Noi, Beatrice, non sappiamo chi è

chiacchiereÈ ora di finirla con tutti questi pettegolezzi sul conto di Beatrice!
È ora di dircelo francamente: noi, Beatrice non sappiamo chi è! noi, di quella Ella ritrovata per essere poi un’altra volta (l’ultima?) perduta, di Lei di cui in extremis, mentre la sua luce si affoga nella Luce, Dante incredulo si domanda «ov’è?» – noi, scusate il ritardo con cui lo facciamo, ma un gesto carino lo possiamo ancora fare: chiedere scusa a lui e a lei per tutte le scemenze, più o meno ortodosse che ci sono scappate di bocca (la donna-angelo, la signoria d’amore, il vassallaggio, la fedeltà, l’amor cortese, il libro sai com’è? era un tantino galeotto, la Cerva aveva le corna d’oro e la Grazia Illuminante, come dovuto, illuminava la Via al Viandante, perché non so quanti corressero a onorare la salma salmodiando il loro solenne «non la vogliamo, non sia mai dio!, noi non vogliamo vederla»).
Non se ne può più.

Se facciamo due conti, sono ottocento anni che Ella, Beatrice, è sepolta sotto il Mucchio delle nostre chiacchiere.
Basta!
Noi, Beatrice, non sappiamo chi è!
Facciamo un bel respiro profondo, e ripetiamolo a scanso di equivoci.
Noi, Beatrice, non sappiamo chi è!
Dircelo, a questo punto, è già una grande conquista.

Ognuno incontra il suo Tipo.
Dante ha incontrato Beatrice.
A ciascuno ritorna il riflesso del suo volto. Questo ci ha insegnato il mito di Narciso. Che in quel riflesso ciascuno di noi, da bambino, s’immerge – e da quel momento diventa «uno di noi» (Uomini).
Ognuno si guarda nello specchio delle sue brame. Non c’è bisogno del Filosofo che ce lo spieghi. Lo possiamo capire benissimo da soli.
Anzi, non si tratta affatto di capire.
Si tratta di «vedere». E dico: vedere coi propri occhi …

Nell’Interpretazione dei sogni e nel Compendio Freud spiega che le istanze psichiche fondamentali devono essere concepite perlopiù come rappresentanti di ciò che si verifica in un apparecchio fotografico, cioè come le immagini virtuali o reali prodotte dal suo funzionamento.
(Lacan, Il Seminario: 1)

Funzioniamo, siamo macchine fotografiche, e perciò funzioniamo scattando immagini virtuali o reali.
Poche chiacchiere, qui è tutto un «fotografare», un «filmare», uno «spiare» (da una certa camera oscura) il mondo cosiddetto «di fuori».
Produciamo e riproduciamo immagini reali (di ciò che incontriamo dal vivo) e virtuali (di ciò che incontriamo in un mezzo di comunicazione). Produciamo, dunque, immagini e simulacri (per informazioni rivolgersi a sant’Antonio). Fotografiamo, perciò, a nostra immagine e simulacro.
Siamo un corpo e la macchina che l’incorpora. Un occhio e la sua camera oscura.

L’apparato organico rappresenta il meccanismo dell’apparecchio e le immagini sono quello che afferriamo. Le loro funzioni non sono omogenee, perché un’immagine virtuale e un’immagine reale non sono la stessa cosa.
(ibidem)

Immagini e simulacri non sono la stessa cosa.
Beatrice è per noi un Simulacro.
Solo per Dante è un’Immagine – anzi la sua Imago magica.
Per noi è solo, appena, niente di più e niente di meno che un Simulacro.
Amen.

C’è però che la Macchina Fotografica può fotografare anche le fotografie altrui. Non solo produrre, ma riprodurre. O, come amava dire Deleuze, produrre sul già prodotto: un sovraprodurre (all’infinito) un surplus sempre più immaginario, ma non per questo meno reale, anzi sempre più reale agli occhi, è sottinteso, di un Narciso sempre più preso nel suo narcisismo (e sempre più disposto a nasconderselo nella sua camera oscura).
Per stanare Narciso, è lo stesso Freud (siamo in buone mani) che ce lo dice: basta con tutte queste chiacchiere. Qui si tratta solo di ottica!

Escher-grande-occhioQui, invece che di «istanze», converrebbe dunque parlare di «istantanee» psichiche in cui, se proprio c’è qualcosa che non va, non può essere altrimenti detto che un Malocchio.
Una svista, un miraggio, un abbaglio … ecco di che si tratta. Solo di una fulminea eccezione alla Regola (e al regime) dell’Indifferenza. Di colpo, non è solo la lastra, ma Tutta la Macchina, a essere impressionata dall’immagine che ha avvistato. Impressionata dalla sua «differenza» da tutto il resto, e dunque: differenziata essa stessa. Resa differente da qual era prima che immaginasse quell’immagine differente.

Non ci sono «istanze», e tanto meno «sostanze» in ballo.
Ci sono «istantanee» che funzionano come porte a scatto: c’è solo un istante per passare di là … e correre appresso al loro «richiamo». Come il «furioso» Orlando «che rotola» (la cui testa rotola) dietro ad Angelica: c’è poco da fare, ha visto un Angelo passare. E ora che è passato, guarda un po’ – la sua Macchina s’è messa a riprodurre Simulacri dell’Assente, s’è inceppata a simulare la Presenza di ciò che è Passato. Simulando, arriva – direi quasi di corsa – a sostantificarlo. Da qui a sentirsene «perseguitato», o quantomeno a esserne «fissato», il passo è breve.
Nominarlo, è un gioco da ragazzi. Una stregoneria di cui ogni specchio di brame è capace. Perché è nell’Immaginario che affonda il nostro Simbolismo, il nostro Gioco dei Segni. È negli strascichi di un’Immagine «differente», nel malocchio a cui ci ha «imbambolati» al suo passaggio, è là quella

fonte immaginaria del simbolismo, ciò attraverso cui il simbolismo si ricollega al sentimento che l’essere umano ha del proprio corpo.
(ibidem)

Basta dunque coi Nomi di sostanze più o meno «divine» che avrebbero sostenuto il viaggio di Dante attraverso i «tre mondi».
Basta con i concetti. Qui in gioco c’è un visionario (Dante) che s’è fatto un film – come tutti noi, del resto. Ha montato un lungometraggio. Lungo tutta la sua vita. Un po’ come la Gioconda per Leonardo. Ogni giorno aggiungeva un tocco al quadro della sua «sorella gemella», la Maga.
Ma di ciò che Leonardo immaginò, noi dinanzi al Simulacro esposto al Louvre, non sappiamo niente.
Possiamo soltanto, forse, immaginare sul suo Simulacro.

È vero, l’uomo non è soltanto un occhio. E la sua Macchina non è buona solo a fotografare, ma ha mille altre «funzioni».
Però, almeno quando dici Dante e Beatrice, o Leonardo e la Gioconda, non mettere in funzione altro che il tuo Occhio, e il suo linguaggio.
Perché, tu – come me – Beatrice, o qualcosa del genere, la puoi solo vedere e, se ne parli, puoi solo bestemmiarla. Se la «nomini», la «tradisci»: la affidi a una Tradizione che l’ingoia nel labirinto delle sue viscere simboliche.
La seppellisci in un mucchio di chiacchiere.

Invece, è solo un attimo. Appena un’istantanea che ti segna per tutta la vita. Vuoi o non vuoi, devi affogare nella sua oscurità, se vuoi ripescarla dalla casa in fondo al mare. Se vuoi sapere l’ora buona per andare a pesca, tienilo a mente: solo una volta all’anno, alla festa delle «Femmine Piangenti», quando il Seme più piccolo degli «Otto Grani» celesti ha diritto a dire la sua da sotto il Mucchio di chiacchiere che lo tengono in esilio ai confini del Mondo.
A quell’ora, a ogni Narciso, fosse pure affetto da un doppio o triplo narcisismo, è possibile rivedere la Salma che il popolo salmodia e deifica, pur di non vederla coi propri occhi.