… forse non c’è che una timidezza, una sola pietra d’angolo – minima e insignificante – a tenere in piedi la baracca di cotanto narcisismo.
Pardon.
La faccio lunga, sempre troppo lunga.
Troppi preamboli, e giri di parole. Veniamo al dunque!
Non voglio perderti più – disse Narciso alla sua Immagine.
Non posso perderti più – disse Gilgameš al suo sogno immortale.
Non posso e non voglio perderti più – dacché ti ho già sognata, immortalità, e ho sognato che Tu non mi volevi, se prima tu stessa non mi avessi sognato.
Se non germogliasse qui anche la mia contraddizione – non avrei da dire altro che filosofie e sapienze mediche. E le direi, sono sempre tentato di dirle. Se solo non fossi io il figlio di quella, antica, Contraddizione.
Perciò posso, forse, una su infinite probabilità, solo ritrovarti – disse tra sé e sé il Meschino. – E ritrovarti solo se e là dove la vita avrà più fantasia di tutti i sogni e le immaginazioni messe assieme.
Perché ci vuole tanta, ma veramente tanta fantasia per immaginarsi qualcosa di più potente di un lampo narcisistico – di un «ideale dell’io» come quello che mi accecò per contraddirmi, ahimé fin troppo pubblicamente, a me stesso.
Dovevo tacerti, invece di tanta pubblicità? Tuffarmi nel silenzio del mio flauto, invece di mettermi in competizione con Apollo, io che neanche l’alluce valgo di un Marsia qualunque?
Che tu lo sappia o no, che tu me lo voglia o no concedere, è accaduto tutto il mondo in quello sguardo di Narciso. Ma come faccio a dirtelo che fu, anche quello, sempre lo stesso Numero di un’antica Magia, elevato però a una potenza che gli era ancora sconosciuta? Come faccio a dire che fu, un’altra volta, sempre lo stesso Possibile a illuderlo di novità?
Posso essere lui – pensò Narciso. – Quello lì che ti ho visto luccicare addosso lungo una tangente alla curva delle mie vertigini.
Non importa chi era il Calamo e chi la Pagina su cui scriveva. Chi Narciso e chi la sua Immagine. Non importa più.
Che tu ci creda o no, era solo l’eco di pazzie senza corpo e senz’altro colore che quelli che vidi danzare, quel giorno, nei tuoi occhi. Non udii, credo, che il ritornello gioioso di cento lamentazioni funebri: Osiride non è morto – mi parve di capire. – Osiride non è morto fulminato negli occhi di Iside. Osiride è morto solo alla sua divina incoscienza. Osiride è stato rifatto, Osiride redivivo è un trucco quasi perfetto. Peccato per quel quattordicesimo organo del suo desiderio che non fu mai ritrovato.
La Vita non ebbe, allora, la dovuta fantasia di farlo risorgere pienamente alla sua Origine. Qualcosa doveva mancare – perché si potesse riconoscere la vastità di luce della Via Lattea. Qualcosa si doveva oscurare. Per forza, anche tra noi due.
Per un peccato antico – un peccato di desiderio – contravvenuto alla Regola di una maledizione ancora più antica, a sua volta sopravvenuta a un più antico malocchio.
Come faccio a dirtelo che, di questo tripartito imbroglio ancestrale, oggi – io e te – non sappiamo e non possiamo celebrare altro che la data? Perché solo alla data il tempo di Narciso si dà, non essendoci altro «posto» in cui il Racconto possa custodirgli la memoria dei suoi tre immemorabili misfatti.
Immemorabili e antichi – quanto è antica, ogni anno, questa tragicomica metà di novembre a cui si danno appuntamento certe stelle, per inscenare la più capricciosa delle loro finzioni nella mia mente: quella, come minimo assurda, a far coincidere l’Antico e il Nuovo, la Notte e il Giorno, in uno stesso lampo – o, come pure si racconta, a dividere in due stracci uno stesso mantello, a condividere la piega di una stessa placenta.
In quel tuo sguardo vidi solo un divino tiremmolla, nient’altro che linee divergenti da un angolo scoperto sul lato nord-ovest del Tempio.
Non mi sogno neanche di chiederti di crederci, ma tutto girava contromano, il tempo stesso, come spinto da un dio luciferino, si abbandonava a questa follia di nuotare contro la sua corrente.
Fu un sollievo lasciarmi andare a questa sua illusione di giungere, dove ora il calendario della mia Arte mi pone: oltre l’addio. A quaranta giorni dalla mia risurrezione.
Ti vidi – e solo così ti posso rivedere. Solo là: oltre l’addio, dispersa come una puledra selvaggia nei pascoli dell’eterna metonimia di chissà quale mio antico miraggio. Posso vederti – come un’altra potenza del Primo Numero di Magia: quella che il Pavone nasconde dietro il tabernacolo di colori della sua coda.
Ti vidi – e solo così ti posso ritrovare: nell’attimo che ti perdo mentre ti fondi nell’orlo della Veste di una certa qual madonna.
Puoi non crederci, è meglio se non ci credi. Non fu una visione, e ancor meno una questione tra te e me.
Fu solo una pioggia di parole insubordinate a ogni altra dominazione che non fosse l’imperativo di Luce di quella Oscura Signora.
Come potrei non contraddirmi?
Se ti dico addio, è solo per volerti bene.
(Aiguesmortes, Quaderni)