Il pukku e il mikkû

L’origine mitica di questi due misteriosi attrezzi, il pukku e il mikkû, che ricorrono nei testi mesopotamici, risale a quando Gilgameš uccise il serpente che s’era annidato tra i rami dell’albero huluppu e ne scacciò dal tronco l’uccello Zû e la buia vergine Lilith.
Col legno di quell’albero Gilgameš, dice il Racconto, fabbricò il trono e il letto per Inanna e questa, per ricambiare il favore, dalle radici di quello stesso albero trasse un pukku e dal fogliame un mikkû – e gliene fece dono.

sciamano-tamburo-racchettaSecondo Schneider, si tratterebbe di un tamburo e di un’arpa (o lira); secondo altri di un tamburo e di una bacchetta; ma tra le tante proposte dei filologi e degli etnomusicologi, compaiono anche reti, trappole e non meglio identificati strumenti a fiato.
Qualcuno si è persino avventurato a trovare un’assonanza con quanto gli Eschimesi raccontano del morto e più volte risuscitato Aarääituaq: narrano infatti che, ogni volta che questi risuscita, si alza dalla tomba per cantare, impugnando «la sua scapola come un tamburo, e il suo perone come una bacchetta».

C’è poco da fare: più si dilatano i confini del Racconto, più ci si trova a imboccare sentieri imprevisti. Per esempio, di questa «scapola» di cui gli eschimesi fanno il tamburo di un morto-risuscitato, abbiamo già sentito parlare pure dalle nostre parti. Ora la troviamo in bocca a una Demetra «distratta» dal dolore, ora invece è in cielo nella forma di una costellazione, il Toro, e benché non sia impiegata a scopi propriamente musicali, è lo stesso usata in un rito di risurrezione. In occasione di un ritorno dall’altro mondo, o da una Casa in fondo al mare.

Siamo scivolati così, senza accorgercene, dagli strumenti sicuramente lignei della Mesopotamia antica a quelli ossei degli sciamani eschimesi, da un dono per ricambiare il favore di un esorcismo a un attrezzo magico per richiamare in vita i morti, anzi: con cui i morti fanno da se stessi la magia di risuscitare.
C’è poco da fare: alla Metafora – la Grande Madre – basta appena un suono, non più di un anello della catena significante, per portarci su e giù a spasso per il Racconto.

Quale pista conviene seguire?
E soprattutto: orientarsi è possibile?
Forse, ma guai a chiedere impazienti dov’è esattamente che ci troviamo: se in uno spartito musicale o in un semplice gioco di seduzione e di morte, dinanzi a un sepolcro scoperchiato o a una tavola imbandita per degli arcaici Cannibali!

Mithra-toroRestiamo su Gilgameš e Inanna.
Lei dice a lui: fammi il favore, tu disinfestami l’albero di huluppu, e io ti darò gli strumenti da suonare «a festa».
Inanna «sa» quant’è profondo il mare, e quanto giù all’inferno bisogna scendere (di sette o nove inferni, perlomeno), prima di trovare il dolce stilnovo: le acque dolci in fondo all’Apsû, presso il «tempio» di Eanna, dimora e santuario del dio «più umano» fra gli dèi: il buon Vecchio Enki/Ea.
Inanna conosce «i pesi e le misure» (i sacri me) delle passioni umane: le ha strappate al Vecchio, andandolo a sedurre fin «laggiù».
Inanna «sa» che quel viaggio l’ha «sporcata».
Perciò dice a Gilgameš: disinfestami per un’altra festa!

Non sappiamo, poi, come andarono le cose. È improbabile che vissero felici e contenti. Ebbero quello scambio, quella reciproca donazione: lui, da buon falegname (non si dimentichi che Gilgameš vuol dire «pezzo di legno»: se non era un Pinocchio, era quantomeno un Mastro Geppetto, uno insomma che di ceppi e pezzi di legno da sgrossare se n’intendeva) – dicevo: lui, Gilgameš, approfittò del dono ricevuto per cantare e suonare le sue imprese «melodiche», lei – Inanna – in quanto padrona e musa della chiave di quel «violino», usò il letto che Gilgameš le aveva fabbricato, per giacervi – questo lo sappiamo! – con un altro suo Sedotto (il «pastore» Dumuzi).

E poiché Dumuzi (come il nome tradisce) sta a Tammûz, Inanna – per analogia – deve stare a Ištar (la «consorte» di Tammûz).
E noi sappiamo dall’Epopea che tra Gilgameš e Ištar non corre buon sangue. Sappiamo che la dea (quella che una volta, quando si chiamava Inanna, scambiò doni con Gilgameš) ha preso una cotta per l’eroe che ha vinto e ucciso l’Orco Humbaba, ma non appena fa le sue prime avances, per tutta risposta si prende una bella «coscia di Toro» in faccia!

Proprio così: la Coscia (il perone?) dell’Orsa Maggiore, la zampa del Bue verde del Mare Orientale, nella babele del Racconto, gira e rigira, la si trova associata, quando non addirittura confusa e identificata con l’osso della scapola, con la «spalla d’oro» di Mitra – ma anche con quella «mortale» di Sigfrido.
Il Toro è dunque il perone, e Orione la spalla?
Uno il pukku, l’altro il mikkû?

Sirio-Orione-Toro

No, non ci sono risposte facili. E poi, messe così, sono proprio domande stupide.
Il Racconto racconta il tempo e i suoi ritmi, conta e racconta le sue voci cangianti. Rilutta, per principio, a ogni identificazione stabile. È inutile stargli a chiedere di spiegarsi meglio. Il Racconto non ti ascolta, è morto e risuscita – ma non più di due schegge alla volta. Una è la sua spalla (l’Omero su cui porta giù dal cielo gli Otto Semi di ogni nostra Ottava), l’altra è la sua unica gamba – quella che fa perno nella Stella Polare di tutti i codici linguistici.

Il Racconto «muore e risorge» da sempre.
È un perpetuo mulinello. Che si avvita su se stesso: un buco nero che inghiotte ogni «senso», per poi sputare nuova materia vivente.
Il Racconto, da sempre, si auto-riproduce sui suoi stessi «avanzi». Per farlo, non ha bisogno che di «due resti» per tornare in vita. Gli bastano soltanto due attrezzi, come il pukku e il mikkû mesopotamici, e poco importa se il Tempo ce li ha resi lontani, insensati e inafferrabili. Anzi, tanto meglio.
Perché, proprio così, solo così – si può raccontare la Lontananza.
Proprio così, solo così – l’Inattuale rivive.
Raccontandosi morto e sepolto a Se Stesso – cantandosi, risorge a nuova vita.