Omero – Odisseo nell’antro di Polifemo

Un grande otre pieno di vino portavo e vivande
in un cesto: subito infatti sospettò il mio cuore altero
che avremmo trovato un uomo di poderoso vigore,
selvaggio, ignaro di giustizia e di leggi.

Rapidamente all’antro arrivammo, ma dentro
non lo trovammo; menava al pascolo pingui pecore.
Entrati nell’antro, stupiti mirammo ogni cosa:
i graticci sotto il peso dei caci si piegavano, e c’erano
recinti d’agnelli e di capretti: separati per età,
v’erano rinchiusi, di qua i primi nati, di là i secondi,
e a parte ancora i lattonzoli; di siero traboccavano
tutti i boccali e i secchi e vasi per la mungitura.

Subito allora a parole i compagni mi pregarono
che, rubati i formaggi, tornassimo indietro e che in fretta
all’agile nave gli agnelli e i capretti spingendo
fuori dai chiusi, a navigare sul mare tornassimo;
ma io non volli ascoltare, sarebbe stato assai meglio,
per vederlo di persona, se mi facesse doni ospitali.
Ahimé! la sua comparsa tutt’altro che amica doveva
ai miei amici rivelarsi.

Là, acceso un fuoco, facemmo offerte e prendemmo
e mangiammo formaggi, aspettandolo lì dentro,
seduti, finché tornò dai pascoli; portava un carico greve
di legna secca, per accendere il fuoco della cena.
E dentro l’antro gettandolo, produsse rimbombo;
noi atterriti balzammo sul fondo della caverna.

Ulisse-Polifemo

Lui nell’ampia spelonca spinse le pingui pecore,
quante ne aveva da mungere, ma i maschi li lasciò fuori,
montoni, caproni, all’aperto nell’alto steccato.
Poi, sollevandolo, aggiustò un masso enorme, pesante,
che chiudeva la porta: io dico che ventidue carri
buoni, da quattro ruote, non l’avrebbero smosso da terra,
tale enorme macigno, scosceso, mise a chiudere la porta.

Poi, seduto, mungeva le pecore e le capre belanti,
ognuna per ordine, e cacciò sotto a tutte il lattonzolo.
E subito cagliò una metà del candido latte,
e, rappreso, lo mise nei canestrelli intrecciati;
metà nei boccali lo tenne, per averne da prendere
e bere, che gli facesse da cena.

Come rapidamente i suoi lavori ebbe fatto,
allora accese il fuoco e ci vide e ci disse:
«Stranieri, chi siete? e di dove navigate le vie del mare?
forse per qualche commercio, o andate errando così,
senza meta, sul mare, come predoni che vagano
giocando la vita e agli altri danno portando?».

Così disse, e a noi si spezzò il nostro cuore
dalla paura di quella voce pesante e dell’orrido mostro.
E tuttavia, anche così, gli risposi parola, gli dissi:
«Noi siamo Achei, nel tornare da Troia travolti
da tutti i venti sul grande abisso del mare;
diretti a casa, altro viaggio, altri sentieri
battemmo: così Zeus volle decidere.
Ci vantiamo guerrieri dell’Atride Agamennone,
di cui massima è ora sotto il cielo la fama,
tale città ha distrutto, e cotanti guerrieri annientato.
E ora alle tue ginocchia, supplici, veniamo,
se un dono ospitale ci dessi, o anche altrimenti
ci regalassi qualcosa: questo è norma per gli ospiti.
Rispetta, ottimo, i numi: noi siamo tuoi supplici.
È Zeus il vendicatore degli stranieri e dei supplici,
Zeus ospitale, che ospiti venerandi accompagna».

Così dicevo, e subito rispose con cuore crudele:
«Sei uno sciocco, straniero, o vieni da assai lontano,
tu che pretendi di farmi temere e onorare gli dèi.
Ma di Zeus egioco non si danno pensiero i Ciclopi
né dei numi beati, perché siamo molto più forti.
Certo non accadrà che per evitare l’ira di Zeus risparmierò
né te né i compagni, se così non vuole il mio animo.
Ma dimmi dove lasciasti la nave ben fabbricata,
se laggiù in fondo all’isola o vicino, a che io sappia».

Così disse tentandomi, ma accorto qual sono non mi sfuggì.
E rispondendogli, dissi con dolose parole:
«La nave me l’ha spezzata Poseidone scuotitore della terra,
contro gli scogli cacciandola, al limite del vostro paese;
proprio sul promontorio: il vento dal largo spingeva.
Io solo sfuggii con questi l’abisso di morte».

Polifemo-afferra-uomini

Così dicevo; nulla rispose nel suo cuore crudele,
ma con un balzo sui miei compagni le mani gettava
e afferrandone due, come cuccioli a terra
li sbatteva, scorreva fuori il cervello e bagnava la terra.
E avendoli fatti a pezzi, si preparava la cena;
li maciullava come leone montano; non lasciò indietro
né interiora né carni né ossa o midollo.
E noi piangendo a Zeus tendevamo le braccia
vedendo cose terribili: ci sentivamo impotenti.

Quando il Ciclope ebbe riempito il gran ventre,
carne umana mangiando e latte puro bevendo,
si distese nell’antro, sdraiato in mezzo alle pecore.
E io pensai nel mio cuore ardito d’avvicinarmi
e la spada puntuta dalla coscia sguainando
di piantarla nel petto, dove il fegato s’attacca al diaframma,
cercando a tastoni; ma un altro pensiero mi trattenne.
Infatti, noi là dentro di morte terribile saremmo morti:
non potevamo certo dall’alta apertura a forza di braccia
spostare l’enorme macigno che vi aveva addossato.
Così allora gemendo aspettammo l’Aurora lucente.

Come, figlia di luce, brillò l’Aurora dita rosate,
accese il fuoco di nuovo e munse le pecore belle,
tutte per ordine, e cacciò sotto a tutte il lattonzolo.
Poi, quando rapidamente i suoi lavori ebbe fatto,
afferrando altri due uomini, si preparò il pasto.
Mangiato, spinse fuori dall’antro le pecore pingui,
senza fatica togliendo l’enorme macigno: ma subito
ve lo rimise, come se alla faretra rimettesse il coperchio,
e con un lungo fischio al monte volse le pecore pingui
il Ciclope; e io rimasi a meditar vendetta in cuore,
se avessi potuto punirlo, m’avesse dato Atena quel vanto.

E questo nell’animo mi parve il piano migliore:
c’era un grande vincastro del mostro, presso un recinto,
un tronco verde d’olivo: doveva averlo tagliato
per portarlo poi secco; lo giudicammo, a vederlo,
grande come l’albero di nera nave, da venti banchi,
di nave larga, da carico, che solca l’abisso infinito,
tanto era lungo, tanto era grosso a vederlo.
Io mi avvicinai e ne tagliai quanto due braccia,
e lo diedi ai compagni, e comandai di sgrossarlo.
Essi lo resero liscio; poi io mi misi ad aguzzarlo
in punta, quindi lo presi, lo feci indurire alla fiamma,
e lo nascosi bene, coprendolo sotto il letame,
che per la grotta in grande abbondanza era sparso.
Poi volli che gli altri tirassero a sorte,
chi avrebbe osato con me, sollevando quel palo,
girarlo nell’occhio, quando l’avesse preso il sonno soave.
Estrassero a sorte quelli che appunto avrei scelti,
quattro: e quinto con loro io mi contai.

A sera tornò, le pecore bei velli pascendo,
e subito nel vasto antro spinse le pecore pingui,
tutte: non ne lasciava all’aperto nell’ampio cortile
o per qualche suo piano, o forse un dio così volle.
Dunque, dopo che, sollevandolo, aggiustò il macigno,
seduto mungeva le pecore e le capre belanti,
tutte per ordine, e cacciò sotto a tutte il lattonzolo.
Come rapidamente i suoi lavori ebbe fatto,
ancora afferrando due uomini, preparò il pasto.

Polifemo-accetta-vino

Allora io al Ciclope parlai, avvicinandomi
con in mano un boccale del mio nero vino:
«Ciclope, to’, bevi il vino, dopo che carne umana hai mangiato,
perché tu senta che vino è questo che la mia nave portava.
Per te l’avevo recato come un’offerta, se avendo pietà,
m’avessi lasciato partire; invece tu fai crudeltà intollerabili,
pazzo! Come in futuro potrà venir qualche altro
a trovarti degli uomini? Tu non agisci come si deve».

Così dicevo; e lui prese e bevve; gli piacque terribilmente
bere la dolce bevanda; e ne chiedeva di nuovo:
«Dammene ancora, sii buono, e poi dimmi il tuo nome,
subito adesso, perché ti faccia un dono ospitale e tu ti rallegri.
Anche ai Ciclopi la terra dono di biade produce
vino nei grappoli, e a loro la pioggia di Zeus li gonfia.
Ma questo è un d’ambrosia e di nettare!»

Così diceva: e di nuovo gli porsi vino lucente;
tre volte gliene porsi, tre volte bevve, da pazzo.
Ma quando al Ciclope intorno al cuore il vino fu sceso,
allora io gli parlai con parole di miele:
«Ciclope, domandi il mio nome glorioso? Ma certo,
lo dirò; e tu dammi il dono ospitale come hai promesso.
Nessuno ho nome: Nessuno mi chiamano
madre e padre e tutti quanti i compagni».

Così dicevo, e subito lui con cuore crudele mi rispondeva:
«Nessuno, lo mangerò per ultimo, dopo i compagni;
gli altri prima; questo sarà il dono ospitale».
Disse e s’arrovesciò cadendo supino, e di colpo
giacque, piegando di lato il grosso collo: lo vinse
il sonno che tutto doma; vomitava ubriaco.

Allora il palo cacciai sotto la molta brace,
finché fu rovente; e con parole a tutti i compagni
facevo coraggio, perché nessuno, atterrito, si ritraesse.
Quando il palo d’ulivo nel fuoco già stava
per infiammarsi, benché fosse verde, splendeva terribilmente,
allora in fretta lo toglievo dal fuoco, e intorno i compagni
mi stavano; certo un dio c’ispirò tanto coraggio.
Essi, alzando il palo puntuto d’olivo,
nell’occhio lo spinsero: e io premendo di sopra
giravo, come un uomo col trapano un asse navale
trapana; altri sotto con la cinghia lo girano,
tenendola di qua e di là: il trapano corre costante,
così ficcato nell’occhio del mostro il tizzone infuocato,
lo giravamo; il sangue scorreva intorno all’ardente tizzone;
arse tutta la palpebra in giro e le ciglia, la vampa
della pupilla infuocata; nel fuoco le radici friggevano.

Come un fabbro una gran scure o un’ascia
nell’acqua fredda immerge, con sibilo acuto,
temprandola: e questa è appunto la forza del ferro;
così strideva l’occhio del mostro intorno al palo d’ulivo.
Paurosamente gemette, n’urlò tutta intorno la roccia;
atterriti balzammo indietro: quello il tizzone
strappò dall’occhio, grondante di sangue,
e lo scagliò lontano da sé, agitando le braccia,
e i Ciclopi chiamava gridando, che in giro
vivevano nelle spelonche e sulle cime ventose.
E udendo il grido quelli correvano in folla, chi di qua, chi di là;
e stando intorno alla grotta chiedevano che cosa volesse:
«Perché, Polifemo, con tanto strazio hai gridato
nella notte ambrosia, e ci hai fatto svegliare?
forse qualche mortale ti ruba, tuo malgrado, le pecore?
o t’ammazza qualcuno con la forza o d’inganno?».

Odisseo-acceca-Polifemo-vaso

E dall’antro a loro Polifemo gagliardo rispose:
«Nessuno, amici, m’uccide d’inganno e non con la forza».
E quelli in risposta parole fugaci dicevano:
«Se dunque nessuno ti fa violenza e sei solo,
dal male che manda il gran Zeus non c’è scampo;
piuttosto prega il padre tuo, Poseidone sovrano».

Così dicevano andandosene. E il mio cuore rideva,
come l’aveva ingannato il nome e la bella trovata.
Il Ciclope piangendo, straziato da strazio feroce,
a tentoni levò dalla porta il gran masso,
e stava lui stesso a seder sulla porta, a braccia distese,
se tra le pecore potesse afferrare qualcuno che uscisse:
così sperava che nel mio cuore fossi bamboccio.

Io intanto pensavo come cavarmela nel miglior modo,
se ai compagni e a me stesso qualche scampo da morte
potevo trovare; ogni sorta d’inganni e di piani tessevo,
perché era in gioco la vita, grande sovrastava il malanno.
E questo nell’animo mi parve il mezzo migliore:
c’erano dei montoni ben grassi, dal velo foltissimo,
belli e grandi, e avevano lana colore di viola;
questi in silenzio legavo insieme coi vimini torti
su cui il Ciclope dormiva, il mostro assassino,
a tre a tre; e quello di mezzo portava un uomo,
e i due di fianco, avanzando, il compagno salvavano.
Così tre montoni ciascun uomo portavano; io poi –
c’era un ariete, di tutto il gregge il più bello –
per le reni afferrandolo, stesso sotto la pancia lanuta
stetti; e con le mani la lana meravigliosa torcendo
stretta, mi tenni avvinto con cuore paziente.
Così allora, gemendo, aspettavamo l’Aurora lucente.

Come, figlia di luce, brillò l’Aurora dita rosate,
allora balzarono al pascolo i maschi del gregge;
le femmine belavano intorno ai chiusi non munte,
le poppe eran gonfie, ma in preda a tormenti feroci,
il padrone tastava la schiena di tutte le bestie,
che eran già ritte; non sospettò lo stolto che gli uomini
eran legati sotto le pance delle bestie lanose.

Odisseo-sotto-montone

Ultimo il maschio del gregge mosse verso la porta,
pesante della sua lana e di me, il molto accorto;
e gli diceva tastandolo Polifemo gagliardo:
«Caro montone, perché così m’esci dall’antro
per ultimo? di solito tu non vai dietro alle pecore,
ma primissimo pasci i teneri fiori dell’erba,
a gran balzi, per primo raggiungi le correnti dei fiumi,
per primo alla stalla vuoi tornare impaziente
a sera; e adesso sei l’ultimo. Forse del tuo padrone
piangi l’occhio, che un malvagio accecò
coi suoi tristi compagni, vinta la mia mente col vino,
Nessuno, il quale non credo che scamperà alla morte.
Oh! se avessi intelletto, se diventassi parlante,
da dirmi dove colui si ripara dalla mia furia:
allora il suo cervello schizzerebbe qua e là per l’antro,
in terra, dalla testa spaccata; sollievo il mio cuore
avrebbe dalle torture, che questo Nessuno m’ha inflitto».

Così dicendo l’ariete lontano da sé spinse fuori;
e appena fummo un poco lontani dal cortile e dall’antro,
per primo io dall’ariete mi sciolsi; poi sciolsi i compagni;
e rapidamente le pecore zampe sottili, fiorenti di grasso,
correndo intorno spingevamo in gran numero, finché alla nave
giungemmo; con gioia fummo rivisti dai cari compagni
noi scampati alla morte, ma singhiozzando piangevano gli altri.
Io però non lasciai, con gli occhi accennando a ciascuno,
che piangessero; ma presto la gregge bellissima lana
feci gettar sulla nave, e riprendere il mare salato.
Subito quelli salivano e sui banchi sedevano,
e in fila seduti battevano il mare schiumoso coi remi.

Ma come tanto fummo lontani, quanto s’arriva col grido,
allora al Ciclope gridai parole di scherno:
«Ciclope, non d’un imbelle sbranavi i compagni
nella caverna profonda con la tua forza violenta;
ma su di te doveva tornare il delitto,
pazzo, ché gli ospiti osasti mangiare nella tua casa;
così t’ha punito Zeus e gli altri dèi».

Polifemo-sasso-Ulisse

Così dicevo; e colui s’arrovellò più ancora nel cuore;
strappò la cima d’un monte enorme e la scagliò,
la fece cadere davanti alla nave prua azzurra,
di poco, sfiorò quasi il timone.
Si gonfiò il mare al piombar della roccia;
la nave indietro, alla spiaggia, respinse il riflusso,
il trasbordare del mare, le fece ritoccare terra.
Ma io, con le mani afferrando un lunghissimo palo,
la spinsi di fianco: e incitando i compagni ordinai
di gettarsi sui remi per fuggire il malanno,
facendo segni col capo; essi con tutte le forze remavano.

Ma quando due volte tanto di mare avevamo percorso,
ancora al Ciclope parlai: intorno i compagni
con parole di miele mi trattenevano, di qua e di là:
«Sciagurato, perché vuoi provocare l’uomo selvaggio?
proprio ora scagliando un bolide in mare, ha ricacciato la nave
a terra, e credevamo ormai di morire.
Se ancora ti sente parlare o gridare,
fracasserà le nostre teste e la nave,
con qualche scheggiose di roccia; tanto tira lontano!».

Così dicevano, ma non persuasero il mio animo audace,
e gli parlai di nuovo con animo irato:
«Ciclope, se mai qualcuno dei mortali ti chiede
il perché dell’orrenda cecità del tuo occhio,
rispondi che il distruttore di rocche Odisseo t’ha accecato,
il figlio di Laerte, che in Itaca ha casa».

(Omero, Odissea, 9: 212-505)