
Nel corteo di Cibele errante, in lutto per la morte del figlio amante, figurava Marsia, l’amico della dea che suonando il flauto tentava di distrarla dal suo dolore. Era, dicono, un satiro o un sileno della Frigia e gli abitanti di Celene gli attribuivano la composizione dell’«aria della madre» che veniva suonata sul flauto in onore della Grande Dea.
Questo musico affascinava gli ingenui contadini al punto da far loro esclamare che il suo flauto era perfino superiore alla lira di Apollo.
Marsia ne concepì un tale orgoglio che osò provocare il dio.
Questi, molto irato, rilevò la spacconata e scelse le Muse come arbitre della tenzone, decidendo che il vincitore avrebbe potuto infliggere al vinto un castigo a sua scelta.
Ma le Muse, affascinate dall’uno come dall’altro, rifiutarono di dare un giudizio. E fu solo facendo ricorso a un’astuzia sleale, che Apollo ebbe alla fine ragione del suo avversario.
Sfidò Marsia a fare come lui: rivoltare il suo strumento e suonarlo a rovescio, cosa chiaramente impossibile con un flauto.
Trionfante, Apollo intonò allora inni meravigliosi in onore degli dèi dell’Olimpo e le Muse non poterono far altro che attribuirgli la palma.

La vendetta del dio offeso fu di un’atroce crudeltà. Scorticò vivo l’impudente e inchiodò la sua pelle a un pino, l’albero della dea.
In epoca storica veniva ancora mostrata la pelle di Marsia, appesa ai piedi dell’Acropoli di Celene nella Frigia del sud, in una grotta dalla quale sgorgava un torrente impetuoso e assordante, il fiume Marsia, affluente del Meandro.
La pelle, che formava un otre, era rimasta viva e trasaliva quando accanto venivano suonate melodie frigie, ma restava viceversa insensibile se veniva suonata un’aria in onore di Apollo.
Come ha osservato Frazer, esiste «una stretta somiglianza tra Marsia e Attis», anche lui «pastore o mandriano favorito della dea» e «suonatore di flauto … rappresentato ogni anno con un’effigie appesa a un pino come Marsia… Possiamo supporre che anticamente il sacerdote che portava il nome e rappresentava la parte di Attis nella festa primaverile di Cibele, fosse di regola impiccato all’albero sacro o ucciso in altro modo vicino ad esso e che questa barbara usanza venne poi mitigata nelle forme in cui la incontriamo nuovamente in un’epoca posteriore, quando il sacerdote si faceva semplicemente uscire del sangue dal corpo sotto l’albero e appendeva al tronco, invece del proprio corpo, la propria effigie» (Frazer, Il ramo d’oro).
A sostegno di questa verosimile ipotesi, Frazer avrebbe potuto aggiungere una importante convergenza: la grotta in cui riposano i resti di Marsia ricorda l’antro nel quale la dea raccoglie quelli dell’amante morto.
Per noi la differenza essenziale tra questi due personaggi sta nel fatto che, se Attis sacrifica se stesso, Marsia è sacrificato.
Possiamo vedere in questa immolazione il richiamo di un’antica usanza, quella dei sacrifici umani, della quale rimangono nella mitologia tracce che abbiamo in precedenza rilevato, come per esempio lo smembramento di Dioniso-Zagreo da parte dei Titani.
Se, come è assolutamente lecito credere, la leggenda di Marsia è il ricordo di un rito arcaico, essa completa la nostra documentazione. Sull’esempio dello sventurato flautista la vittima era fatta a pezzi viva, come il toro di Cnosso, e in seguito il suo corpo veniva dilaniato come quello di Zagreo e i frammenti venivano sparsi nei campi, mentre la pelle era appesa all’albero sacro.
Questo esempio di smembramento è unico nel mondo greco, ma in quanto tale impressionante, il che spiega che venga ricordato dagli autori più svariati. Non si può fare a meno di accostarlo a esempi molto lontani, ma ben noti, quelli delle offerte compiute dagli Aztechi a certi «dèi della terra e della vegetazione» di uomini e donne che in genere venivano «scorticati».
Poteva accadere che si servissero delle pelli umane in tal modo staccate dal corpo per rivestirne i sacerdoti e le statue degli dèi. In Messico esisteva perfino un dio, Xipe Totec, rappresentato con una pelle umana indossata sopra la propria. Gli Aztechi lo chiamavano «Nostro Signore lo Scorticato». Per loro era una divinità del risveglio primaverile della natura «perché nella pelle staccata vedevano la nuova veste che copre la terra e che è la tenera vegetazione» (Krickenberg).
Xipe Totec era un dio dei fiori e della giovinezza, ma anche della musica, come Marsia e Apollo. Sia come sia, Marsia e Attis, appesi a dei pini, uno nella realtà l’altro in effigie, vanno accostati alle dee appese ad alberi nelle feste della vendemmia.
Marsia, che secondo gli autori era un satiro, ricorda Pan, anche lui vinto da Apollo in una competizione musicale. Ora Pan ci viene rappresentato come l’inventore di un flauto, quello che porta il suo nome, e non è privo di interesse ricordare come arrivò a quella scoperta in seno al regno vegetale.
Grande appassionato delle ninfe che popolavano il suo regno, l’Arcadia – dove, come in Frigia, dato che i due paesi erano stati ellenizzati solo tardivamente, si conservavano costumi e leggende arcaici – Pan inseguì un giorno la casta Siringa. Quando stava per raggiungerla, essa corse dal padre, il fiume Ladone, e lo supplicò di trasformarla in canna.
Essendo stata esaudita, Pan non riuscì a distinguerla in mezzo alle canne che costeggiavano il fiume; allora ne tagliò parecchie e con esse costruì la siringa, il flauto di Pan.
Anche Marsia è in rapporto con un fiume, quello in cui fu tramutato lui stesso dopo la morte, e deriva il suo flauto non da una semplice ninfa, ma da Atena in persona, la quale lo gettò via dopo averlo inventato perché le sue guance gonfie, quando lo suonava, facevano ridere gli dèi dell’Olimpo.
Fu allora che Marsia lo raccolse.

La nascita del flauto di Pan corrisponde a una metamorfosi e a un sacrificio, quello di Siringa, e si può postulare che lo stesso avvenne per Marsia, il quale sarebbe o un re albero che veniva scorticato ritualmente, oppure la corteccia di un ramo svuotato per fabbricare uno zufolo.
In questo caso si tratterebbe dell’ontano, che cresce vicino ai corsi d’acqua e in passato era utilizzato per quello scopo, consuetudine in cui ritroviamo traccia nel mito di Foroneo, spirito dell’ontano ed eroe oracolare, figlio del fiume Inaco e di Melia, la ninfa del frassino.
Anche Orfeo, il musico tracio che fu probabilmente flautista prima che Apollo gli donasse la lira, era in rapporto con un albero, dato che suo padre si chiamava Eagro, che, secondo Graves, significherebbe «dell’ulivo selvatico», specie che, prosegue l’autore, praticamente veniva confusa con l’ontano.
Anche Orfeo fu fatto a pezzi, ma dalle Menadi. Il che dimostra che la musica, dono divino, non è mai stata ottenuta senza fatica.
Vale la pena osservare che, di questi tre flautisti, Apollo fu sempre il vincitore con il suo strumento.
Nel caso di Orfeo, la sua vittoria fu quanto mai pacifica, perché il dio fece dono di una lira a Orfeo e da taluni ne fu anche ritenuto il padre.
Con Pan, il comportamento del dio dimostrò una certa circospezione, che ci viene anche spiegata; se non lo punì è perché voleva imparare da lui l’arte della profezia e ci riuscì adulandolo. Peraltro, dell’ingenuo satiro si fece gioco anche Ermes il quale, avendo raccolto il flauto che quello aveva lasciato cadere, l’imitò e vantandosi d’esserne l’inventore lo vendette ad Apollo che quel giorno si lasciò abbindolare, ma fece malgrado tutto un buon affare, perché così l’eredità di Pan gli perveniva tutt’intera.
Solo Marsia fu punito e nel modo terribile che abbiamo visto.
(Brosse, Mitologia degli alberi)