Ovidio – Quando il sole si fissò su Leucotoe

La dea di Citera [Venere], memore della delazione, volle vendicarsi dello spione [il Sole] che aveva rovinato i suoi amori e lo ripagò con la stessa moneta: lo fece innamorare!
O figlio di Iperione, a che ti giovano ora la tua bellezza, il tuo colore, i tuoi raggi di luce? ecco: tu che ogni terra bruci col tuo fuoco, ora tu stesso bruci d’un fuoco nuovo, e tu che ogni cosa dovresti vedere, non hai occhi che per la fanciulla Leucotoe e solo a lei riservi lo sguardo che dovresti al mondo intero.

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Boizot – Apollo e Leucotoe

Ora sorgi più temperato nel cielo orientale, ora cali più tardi nel mare, e indugiando a fissarla rendi più lunghe le sere invernali; a volte scompari, e la tua debolezza di mente si manifesta nella tua luce, e oscurandoti atterrisci il cuore ai mortali.
Se pallido sei non è per il riflesso dell’immagine della luna che ti sta di fronte quando più vicina è alla terra: è questo amore a tingerti di questo colore. Ami lei sola, e lasci perdere le altre: Climene, Rodo e la bellissima da cui ti nacque Circe di Aia, nonché Clizia che, sebbene rifiutata, sempre incalzava in cerca dei tuoi abbracci e che proprio in quel tempo pativa le pene d’amore.

Tutte te le fece scordare Leucotoe, che la bellissima Eurinome generò nel Paese dei profumi. Ma poi che la figlia crebbe, di quanto la madre aveva superato tutte le altre, di tanto la figlia superò la madre in bellezza. Orcamo, il padre, che regnava sulle città degli Achemenidi, era il settimo discendente della stirpe dell’antico Belo.

I cavalli del Sole pascolano a Occidente e hanno per biada l’ambrosia, e così nutrono le membra stanche del lavoro di giornata e si ristorano per nuove fatiche. Ora, mentre i cavalli brucavano colà la divina pastura e la notte in loro vece subentrava, il dio assunte le sembianze di sua madre Eurinome, entrò nella camera dell’Amata e vide Leucotoe che tra dodici ancelle era intenta alla fioca luce d’un lume a far girare il fuso e a trarne fili sottili.
La baciò allora, come fa una madre con la cara figlia, e disse: «Si tratta d’un segreto. Ancelle, uscite e non togliete a una madre il diritto di parlare a quattr’occhi!».

Quelle ubbidirono, e quando nella camera non restò testimone, disse: «Sono io che alla lunghezza dell’anno do le misure, e tutto vedo, ed è grazie a me che la terra ogni cosa vede, io sono l’occhio del mondo: credimi, mi piaci!».
Lei ebbe paura, e per lo spavento le caddero di mano la conocchia e il fuso. Ma finanche il timore le donava, né più a lungo indugiando lui riprese il suo vero aspetto e il consueto splendore. E la vergine, benché atterrita a quella vista inaspettata, vinta dal fulgore del dio subì violenza senza lamentarsi.

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Evelyn de Morgan – Clizia

Ne ebbe invidia Clizia (ché smodato era stato l’amore del Sole per Leucotoe) e in un accesso di rabbia raccontò a tutti dell’adulterio, e andò a riferirlo al padre della svergognata.
Costui, furibondo e spietato, sebbene Leucotoe lo pregasse e tendendo le mani alla luce del Sole gli dicesse: «Fu lui a prendermi con la forza, io non volevo», crudele la seppellì in una fossa profonda e sopra vi gettò un pesante mucchio di terra.

Il figlio di Iperione lo filtrò coi raggi e ti aprì una via da cui risuscitare il volto sotterrato; ma tu, fanciulla, più non potevi sollevare il capo schiacciato sotto il peso della terra, e giacevi ormai corpo senza vita.
Si dice che l’auriga dei cavalli alati non abbia visto niente di più straziante, dopo l’incenerimento di Fetonte. È vero, tentò se gli riusciva col potere dei suoi raggi di ridare alle tue gelide membra il calore della vita, ma poiché il fato si oppose ai suoi sforzi, ti cosparse di nettare odoroso il corpo e il luogo della sepoltura, e dopo molti lamenti disse: «Arriverai lo stesso a toccare il cielo».
Il corpo, imbevuto del nettare celeste, improvvisamente si sciolse e inumidì la terra del suo odore, e a poco a poco ne spuntò un arbusto d’incenso, che messe le radici tra le zolle, arrivò a rompere il tetto del tumulo.

Quanto a Clizia, sebbene l’amore potesse scusare la gelosia, e la gelosia la delazione, il Signore della luce non andò più a trovarla né più volle avere con lei rapporti d’amore.
Da allora la ninfa, che aveva spinto alla follia i suoi sentimenti d’amore, cominciò a deperire, incapace di rassegnarsi, e notte e giorno rimase sotto il cielo sulla nuda terra, coi capelli spogli e spettinati. Per nove giorni, senza toccare acqua né cibo, digiuna si nutrì solo di rugiada e di lacrime, e mai si staccò da terra: non faceva che fissare il volto del dio mentre passava, volgendo i suoi occhi sempre su di lui.

Le sue membra, si racconta, si attaccarono al suolo, e in parte un livido pallore le colorò tramutate in erba esangue, in parte presero un colore rossastro, e un fiore violaceo ne coprì il viso.
Benché trattenuta dalla radice, lei si volge al suo Sole, e anche così trasformata gli serba amore.

(Ovidio, Metamorfosi, 4: 190-270)