Immagine riflessa, unica Copia conforme, del Sapiente che vi si specchia.
In questo avvenimento individuale, la Piazza però, coi suoi «rumori», non è poi così assente come ingenuamente Platone credeva, né viene dopo a turbare la nascita di una σοφία αλήθεια. Non c’è bisogno di scriverli, i «segni esterni», perché s’infiltrino nella testa dei sapienti. Anche quando erano soltanto «orali», per quanto meno invasivi, essi producevano già, quantomeno, un rumore di fondo.
Insomma, c’era già dell’Inconscio parlante, prima dell’avvento della scrittura. Forse non era un ibis come Thot, forse era appena un grillo che parlava, eppure il suo «effetto» già lo faceva.
Perché, orale o scritto, è in gioco il Simbolismo delle parole. Orale o scritto, il Gioco Umano è fatto di «segni», prevalentemente verbali. E questi segni, questi simboli non sono mai «cose private».
Non è la scrittura a pubblicarli. La scrittura non fa che aprire nuove frontiere a una pubblicità già in atto. La scrittura non fa che spostare queste frontiere sempre più sulla Piazza. Non fa che «allargare» la Piazza. E più la Piazza si allarga, più si fa evidente che la «sciagura» di cui Thamus si faceva «profeta», era già avvenuta: dico, molto prima degli antichi Egizi!
Il Lete, l’Incoscienza «naturale», ha ormai confuso talmente le sue acque con quelle dell’Inconscio («culturale») del Racconto Umano, che fa sorridere l’idea che qualcuno ancora si attarda a immaginare un Narciso solitario, un ego cogito cartesiano, alle prese solo ed esclusivamente con la sua Immagine – come dentro la più classica delle «campane di vetro» fuori da ogni contatto o contaminazione. Se a Platone lo possiamo perdonare, oggi l’errore sarebbe imperdonabile.
Perché, oggi, il nostro guaio è ben più grave di quello che re Thamus temeva! Cos’è l’Alfabeto portato in Egitto da Thot rispetto alla Chiacchiera che, a quest’ora, ci ha bell’e digeriti? e noi – nel labirinto delle sue viscere, nell’intrigo di vie e meandri della sua pancia, che altro possiamo fare, se non muoverci a tentoni per indovinare una via di fuga da questa Sapienza che dell’alêthé non ha più che una vaga mitologia?
Sapere per es. di Beatrice, solo perché ne ha scritto Dante – che sapere è, se nel «segno» di Beatrice non rintracciamo una nostra memoria, una μνήμη della nostra propria «personale e personificata» alêthé?
Se Beatrice fu a Dante la sua propria alêthé, la sua personale Sofia, la sua Guida al suo paradiso, per noialtri rimane un «segno» volgare, esterno, fuori di noi, un nome pubblico, una figura popolare.
Se dico questo, è perché Dante me l’ha insegnato. Mi ha insegnato che il Maestro di parola popolare, Virgilio nel suo caso, può guidare fin sulla soglia del paradiso, ma non oltre. E questo, non perché è «pagano», e ancor meno perché sarebbe, senti un po’!, la Ragione (ci manca poco che ne facciamo un Voltaire ante litteram!). No: questo, perché è Pubblico. Perché tutti possiamo leggere Virgilio. Così come tutti possiamo leggere Dante, e prenderlo a Guida e Maestro delle vie dell’anima.
Ma lui lo sa, lui lo dice: ti posso portare fin sulla soglia della tua Signora privata. Ce l’hai? – puoi andare avanti.
Non si tratta dunque di «vero» e «falso». Si tratta di due Maestri: uno è Thot, Ermes, Mercurio il Sapiente divino, o chiunque faccia le veci del Maestro di parola, magari un «mago» come Virgilio che ti chiama dal Racconto: vieni con me, seguimi – ché ti riporto a casa! L’altro è l’idolo di Narciso, la «faccia» in cui si è specchiato il tuo primo «erotismo», in cui ti sei destato dal Lete alla prima identificazione di te stesso. Sì, hai capito bene: l’altra Guida è la tua Desiderata, la Signora dei tuoi desideri, caro Narciso. È Lei la tua sola, privata, ed esclusiva Sophia. La tua alêthé. Quella che ti chiama dal fondo della tua Rimozione.
L’hai capito così bene, che non hai che da tuffarti in lei. Non hai che da assecondare il suo «richiamo», quello che a te è più intimo, più profondo, più «erotico».
E già, perché in fondo solo di questo si tratta.
Si tratta di richiami, e lo dice Platone stesso nel Fedro qualche rigo più avanti.
Dice (è Socrate che parla):
Gli uomini di una volta, dato che non erano sapienti come voi giovani d’oggi, nella loro ingenuità, si contentavano di dare ascolto ai richiami di una quercia o di una roccia – purché dicessero l’alêthé!
(Platone, Fedro, 275b)
Ci sono richiami «del legno putrido», oltre a quelli «della quercia e della roccia». Tre profondità «acustiche» (inferno, purgatorio e paradiso).
È Platone che ci ha guidati fin qua.
E qua, prima di prendere congedo, ci facciamo da lui ripetere quello che ci ha già detto ma che, di prima mano, ci è passato inosservato.
Per favore, ripeti: cosa diventeranno gli uomini, una volta alfabetizzati da Thot?
E lo sento, mentre si allontana, che mi ripete: diverranno «uditori di molte cose» (πολυήκοοι).
Saranno afflitti nell’orecchio, accerchiati da così tanti «si dice», assillati e penetrati a loro insaputa di così tante chiacchiere da non sapere più nessuna notizia di se stessi. Proprio così mi ha detto: saranno traditi dall’orecchio tutti i Narcisi. Avranno confuso a tal punto i «richiami», quelli di dentro e quelli di fuori, da non sapere più distinguerli.