È morto verso la metà di novembre.
Questo è tutto quanto di Lui (?) concretamente (?) sappiamo (?).
Tutto il resto (chiamiamolo così) – tutto il «corpo» della cosmogonia dogon rimarrà per noi un mistero. Non è un caso se lo stesso Griaule lo percepisce come un labirinto in cui si aprono sempre nuove porte, nessuna delle quali sembra portarlo da qualche parte, che so?, in un posto qualsiasi da cui potersi orientare – presso un’immagine o un simbolo che gli sia già familiare.
Non è per niente facile sbrogliare questa matassa.
Ma sai com’è, certe volte a imbrogliarla ancora di più succede che un nodo, sì d’accordo: appena un nodo, un nodo soltanto, improvvisamente si scioglie – e tu non sai dire com’è successo, non sai rifare a ritroso la via che ti ha portato allo scioglimento del rebus, perché ecco che nuovi sentieri vengono allo scoperto, e nuovi interrogativi ti assalgono o ti incuriosiscono, e tra quel che temi di non sapere e la curiosità di saperlo ti sfugge, chissà come mai, che c’è una bella differenza. Bella, si fa per dire.
E allora ti accorgi che quello che stai provando a «sceneggiare» è solo la tua labirintite, mio novello Teseo. Allora non ti resta che aggrapparti a un filo e sperare che, dall’altro capo, ci sia un’Arianna a stringerlo saldamente nelle sue mani.
Nel dubbio, intanto, è bene avere una stella, sia pure una cometa di passaggio, come luce di riferimento.
Non possiamo pretendere da un vecchio dogon, e per giunta cieco, che abbia una Musa dinanzi agli occhi, non dico l’icona di una Beatrice, ma quantomeno un’immagine femminile che non sia vagamente la Terra. Forse la cultura a cui appartiene è troppo «patriarcale» e troppo «patrilineare», per consentirgli che sia la Donna, o una sua umana controfigura, a guidarlo nei meandri di cotanta Metafisica.
Perciò, in tutta la sua «paternale» teoretica, il solo riferimento (concreto?) che può dare a Griaule – e di cui però Griaule non fa tesoro, anzi pensa che il vecchio stia dicendo solo una battuta – il solo indizio che gli dà, è tutto in quella data (e nella sua stella): verso la metà del mese di novembre, quando tramonta Rigel, il «piede», e Orione si azzoppa.
Non è Arianna, è piuttosto qualcosa come l’impronta della Zampa del diavolo, eppure sarà bene non perderla di vista, mentre ci lasciamo andare al nostro gioco di specchi.
Se vuoi seguirci, va bene, però non ti scordare di quella Data e, ogniqualvolta ti diverremo astrusi – tu torna a rinfacciarci che Lui (?) è morto – morto e sepolto – ma non in un giorno qualunque, bensì alla metà, più o meno, del mese di novembre, il giorno in cui è tramontata la sua Stella.
Perché, quale che sia il miraggio in cui noi ci perderemo, tu intanto possa prendere e mettere da parte questa notiziola: che pure Osiride, lo dice Plutarco, è morto (vedi un po’ che coincidenza!) «il giorno 17 del mese di Athyr, quando il Sole attraversa lo Scorpione», ossia il 13 del nostro mese di novembre!
Ora il gioco a cui vogliamo giocare, è questo: invece di Griaule o, meglio, attraverso Griaule – vogliamo giocare a immaginare che sia Lacan a «intervistare» Ogotemmeli. Vogliamo metterci così in coda a un Passaparola, e da qui fare eco a più di una voce, a più di un racconto. Vogliamo insomma poter fare le nostre domande a Ogotemmeli attraverso Lacan che attraversa Griaule. Perché, solo «attraversando» più voci, forse ci è possibile dire il «nostro» a proposito di quel certo «misfatto» che attraversa da cima a fondo, come sua colonna vertebrale, la Struttura della Terza Parola.
Ogotemmeli ha lasciato detto che questa Terza Parola, noi la parliamo da quella «terrificante» notte della metà di novembre. Dalla notte di san Martino, dalla notte in cui si sturano le botti di vino e ci si ubriaca al punto da confondere il prima col dopo. Ecco perché «a san Martino – come dice la canzone (Un accordo in fa) – vai a fare il priore».
Capisci? – il priore, quello che (di due) si arroga la precedenza!
Quello che viene prima del suo turno. Quello che si appropria indebitamente di una primogenitura, quello che, a detta di Ogotemmeli, si fa Maestro di una Parola prima ancora che essa sia parlata, di una Parola che non è ancora, non del tutto, venuta al mondo.
Ne erano venuti «buoni» sei/ottavi (tre/quarti). L’ultimo quarto «si guastò» verso la metà di novembre, quando lo Scorpione pinzò al tallone Orione, e fu la fine dell’Età dell’Oro.
Il mantello [della volta celeste] la notte di san Martino fu «diviso in due». Era, quel mantello, per tre/quarti in perfetto stato: chi l’indossava non pativa né il freddo né la fame, ignorava l’esistenza di qualunque inverno.
Sì, finché al mondo [della Parola] non venne quell’ultimo «quarto» corrotto, quel capriccioso, anzi no, quel diabolico quarto di luna storta, i conti – fino ad allora – quadravano: il Sole illuminava, il Sole scaldava le parole dei nostri Antenati. Non c’era ancora il freddo, non c’era ancora la menzogna, non c’era ancora l’equivoco, ovvero il propriamente umano, nel nostro balbettio infantile.
Fu così fino a quella maledetta notte di metà novembre.
È stato allora – di brutto Lacan ha chiesto al cieco Ogotemmeli – è stato allora, dimmi, che l’Inconscio è divenuto il Signore della nostra Parola?
Ogotemmeli lo guarda, non capisce.
Lacan insiste.
Finché a parlare la Parola eravamo in due o, al massimo, in tre (quando per es. con noi due, Francesca e Paolo, facevamo parlare pure il «morto», pure il Libro galeotto) – fino ad allora non c’era, non così prepotente almeno, un Gianciotto a farsi avanti, un Maligno a congiurare alle spalle di Osiride. Non c’era ancora la congiura di una Moltitudine a «giurare assieme» una stessa alleanza contro il nostro Desiderio.
Finché Narciso «giocava a due», lui e la sua immagine, non è che le cose andassero alla perfezione, magari c’era già lì del tragico, del traumatico – ma altra fu la Tragedia. Là è con la Natura, è col suo Corpo che Narciso dovette misurare la perdita della propria androginia. Là c’è l’istinto arcaico, la necessità del Soggetto a infliggersi una mutilazione per «essere» solo la metà del Mondo (solo il maschio o solo la femmina dell’Ermafrodito che immagina d’essere).
Ma non c’è ancora Inconscio.
Lacan incalza, Lacan insiste a domandare: dimmi, è la sua testa, la Testa del Serpente, il caput mortuum della Metafora Umana? è sua la Testa Mozzata di mille racconti? la testa del Morto che parla, dell’Inattuale che viene a esigere il pagamento di un certo antico debito – ogni volta che apriamo la bocca per un atto verbale?
Nel primo narcisismo, c’è all’opera sì la Metafora, ma è ancora ammutolita dai suoi stessi giochi di prestigio, e soprattutto dalle sue «crudeltà». Alla Parola di Narciso, alla Parola non (ancora) Simbolica, alla Parola non ancora messa a verbale, alla Parola infantile, alla Parola Immaginaria non è stato ancora inoculato il veleno del Serpente.
Questo insisto a dire io, spacciandomi per Lacan.
Ogotemmeli ascolta e mi sorride. Sta pensando: questo stupido non ha capito granché.

Tanto per cominciare, non ha capito ancora le dimensioni del disastro che fu l’avvento della Volgare Eloquenza, della Chiacchiera di città, dell’Inciucio della Molta Gente – allorché fu ammassata sotto un’Unica Sintassi. O, come gli ho già detto, in un unico Granaio.
Fu la fine di ogni altro esperimento antropologico. Furono stanate, a una a una, le eccezioni alla Regola imperante nella caverna. Tastate, una per una, tutte le Pecore del Gregge, prima di aver diritto a pascolare all’aperto, sulla pubblica piazza, coram populo.
Solo una su cento, solo la notte di san Martino, così dice la Sceneggiata del Racconto, solo una pecorella che s’era smarrita, sfugge al palpeggio di Polifemo. All’ispezione di questo poliglotta ciclopico che divora gli uomini, e soprattutto monaci, frati e santi.
Che dici? non sarà che, quanto più lo santifichi, quanto più vin santo gli dai da bere, tanto più famelico lo rendi?
È nella fucina, nella Caverna nascosta nelle viscere dell’Etna, è là che è tenuto acceso il fuoco incandescente con cui il Fabbro, ma anche chiunque voglia accecarlo, arrovella i suoi «oggetti simbolici». È nella Fucina, l’hai detto tu, Ogotemmeli, è là che tuttora il Serpente si annida.
Ogni parola che dici – ogni fabula che fabbrichi, mio vecchio Vulcano – una ragione c’è se ti hanno cacciato dal cielo e se, nella caduta da lassù, hai finito per azzopparti.
Hai fabbricato la Rete con cui tendere l’imboscata all’Immaginario di tutti i bambini. A tutti i loro desideri, in anticipo, hai teso la trappola costruita coi tuoi ferri del mestiere.
Hai detto: su, entrate, qui c’è tanto da mangiare!
E con l’aiuto di Prometeo, hai gettato fumo negli occhi dei loro vecchi dèi, per dare licenza ai cannibali di mangiare la carne. E ora guarda: quanto più santo è il loro cannibalismo, tanto più hanno bisogno di arrendersi al funambolismo dell’Es che, invisibile, salta da un orapronobis all’altro del loro rosario.
È il Discorso, è la Parola Simbolica, è la Parola che il maglio della tua Legge, Fabbro, batte sulla nostra incudine, è Essa a fare, a dettare, e a imporre Inconscio.
L’hai detto tu stesso, mio caro Ogotemmeli, che questi Antenati dell’ultima generazione semidivina erano Tecnici, capomastri ingegnosi, a cui dobbiamo la nostra sopravvivenza alla Fame.
L’hai detto tu che, per sfamarci, rubarono un segreto agli dèi.
Hai detto che l’Ultimo degli Otto doveva accontentarsi del seme più misero degli Otto. Ma che ci fu un tempo di carestia, un tempo di fame, in cui quel seme servì.
A cosa servì, è presto detto. Come il piatto di lenticchie di Giacobbe, servì a rubare una priorità. Il Segno, il Simbolo, l’ultimo «codice» linguistico, si fece avanti prima del suo turno. Fu per fame che Esaù gli cedette la primogenitura del suo linguaggio immaginario.
La cedette al fratello cadetto, a quello che doveva diventare il Capopopolo, il Signore di una Gente che avrebbe preso il suo Nome. A Lui, perché affamato, Esaù giurò obbedienza: giurò che avrebbe rispettato la parola data, anche se data a un imbroglione.
Quella fu la Data, che a Esaù doveva infettare l’Immaginazione. La notte sciagurata, la notte di san Martino. Muore Osiride, e il suo posto l’usurpa Set/Tifone. Quella notte Polifemo «spaventa» i bambini, tira a sorte per decidere chi mangiare per primo. Non mostra la minima pietà. Lo spiedo è caldo. Avanti un altro bocconcino!
Ogni bambino da quella notte in cui comincia a parlare i Segni della Terza Parola – della Parola Volgare, deve fare i conti con Lui, Mangiafoco, il Tiranno della Chiacchiera, il SI, il Priore di tutti i «si dice» di tutte le lingue al mondo.
Doveva essere l’Ottavo, prese il posto del Settimo.
Doveva essere Esaù, e invece fu Giacobbe a prendersi la «benedizione» paterna.
Fu Ahriman ad anticipare Ohrmazd alla nascita.
Echi d’uno stesso Racconto Antico.
Risalgono dal fondo della Chiacchiera: non sanno più quello che dicono, lo ripetono a pappagallo. Ma come non vedere che le «lenticchie» di Giacobbe devono appartenere, come la Digitaria dogon, a una lista di semi, diciamo così, «di scarto», di semi buoni soltanto in tempi di carestia?
Semi, diciamo, che ti rassegni a mangiare, solo quando non c’è più nient’altro da mettere sotto i denti.
Così, quando non ci capisci niente di un rompicapo come quello dogon – solo uno straccetto di notizia, solo quella Data sciagurata, deve bastare a sfamare tutta la nostra curiosità.
Non sappiamo Lui chi fu, né cosa esattamente fece.
Sappiamo che fece uno Scempio verso la metà di novembre.
Se fu un diavolo a farlo, se era lo stesso diavolo che già imperava nell’occhio di Narciso, ebbene quel diavolo non si è accontentato di accecarlo a Se Stesso. Quel diavolo, se era lo stesso, è ritornato, ma può essere che sia un altro diavolo più diabolico del precedente, questo Priore che, con la Terza Parola, con la Parola della Moltitudine, con la Parola babelica, è venuto a prendersi anche la bocca di Narciso. È venuto ad avvelenare l’acqua dei suoi pozzi simbolici. È venuto a pretendere la sua Impersonale Priorità, pardon: la sua Sacrosanta Benedetta Inviolabile (usurpazione di) Primogenitura.
Se il diavolo venne, travestito da gatto, la prima volta – se venne quella volta ad abbagliare l’occhio di Narciso – il diavolo torna la seconda volta travestito da volpe. Torna con la menzogna: ce la fa entrare dall’orecchio attraverso un vago spiffero di vento, perché di lì attraverso le vene ci scenda poi nel cuore, perché s’innervi nel nostro midollo, e finalmente sbocchi nella Bugia di Giacobbe.
Il Gatto, Isacco, è cieco, e la Volpe, Giacobbe, se non è zoppa, fra poco lo sarà. Vuoi scommettere?
Vedi tu se i conti della Sceneggiata non tornano.
Malocchio e maledizione si tramandano nel nostro Passaparola. Si cumulano, si copulano e si coprono a vicenda. Non è un caso se è così, ossia passando per (i miti di) Orazio Coclite e Muzio Scevola, che si fonda un Impero Vorace come quello di Roma nella Storia della Specie Umana.
Passiamo tutti per la grotta di Polifemo.
Dalla fine dell’Età dell’Oro, dal tramonto della Parola Infantile – da allora tutti noi, da bambini, passiamo per la caverna.
Passiamo per quel Trauma che il mito (che ancora persiste in Platone, sia pure acconciato alla sua filosofia) ambienta nella Cava Dimora di un Vorace.
E perciò tutti i Narratori degni di questo nome si rinviano l’un l’altro la stessa domanda: come si esce di qua?
Si esce alla luce della Verità della Polis, come ingenuamente ci raccomanda Platone? O si esce, come suggerisce Omero, solo se si è abbastanza agili di mente da mentire a Polifemo? O ancora, come suggerisce qualche altro Poeta, semplicemente facendo il solletico al Vorace, agitandoci su e giù per le viscere della sua Pancia?
Ulisse mente, Ulisse si nasconde sotto la pancia delle pecore.
Fratino si copre della pelle di un montone che ha ucciso. Si finge pecora anche lui, e passa inosservato.
Scusa, ma non è lo stesso trucco con cui Giacobbe carpisce la benedizione al padre Isacco?