Il tiglio fatale a Sigfrido

Alla fin fine, ogni Eroe ha il suo punto debole. Ogni Achille, il suo tallone. Va da sé che, se non l’avesse, sarebbe un dio al cento per cento: non sarebbe in niente e per niente «umano».
L’Eroe deve avere un briciolo di umanità, deve essere un dio debole – di quel tanto che basta a farlo morire: a fargli cioè condividere questa unica piccola pecca del destino umano – la mortalità.

Sigfrido-e-dragoIn quanto a Sigfrido, è tutta nella spalla la sua «umana» vulnerabilità. Sigfrido muore «perché non si guarda alle spalle».
Il Racconto dice che tra quelle sue spalle gli si era appiccicata una foglia di tiglio, e perciò, quando si bagnò nel sangue del drago, di tutto il suo corpo che così «si deificò» e divenne «immortale», solo la spalla rimase all’asciutto.
Quella foglia di tiglio, come una remora del Passato, lui non la vedeva, però gli stava sulla spalla. Non pareva un peso, eppure nel destino dell’Eroe doveva pesare più di tutte le sue gesta.
Quella foglia era, all’incirca, la stessa che ritroviamo nei miti d’Oltreoceano: non è più una foglia, è una «donna-rampone», qualcosa come un «rimorso», o un ritorno del Rimosso, qualcosa come l’insostenibile leggerezza di un senso di colpa – che si attacca, vischiosa, sulla spalla dell’Eroe e non va più via.

Diciamo così: il tiglio sta «appiccicato» con – sta «appiccicato» a Sigfrido.
Il loro «appiccico» viene da lontano, risale a tempi immemorabili, aspetta solo il momento buono per la resa dei conti.
Il tiglio è talmente vincolato al destino dell’Eroe che lo stesso Drago con cui «si appiccica» in certe versioni popolari della Leggenda è detto Lindwurm, «verme del tiglio»: egli è, cioè, la forma «animale» di quello Stesso Nemico di Sigfrido, di cui il Tiglio è la forma «vegetale», la forma «più antica». E dunque è quella che, morto il Drago, non mancherà di prendersi la rivincita: nel Racconto è detto che fu sotto un grande tiglio che Sigfrido venne ucciso «a tradimento». È detto che fu ucciso «alle spalle», mentre era chino a bere alla fonte. L’eroe era lì per dissetarsi, ma ahimé sul bordo della fontana cresceva un tiglio, il solo di tutti gli alberi che gli non gli aveva prestato «giuramento».

Sigfrido, come tutti gli Eroi, è un dio imperfetto – un dio mortale, un dio vinto dal suo Nemico. Da quel Nemico che lui credeva d’aver ucciso, uccidendo il Drago.
Di questa sua imperfezione una traccia è rimasta nei nostri cieli. Mentre il resto del suo Corpo divino e immortale è invisibile al nostro sguardo (tutto ciò che è «divino» è al di là dei nostri cieli sensibili), la sua Spalla vulnerabile, quella sì la possiamo vedere. Di Sigfrido a noi è dato «vedere» solo l’Omero che vacillò, solo Orione che s’inclinò sotto quel certo peso di quella certa cesta in cui, nella discesa, portava quaggiù gli Otto Semi del Racconto.

Sigfrido-morte

Il Racconto dice che il nostro prometeico Antenato «nella discesa» perse la propria «immortalità». Dice che discese nel Paese dove si muore. Dice che fu Lui a portarci la Morte – che prima non c’era.
Il Racconto dice che il Protagonista di tutti i racconti è il Tempo, e dice che tutti gli eroi non sono che Figure Temporanee del Tiranno. Figure che restano impresse nella Memoria. Figure leggendarie, fiabesche.
Inviate dal Tempo a combattere contro il Tempo, questo è il destino di tutte le memorie. Il Racconto dice che in queste condizioni si trovano, fin dal principio, a esser presi tutti gli Eroi di cui narra la gesta. Presi in questo paradosso: che chi costruisce Memorie, rimane prima o poi sepolto sotto uno dei suoi Monumenti. E in particolare di quello innalzato «al milite ignoto», ovvero all’Ignoranza che ha fatto di lui un Milite, e l’ha spinto alla Guerra. A fare guerra, innanzitutto, a Se Stesso.

Il Racconto dice che, in tutte le guerre c’è la Vendetta. Dice che è il Tempo a vendicarsi di chi gli muove guerra.
Dice che il Maligno è antico, e che la sua malignità, prima che del Drago, era del Tiglio, e prima del Tiglio era rintanata nel guscio della Prima Parola e del suo Misfatto indicibile – remoto e rimosso.
La Malignità, non puoi ucciderla, perché si attacca alla tua spada. Non puoi non essere maligno quando fai dell’altro il Maligno.

foglia-tiglioDice il dizionario: tiglioso, che presenta fibre dure e resistenti, che si mastica male – donde: non commestibile, consigliato però per fare cesti e canestri.
Ricordi? l’Antenato dogon «masticò» la Seconda Parola per farla discendere tra noi, si mise delle fibre in bocca per «articolare» le lettere del suo alfabeto. Dovette omettere pure lui certi suoni «tigliosi», troppo duri per essere «detti» a voce. Suoni di crudeltà troppo strazianti perché la Voce stessa non si straziasse fino ad ammutolirsi, nel tentativo di musicarli.

Perciò quelle crudeltà «nude e crude» restano obbligatoriamente in silenzio in tutte le iniziazioni umane. Restano indicibili – avvolte nell’oscurità del Polo della Parola.
Tu ti chini per bere alle sue chiare fresche dolci acque, tu speri in un sorso di dolce stilnovo – e un nemico fraterno, un amico fidato, un affine congiunto prossimo parente … ti pugnala alle spalle.

Il punto debole dell’Uomo è alle sue spalle!
Tu fai la guerra al Mostro che hai di fronte, e come ogni sciocco cavernicolo, mio caro Antenato, tu non vedi che un’ombra proiettata sul muro. L’Ombra del tuo corpo. Di quella «parte» cioè del tuo essere che, nella discesa, non si immerse – e perciò non «si deificò» nell’Oblio e nell’Incoscienza.

In questa Caverna d’Ombre, eroico fu il Nostro Antenato che ci si avventurò.
Eroico e tragico – come Wagner lo musicò.
Milite del Sublime auto-sacrificio che l’Antenato s’inflisse – quando guardò solo davanti, solo di fronte a Sé.
Bisogna però essere «germanici» fino in fondo, diceva Nietzsche, per non schierarsi, come fa Wagner, unilateralmente dalla parte di Sigfrido. Senza un briciolo di pietà per il Drago. E senza, soprattutto, farsi una buona volta la domanda: perché di tutti gli alberi del bosco solo il tiglio non giurò fedeltà a Sigfrido? E, insieme: perché di tutti gli alberi del paradiso solo il melo era proibito? E perché degli Otto Semi che l’Antenato portò quaggiù quando vi discese, solo la Digitaria, solo quel semino insignificante gli pesò così tanto sulla spalla – da fargli fare quel certo «peccatuccio umano», quella certa non so quale concessione al Maligno, di cui paga il prezzo con la Morte?

In questo inferno popolato di mille perché senza risposte, ecco dove si aggira il Racconto da quando discese dal cielo. Prima seconda e terza parola … e la parola della Moltitudine, l’Impero del Segno. Vegetale, animale e umano … e la disumanità della Chiacchiera, la Tirannia del «SI DICE» che …

Wagner-Sigfrido

Forse una volta, il Racconto si aggrappava alla Tragedia per mantenere viva, sia pure dolorosamente, la sua illusione di poter, prima o poi, in un modo o nell’altro, trovare il bandolo della sua Matassa. Aveva lasciato fuori dal gioco, proprio per questo, il capo del filo del suo gomitolo nelle mani della Fanciulla di cui si fidava. Aveva consegnato a Lei la chiave di violino di tutti i suoi pentagrammi.
Alla Sposa dell’Eroe.

Oggi, se non forse già ai tempi di Wagner, la Tragedia è talmente divenuta reale – che è poco credibile ogni tentativo di metterla in scena.
Non reggerebbe più al confronto con la Crudeltà di cui realmente la nostra umanità si è rivelata capace.
Le lamentazioni funebri di una volta non bastano più a dare un senso alla nostra temporalità. Abbiamo scoperto che la Fanciulla che credevamo di aver lasciato fuori dal nostro inferno, a custodire il senso del nostro gomitolo, ci era caduta, eccome!, e molto prima di noi Vecchi, in queste crudeli necessità di sangue che la Natura esige dai viventi.

Abbiamo scoperto tardivamente che la Fanciulla ne sapeva una più del Diavolo, che Lei era più maligna di noi.
Era venuta solo a sedurci, quaggiù – nella Casa in fondo al mare.
Il Racconto lo sa da sempre, e lo racconta di Inanna e di Enki/Ea. Ma noi solo tardivamente lo comprendiamo.
Il Vecchio pensa di ubriacare la Fanciulla col vino della sua sapienza, e invece è la Fanciulla che ubriaca lui con la potenza della sua seduzione.
La Fanciulla gli scippa così «le chiavi [del Racconto] di ogni sapienza». La furba, Lei – la maliziosa. Pensava d’aver rubato chissà che cosa, ma aveva derubato solo un racconto a un Vecchio ubriaco.

Dov’è dunque la Tragedia?
Bisogna essere «nordici», possibilmente un poco «artici», per continuare a piangere i Morti «in battaglia», a piangerli e rimpiangerli proprio quando più avrebbero bisogno di girarla in Farsa.
Dice: ma la Tragedia non l’hanno messa in scena per primi i Greci, qui, del Mediterraneo?
Certo che sì – ma sarebbe bene non trascurare il fatto che la Tragedia era solo l’antefatto, e che ci volevano ben tre tragedie, l’una di fila all’altra, per preparare lo Spettatore al Grand Guignol del dramma satiresco.
Sono i «nordici» ad essersi scordati dei Satiri.
Non sono mai sazi di lacrime.