Di lì [Mercurio] il dio che impugna il caduceo s’era levato in volo a planare e, volando, di lassù mirava i campi di Munichia e il parco del Liceo, terra cara a Minerva.
Si dava il caso che quello era proprio il giorno in cui, secondo l’usanza, caste fanciulle recavano alla rocca di Pallade parata a festa, in ceste inghirlandate poggiate sul capo, i puri e sacri arredi. Il dio alato le vide che di lì tornavano e, anziché prendere la retta via, cominciò a descrivere un girotondo in volo su se stesso.

Come il nibbio, velocissimo uccello, quando avvista dei visceri: esita finché c’è folla intorno al sacrificio, volteggia in tondo ma senza osare allontanarsi, e avido, muovendo le ali, vola attorno alla sua speranza; così l’agile dio del Cillene, come puntando sulla rocca dell’Attica, sospeso se ne sta in aria sempre nello stesso cielo.
Quanto Lucifero rifulge più luminoso delle altre stelle, e quanto la Luna d’oro ancor più di Lucifero, di tanto più bella di tutte le altre vergini incedeva Erse, gemma della processione e delle sue compagne.
Il figlio di Giove fu incantato dalla sua bellezza e, sospeso in cielo, s’infiammò non diversamente dal piombo scagliato da una fionda delle Baleari, che vola e volando si fa incandescente e trova sotto le nuvole quei fuochi che in sé non ha. Cambia rotta e lascia il cielo per cadere sulla terra, e nemmeno si camuffa, tanta fiducia pone nel suo aspetto.
Fiducia ben riposta, eppure si dà qualche ritocco, si liscia i capelli, sistema il mantello in modo che scenda bene e che si veda il bordo con tutto l’oro, ripulisce fino a farla luccicare la bacchetta con cui porta e scaccia i sogni, e cura che i sandali splendano ai suoi piedi lustri.
C’erano nella parte segreta della reggia tre camere decorate d’avorio e d’osso di tartaruga: di queste la tua, Pandroso, era quella a destra, di Aglauro quella a sinistra, e quella centrale di Erse. Quella della camera a sinistra fu la prima a notare l’arrivo di Mercurio, ed ebbe l’ardire di chiedere il nome del dio e il motivo della sua venuta.
A lei così rispose il nipote di Atlante e di Pleione: «Io sono colui che porta per l’aria i messaggi del padre, e mio padre è Giove in persona. Non ti dirò bugie: spero solo che tu faccia la brava con tua sorella e che ti piaccia essere detta zia della mia prole. Son qui per Erse; ti prego, aiuta un innamorato!».
Aglauro lo scrutò con gli stessi occhi con cui, poco prima, aveva guardato dentro la misteriosa cesta della bionda Minerva, e chiese in compenso un bel mucchio d’oro; per il momento, intanto, lo fece uscire di casa.
Fu allora che la bellicosa Minerva rivolse a lei una torva occhiata e mandò un sospiro così profondo da scuotere tutto il petto, nonché l’egida posta sul petto possente. Le tornò a mente che costei, con mano empia, aveva scoperto il segreto vedendo, nonostante il divieto, il fanciullo che Vulcano, il dio di Lemno, aveva generato senza madre, e pensò che ora si sarebbe addirittura guadagnata la riconoscenza di Mercurio e quella della sorella e si sarebbe arricchita prendendosi l’oro che, avida, aveva richiesto.
E subito si recò a casa di Invidia, squallida e sgocciolante di nero marciume. La casa era nascosta in fondo a una valle, mai illuminata dal sole, da nessun vento battuta, triste e piena di gelo e di torpore, e tale che vi mancava sempre il fuoco, e sempre da caligine era avvolta.
Come vi giunse, la temibile vergine guerriera si fermò sulla porta (non le era permesso infatti entrare in quella casa) e bussò con la punta della lancia.
La porta, così scossa, si aprì: e dentro vide Invidia che mangiava carne di vipera e così nutriva i suoi vizi, e a quella vista distolse lo sguardo. Ma quella si alzò pigramente da terra, lasciando i brandelli di serpenti mezzi rosicati, e con passo fiacco venne avanti, e come vide la dea tutta bella e adorna d’armi, mandò un gemito e contrasse sospirando la faccia.
Il pallore le tingeva il volto, aveva un corpo tutto macilento, lo sguardo suo era sfuggente ed evasivo, la lingua intrisa di veleno. Mai si concedeva una risata, se non alla vista d’un dolore. Mai si abbandonava al sonno, sempre agitata era da pensieri che la tenevano vigile e desta. Vedeva solo, con dispiacere, i successi della gente, e al vederli si struggeva, e rodendo se stessa e gli altri, così si crucciava.
Malgrado il ribrezzo, la dea del Tritone le rivolse queste brevi parole: «Infetta del tuo veleno una delle figlie di Cecrope! Devi farlo. Si tratta di Aglauro». E senza aggiungere altro, se ne andò: dandosi la spinta con la lancia, si staccò da terra e volò via.
Quella, vedendo con bieco sguardo la dea che se ne andava, borbottò qualcosa, addolorata perché avrebbe dovuto accontentare Minerva. Prese il bastone, tutto fasciato di rami spinosi, e nascosta da nere nubi, ovunque passasse, calpestò campi in fiore, bruciò l’erba, strappò le cime alle piante e col suo fiato appestò la gente, le case e le città, finché giunse in vista della rocca di Atene, fiorente di ingegni, di ricchezza e di pace festosa. A stento trattenne le lacrime, non vedendoci nulla di lacrimevole.
Entrò comunque nella camera della figlia di Cecrope ed eseguì l’ordine: con la mano rugginosa le toccò il petto e le riempì il cuore di rovi uncinati; le insufflò un terribile veleno, come una pece, e glielo diffuse per le ossa, glielo sparse nei polmoni.
E perché gli appigli del male non restassero vaghi, le fece apparire dinanzi agli occhi la bell’immagine della sorella felicemente congiunta al dio.
Irritata da queste cose, la figlia di Cecrope fu morsa da occulto dolore, e notte e giorno gemeva senza darsi pace e, infelicissima, poco a poco si strusse, come ghiaccio trafitto da un sole incerto.
E ancor più si riscaldava al pensiero di Erse felice, come fuoco crepitante da sotto una sterpaglia che non s’infiamma e tuttavia brucia di fiacco tepore. Sovente avrebbe voluto morire, pur di non vedere niente di simile; spesso avrebbe voluto denunciare la cosa al padre severo, spacciandola per un crimine.
Alla fine, sedette sulla soglia decisa a scacciare il dio quando fosse venuto. E quando lui cercò di blandirla, rivolgendole preghiere e gentilissime parole, lei disse: «Falla finita! Di qui non mi muoverò, se prima non ti avrò scacciato!».
«Sta bene!», rispose prontamente il dio del Cillene, e con la verga spalancò la porta cesellata.
Lei fece per alzarsi, ma le parti che si piegano quando ci sediamo, prese da torpida gravità, non le si muovevano più. Si sforzò, sì, di drizzarsi sul tronco, ma le giunture delle ginocchia si erano irrigidite, un freddo s’era sparso fino alla punta delle dita, e senza più sangue le vene s’erano fatte pallide; e come il cancro, male incurabile, si propaga serpeggiando e aggredisce le parti sane dopo quelle guaste, così quel gelo mortale poco a poco le penetrò in petto, occludendo le vie vitali e il respiro.
Non provò nemmeno a parlare, né se ci avesse provato la voce avrebbe trovato una via d’uscita: ormai il suo collo s’era pietrificato, la sua bocca s’era indurita.
Immobile stava come statua esangue, ma non era di pietra bianca: la sua mente l’aveva sporcata.
(Ovidio, Metamorfosi, 2: 708-832)