Santillana – Lamentazioni funebri e riti del grano

Nei reperti di Leopold Schmidt su «Pelope e la Strega del Nocciolo» (1951) – una raccolta di leggende provenienti dalle valli sudtirolesi – si racconta, tra l’altro, che un garzone di fattoria assiste per caso alla cena di un gruppo di streghe che fanno a lesso e divorano una servetta loro collega. Le streghe scagliano contro il giovanotto una costola e quando, terminato il pasto, ricompongono e risuscitano la ragazza, la costola mancante viene sostituita con un ramo di nocciolo. Nell’attimo in cui il garzone racconta al padrone che la fantesca è una strega del nocciolo, questa muore.

Non si tratta, però, di stregoneria: abbiamo semplicemente un ricordo e una ripresa dell’arcaica storia di Pelope, figlio del titano Tantalo, che fu lessato e servito dal malvagio genitore alla mensa degli dèi.
Costoro, si dice, ebbero in sospetto la pietanza e se ne astennero tutti, eccetto Demetra che, assorta nel suo dolore per la morte di Persefone, distrattamente mangiò una scapola credendola carne di montone. Gli dèi riportarono in vita il piccolo e la scapola mancante venne sostituita da una d’avorio.

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In seguito, Pelope divenne un famoso eroe (da lui prese nome il Peloponneso) e vinse ad Olimpia la corsa dei carri contro Enomao, inaugurando così i giochi olimpici. Sulle metope del tempio di Zeus a Olimpia vediamo i due contendenti prima della corsa: Enomao impettito, Pelope rilassato e, sopra di loro, la grande figura di Zeus con le braccia aperte, come a consacrazione dell’evento.
Ma Olimpia divenne sacra perché era il sito ove Zeus aveva sconfitto il padre Kronos, sbalzandolo dal cocchio regale. Presso Olimpia si può ammirare il monte Ctonio, che ancor oggi porta l’impronta del posteriore divino. I personaggi principali escono di scena. Solo i Giochi Olimpici rimasero un evento «internazionale» che si svolgeva ogni quattro anni e che divenne per i Greci il modo di contare il tempo.

Ma cosa c’entra tutto questo con una fata-servetta tra i monti dell’Austria migliaia di anni dopo?
A prima vista, nulla.
Eppure, se si scavasse più a fondo nella storia di questa scapola, ne verrebbe fuori materiale per una ricca scheda.
Non ci sono solo il μόσχου ώμος χρύσειος, la «spalla d’oro del bue», che è tra le mani di Mitra (l’egizio Maskheti, la Coscia del Toro, Ursa Maior) e Humeri (antico nome latino per Orione, come apprendiamo da Varrone). Anche Amma, dio supremo dei dogon del Sudan occidentale (il pesce Clarias senegalensis, un avatar del «moniteur» Faro, il cui emblema è identico a quello del Pan egizio, l’itifallico Min) porta sugli humeri gli «otto grani» primordiali, le otto specie di grano (tra cui sono stereotipicamente compresi anche i fagioli) che hanno funzioni cosmogoniche dai dogon alla Cina. Dalla Grecia moderna viene poi la storia del «Figlio della scapola», un altro «bambino forte» che, dopo una serie di avventure nella terra degli spiriti, riduce sua madre in polenta macinandola in un macinino. In che modo questa e altre tradizioni siano collegate con l’oracolo della scapola non si può ancora stabilire.

La tradizione perdura tenacemente, sopravvive anche a lunghe ere di conoscenza sommersa. Ormai, se non altro, siamo decisamente lontani dai riti della fertilità di Frazer e altri, così pronti a spiegare ogni cosa.
Ed è una conquista importante.

Canopo-Poppa

Ritorniamo comunque al testo di Plutarco [sulla morte di Pan]: lo stile conversevole del dialogo dà l’impressione di una certa disinvolta indifferenza, ma in queste cose Plutarco ne sa generalmente assai più di quanto non voglia dare a conoscere.
C’è qui dunque un pilota, un κυβερνήτης, che dà un annuncio dalla poppa (πρύμνα) della sua nave: questi particolari non sembrano affatto di poco conto. Perché in mitologia vi sono una poppa e un pilota su cui non si può sorvolare.

La poppa è quella della costellazione Argo, nave che consiste in una poppa e praticamente nient’altro. In essa si ravvisa la Nave dei Morti con a bordo Osiride (suo στρατηγός, secondo il plutarcheo De Iside et Osiride, 359).
La stella Pilota a poppa non è altri che Canopo, sede del dio babilonese Ea (il sumerico Enki), in sumerico mulNUNki. Enki è il padre di Tammûz, il che potrebbe riportarci sulla pista.

Ma la cosa che più colpisce è il fatto che in Mesopotamia Canopo abbia il nome di «Stella-giogo del mare» (la «Stella-giogo del cielo» è il Drago).
Abbiamo dunque un fatto di morte, un pilota e un portatore di giogo riuniti in un complesso insospettato ma suggestivo. Quando si ha a che fare con specialisti del mito arcaico del calibro di Platone e di Plutarco, non si pouò certo non ricordare il «re egizio Thamus» (Fedro, 274c-275b), che a Thot-Ermes, tutto fiero di aver appena inventato la scrittura, dichiara senza mezzi termini che la nuova arte è acquisto assai discutibile.
Doveva essere davvero un «re» assai potente quello che osò criticare i meriti di Mercurio; d’altra parte, tutti i termini del mito, anche quelli geografici, non sono da prendere al loro valore nominale, meno di tutti l’«Egitto», sinonimo dell’ambiguo Nilo.

Per scoprire qualche altra cosa sulla sostanza del messaggio, dobbiamo tornare indietro di molti secoli, a un testo di data indeterminata ma indubbiamente antico. Si tratta della cosiddetta Agricoltura nabatea, che ha poco a che fare con i lavori dei campi e molto invece con i riti agresti.

L’autore, Ibn Wahsiyya, sostenne di averla derivata da una semiprimordiale fonte caldea. La critica moderna ha concluso che si tratta di una contraffazione di origine incerta, un cosiddetto falso. Indubbiamente, qualunque cosa sia, originale non è: cose simili vengono confezionate utilizzando materiale tradizionale.
Maimonide la riteneva degna di essere citata per esteso; Chwolson e Liebrecht l’hanno analizzata e confrontaa con la relazione di an-Nadîm sulla festa di Tammûz ad Harrân, festa che si celebrava in luglio e si chiamava el-Bûqat, «le donne piangenti».
Vediamo innanzitutto uno dei passi studiati da Liebrecht:

Si dice che una volta i Sakaîn (gli angeli) e le immagini degli dèi abbiano pianto su Janbûšâd, così come tutti i Sakaîn avevano pianto su Tammûz. Racconta la leggenda che le immagini degli dèi si radunarono da tutti gli angoli della terra nel tempio del Sole, attorno alla grande immagine d’oro sospesa tra il cielo e la terra. La grande immagine del Sole era al centro del tempio, circondata dalle immagini della Luna, seguite da quelle di Marte e quindi da quelle di Mercurio, di Giove, di Venere e, in ultimo, da quelle di Saturno».

Il testo di Chwolson prosegue:

A questo punto, l’idolo (che era sospeso fra la terra e il cielo) cadde giù e incominciò a piangere Tammûz e a raccontarne la dolorosa vicenda. Allora, tutti gli idoli piansero e si lamentarono per tutta la notte; ma non appena sorse la stella del mattino, volarono via e ritornarono ai propri templi in tutti gli angoli del mondo.

È questa la storia, che a detta di Liebrecht, veniva ricordata e rinarrata nei templi dopo la preghiera, con nuovi pianti e lamentazioni. Questo è dunque lo sfondo arcaico e vi si parla di dèi planetari, il grande culto di Harrân.
Due di questi spiccano quasi ex aequo: Tammûz e Janbûšâd.
Ora, quest’ultimo altri non è se non il firdusiano Jamshîd, ovvero l’avestico Yima Xšaêta, il nome da cui deriva il latino Saturnus.
Non c’è dubbio quindi: abbiamo a che fare con Saturno-Kronos, il dio del Principio, Yima (l’indiano Yama), il Signore dell’Età dell’Oro.
Un lamento sulla dipartita di Kronos sarebbe stato appropriato anche in Grecia, dal momento che questi era stato detronizzato e soppiantato da Zeus.

Ma chi era Tammûz? il dio del grano che muore assieme alla stagione, l’Adone rurale, mal si concilierebbe con un sì nobile consesso.
Ora è chiaro che egli era innanzitutto una divinità astronomica. Sui suoi riti della fertilità si è scritto così tanto che non è stato facile individuare la data esatta, fornita da Cumont (Adonis et Sirius, 1932): le lamentazioni su Tammûz-Adone non si tenevano semplicemente «a estate inoltrata», bensì nella notte tra il 19 e il 20 luglio, proprio la data che segnava l’inizio dell’anno egizio e che rimase a determinare il calendario giuliano. Per tremila anni essa aveva segnato il sorgere eliaco di Sirio.

Sirio-Orione-figuratoTammûz era assai resistente: lo si trova a Sumer col nome di Dumuzi, già oggetto di lamentazioni rituali nel cuore dell’estate. Era venerato come figlio di Enki, che era il Kronos sumerico.
Il culto continuò ad Harrân fino al XIII secolo d. C., quando già da gran tempo i sabei erano stati sommersi dall’ondata dell’Islam e, nonostante le ire del califfo di Bagdad, continuò ad avere rinascite sporadiche ma intense in un’area che si estendeva dall’Armenia al Quzistan.
Come si diceva, la festa si chiamava el-Bûqat, «le donne piangenti», e il lamento era principalmente per la crudele morte del dio, macinato tra due mole. […]

Di che tipo di macinatura si sarà trattato?
Indubbiamente, nella coscienza popolare il lamento rituale si riferiva alla morte di un dio del grano, chiamato anche Adone (il Signore), ucciso da un feroce cinghiale, ma l’aspetto celeste predomina su quello agreste, ed è anche più antico, tanto più che il «feroce cinghiale» era Marte.

Questo ci lascia con una storia assai intricata da sbrogliare, e la cosa è resa particolarmente difficile dalle troppe «identificazioni» date per scontate dagli studiosi che, con magnifico zelo, hanno estirpato da tutta la mitologia la dimensione temporale.
In realtà, non si sa ancora chi sia Tammûz; sembra anzi quasi un titolo, così come era un titolo «Horus».

Vi sono dubbi sulla sua «identificazione» – nel senso corrente del termine – con Adone, con Osiride, con Attis, con Baldr, e con altri.
L’Agricoltura nabatea non lascia dubbi sul fatto che vi fossero lamenti rituali su Tammûz e su Janbûšâd/Jamshîd. Gli egizi elevavano lamenti su Kronos e Maneros (Erodoto, 2: 79). Dopo tutto, Tammûz non è l’unica stella che venne a cadere nel corso della Precessione.

Ci siamo allontanati assai dal grande Pan, e ancora non è chiaro chi o che cosa si riteneva che fosse venuto meno ai tempi di Tiberio: vale a dire, di quale «Pan» si tratta.
Creuzer dichiarò subito che si trattava di Sirio (e le ipotesi di Creuzer hanno tuttora un grande peso), prima stella del cielo, perno dell’astronomia arcaica. Aristotele dice che, volendo circoscrivere un «cane», ci si poteva servire della «stella-cane» (Sirio) o di Pan, perché Pindaro afferma che egli è il «multiforme cane della Grande Dea» (Retorica, 2: 24, 1401, a 15).
Ma per il momento non vogliamo spingerci oltre.

Lo straordinario significato di Sirio come capo dei pianeti, l’ottavo pianeta, per così dire, e di Pan, il χωρευτής oltre che il vero κοσμοκράτωρ, che regna sui «tre mondi», richiederebbe un intero volume.
L’importante è che il ruolo straordinario di Sirio non sia un prodotto di stolte fantasie sacerdotali, bensì un fatto astronomico.
Durante l’intera storia trimillenaria dell’Egitto antico, Sirio sorgeva ogni quattro anni al 20 luglio del calendario giuliano; in altre parole non era influenzato dalla Precessione, il che dovette portare alla convinzione che Sirio fosse ben più che una fra le tante stelle fisse. Così, quando Sirio cadde, il grande Pan morì.

(Santillana-von Dechend, Il mulino di Amleto)