Quando si vogliono studiare gli uomini, bisogna guardare vicino a sé; ma per studiare l’uomo, bisogna imparare a guardare lontano; bisogna anzitutto osservare le differenze, per poter poi scoprire le proprietà
(Rousseau, Saggio sull’origine delle lingue, VIII)
Questa regola di metodo che Rousseau fissa all’etnologia contrassegnandone l’avvento, consente anche di superare quel che a prima vista potrebbe essere considerato un duplice paradosso: che Rousseau sia riuscito, simultaneamente, a preconizzare lo studio degli uomini più lontani, ma dedicandosi soprattutto all’analisi di quell’uomo particolare che sembra essere il più vicino, cioè di se stesso; e che, in tutta la sua opera, la volontà sistematica di identificazione all’altro vada di pari passo con un rifiuto ostinato di identificazione a sé.

Queste due apparenti contraddizioni, infatti, si risolvono in un’unica e reciproca implicazione, e ogni carriera di etnologo deve, a un certo momento, superarle.
E il debito dell’etnologo verso Rousseau viene ad essere accresciuto dal fatto che egli, non contento di avere, con precisione estrema, situato una scienza ancora da nascere nel quadro delle conoscenze umane, abbia inoltre, con la sua opera, con il temperamento e il carattere che in essa si esprimono, con ogni suo accento, con la sua persona e il suo essere, preparato all’etnologo il fraterno conforto di un’immagine nella quale egli si riconosce, e che l’aiuta a comprendere meglio se stesso, non come pura intelligenza contemplatrice, ma come involontario agente di una trasformazione che lo percorre, e che, in Jean-Jacques Rousseau, l’intera umanità impara ad avvertire.
Ogni volta che è sul terreno, l’etnologo si vede alle prese con un mondo in cui tutto gli è estraneo, e spesso ostile. Solo quell’io, di cui ancora dispone, gli consente di sopravvivere e di compiere la sua ricerca; ma un io fisicamente e moralmente straziato dalla fatica, dalla fame, dal disagio, dallo scuotimento delle abitudini acquisite, dal sorgere di pregiudizi di cui non aveva il sospetto; e che scopre se stesso, in questa strana congiuntura, rattrappito e storpiato da tutti i sobbalzi di una storia personale responsabile in partenza della sua vocazione, ma che, per di più, influenzerà ormai il suo corso.
Nell’esperienza etnografica, di conseguenza, l’osservatore si coglie come proprio strumento di osservazione; evidentemente, bisogna insegnargli a conoscersi, a ottenere, da un sé che si rivela come altro all’io che lo utilizza, una valutazione che diventerà parte integrante dell’osservazione di altri «sé».
Ogni carriera etnografica ha il suo principio in «confessioni», scritte o inconfessate.
Ma, se possiamo illuminare questa esperienza con quella di Rousseau, non è forse perché il suo temperamento, la sua storia particolare e le circostanze, lo collocarono spontaneamente in una situazione il cui carattere etnografico appare chiaro?
Situazione da cui egli trae immediatamente le conseguenze personali:
Eccoli dunque – dice dei suoi contemporanei – stranieri, ignoti, nulli insomma per me, visto che l’hanno voluto! Ma io, distaccato da loro e da tutto, che cosa sono mai? ecco quanto mi resta da cercare.
(Rousseau, Le fantasticherie di un passeggiatore solitario, I)
E l’etnografo potrebbe, parafrasando Rousseau, esclamare, considerando per la prima volta i «selvaggi» che si è scelto: «Eccoli dunque, stranieri, sconosciuti, nulli insomma per me visto che io l’ho voluto! Ed io, distaccato da loro e da tutto, che sono mai? ecco quanto devo anzitutto cercare».
Infatti, per riuscire ad accettarsi negli altri, fine che l’etnologia assegna alla conoscenza dell’uomo, occorre anzitutto rifiutarsi in sé.
A Rousseau dobbiamo la scoperta di questo principio, il solo su cui possano fondarsi le scienze umane, ma che doveva restare inaccessibile e incomprensibile fintantoché fosse regnata una filosofia la quale, prendendo il proprio punto di partenza nel cogito, fosse prigioniera delle pretese evidenze dell’io, e non potesse aspirare a fondare una fisica se non rinunciando a fondare una sociologia e persino una biologia: Cartesio crede di passare direttamente dall’interiorità di un uomo all’esteriorità del mondo, senza rendersi conto che fra tali due estremi si collocano le società, le civiltà, ossia i mondi degli uomini.
Rousseau che, con tanta eloquenza, parla di sé alla terza persona (giungendo perfino talvolta, come nei Dialoghi, a sdoppiarla), anticipando così la formula famosa: «io è un altro» (formula che l’esperienza etnografica deve avverare, prima di dimostrare, com’è suo compito, che l’altro è un io), si afferma il grande inventore di questa obiettivazione radicale, quando definisce il proprio scopo come quello, da lui indicatoci nella Prima Passeggiata, «di rendermi conto delle modificazioni della mia anima e del loro succedersi».
E prosegue: «Farò su me stesso in certo qual modo le operazioni che i fisici fanno sull’aria per conoscerne lo stato giornaliero».
Quel che Rousseau esprime di conseguenza, è – verità sorprendente, sebbene la psicologia e l’etnologia ce l’abbiano resa più familiare – che esiste un «lui» che si pensa in me, e che mi fa dubitare se sono io a pensare.
Al «che cosa so?» di Montaigne (da cui è derivato tutto), Cartesio credeva di poter rispondere che io so di essere, dato che penso; al che Rousseau ritorce un «che cosa sono?» senza garanzia di via di uscita, in quanto il problema presuppone che un altro, più essenziale, sia stato risolto: «ma io sono?»; e in quanto l’esperienza intima fornisce solo quel «lui», che Rousseau ha scoperto e di cui ha lucidamente iniziato l’esplorazione.
Non inganniamoci: nemmeno l’intenzione conciliante del Vicario savoiardo riesce a dissimulare che, per Rousseau, la nozione dell’identità si acquisti per inferenza, e che rimanga ambigua: «esisto … ecco la prima verità che mi colpisce e che sono costretto ad ammettere [corsivo di Lévi-Strauss] … Ho un sentimento proprio della mia essenza, oppure la avverto solo attraverso le mie sensazioni? Ecco il primo dubbio che, almeno per ora, è impossibile risolvere».
Ma proprio nell’insegnamento specificamente antropologico di Rousseau – quello del Discorso sull’origine dell’ineguaglianza – si scopre il fondamento di questo dubbio, fondamento che consiste in una concezione dell’uomo che pone l’altro prima dell’io, e in una concezione dell’umanità che, prima degli uomini, pone la vita.
Infatti è possibile credere che con la comparsa della società sia avvenuto un triplice passaggio, dalla natura alla cultura, dal sentimento alla conoscenza, dall’animalità all’umanità – dimostrazione che è l’obiettivo del Discorso – solo se attribuiamo all’uomo, e già alla sua condizione primitiva, una facoltà essenziale che lo spinga a superare quei tre ostacoli; una facoltà, dunque, caratterizzata, originariamente e in modo immediato, da attribuiti contraddittori, se non contraddittoria essa stessa; che sia, in pari tempo, naturale e culturale, affettiva e razionale, animale e umana; e che, per il solo fatto di diventare cosciente, possa convertirsi dall’uno all’altro piano.
Tale facoltà, come Rousseau non ha cessato di ripetere, è la pietà, derivante dall’identificazione a un altro che non è solo un parente, un vicino, un compatriota, ma un uomo qualsiasi, dal momento che è un uomo, anzi, un essere vivente qualsiasi, dal momento che è vivente.
L’uomo comincia dunque col sentirsi identico a tutti i suoi simili, e non dimenticherà mai questa esperienza primitiva, nemmeno quando l’espansione demografica (che assume, nel pensiero antropologico di Rousseau, una funzione di avvenimento contingente, che avrebbe potuto non prodursi, ma che dobbiamo ammettere si sia prodotto dal momento che la società c’è) l’avrà costretto a diversificare i suoi generi di vita per adattarsi agli ambienti differenti in cui il suo aumento numerico l’avrà indotto ad espandersi, e a sapere distinguere se stesso, ma solo nei limiti in cui un faticoso apprendistato lo istruiva a distinguere gli altri: gli animali secondo la specie, l’umanità dall’animalità, il mio io dagli altri io.
Il coglimento globale degli uomini e degli animali come esseri sensibili, in cui consiste l’identificazione, precede la coscienza delle opposizioni: fra proprietà comuni, anzitutto; e solo più tardi, fra umano e non-umano.
Proponendo questa audace soluzione, Rousseau proclama nientemeno che la fine del cogito. Sino allora, infatti, si trattava soprattutto di mettere l’uomo fuori questione, di assicurarsi cioè, con l’umanesimo, una «trascendenza di ripiego».
Rousseau può rimanere teista, era la minima concessione che poteva fare alle esigenze della sua educazione e del suo tempo: ma demolisce definitivamente il tentativo rimettendo l’uomo in questione. […]
Il pensiero di Rousseau prende dunque le mosse da due princìpi: quello della identificazione agli altri e addirittura al più «altro» fra tutti gli altri, l’animale; e quello del rifiuto dell’identificazione a se stesso, cioè il rifiuto di tutto ciò che può rendere «accettabile» l’io.
Questi due atteggiamenti si completano, e il secondo persino fonda il primo: in verità, io non sono «io» ma il più debole, il più umile degli «altri».
Ecco la scoperta delle Confessioni …
E l’etnologo, che cosa scrive se non confessioni?
In proprio nome, anzitutto, poiché è il movente della sua vocazione e della sua opera; e, in questa opera stessa, in nome della propria società, la quale, attraverso l’ufficio dell’etnologo, suo emissario, si sceglie altre società, altre civiltà, e proprio fra quelle che gli sembrano le più deboli e le più umili; ma per verificare fino a che punto essa sia «inaccettabile»: non forma privilegiata, ma solo una delle società «altre» che si sono succedute nel corso dei millenni, e la cui precaria diversità testimonia ancora che l’uomo, anche nel suo essere collettivo, deve conoscersi come un «lui», prima di osare pretendere di essere un «io».
(Lévi-Strauss, Jean-Jacques Rousseau, in Razza e storia e altri studi di antropologia)