Rabelais – Una pietosa istoria

Rabelais-portraitEpiterse, padre di Emiliano retore, emigrando di Grecia in Italia in una nave carica di diverse mercanzie e di parecchi viaggiatori, sulla sera, calmandosi il vento presso le isole Echinadi, le quali sono tra la Morea e Tunisi, la loro nave fu portata presso l’isola di Paxos.
Essendo là ormeggiata, e alcuni dei viaggiatori dormendo, altri vegliando, bevendo e mangiando, fu dall’interno dell’isola di Paxos sentita una voce, di qualcuno che chiamava forte Thamoun. Al quale grido rimasero tutti spaventati.

Questo Thamous era il loro pilota, originario d’Egitto, ma non conosciuto di nome, salvo a qualcuno dei viaggiatori.
E una seconda volta fu intesa quella voce, che chiamava Thamoun con un grido terribile. Nessuno rispondendo, ma restando tutti in silenzio e trepidazione, una terza volta fu sentita la voce, più terribile di prima.
Onde avvenne che Thamous rispose: «Sono qui, che cosa vuoi da me? Che vuoi tu che io faccia?».
E allora la voce si fece sentire ancora più alta, dicendogli e ordinandogli, quando fosse arrivato a Palodes, che divulgasse ovunque che Pan il gran dio era morto.

Udita questa parola, diceva Epiterse che tutti i marinai e passeggeri restavano stupiti e atterriti, e discutevano tra loro che cosa fosse meglio, se tacere o divulgare quello che era stato ordinato, e Thamous disse che secondo il suo parere, se si fossero trovati ad aver vento in poppa, dovevano passare oltre senza dir nulla; ma se invece si fossero trovati in bonaccia, dovevano dichiarare quello che egli aveva sentito.

E così, quando furono presso Palodes, avvenne che non ebbero né vento né corrente: per cui Thamous salendo sulla prora, e rivolgendosi verso terra, disse come gli era stato ordinato: che il gran Pan era morto. E non aveva neppur terminato l’ultima parola, che furono sentiti grandi sospiri, grandi lamenti e voci di terrore da terra, non d’una sola persona, ma di molte insieme.

La notizia di questo fatto (giacché molti erano stati i presenti) fu ben tosto divulgata in Roma. E Cesare Tiberio, che era allora imperatore in Roma, mandò a cercare Thamous e, avendolo sentito parlare, prestò fede alle sue parole. E informandosi dai dotti che si trovavano allora nella sua corte e a Roma in gran numero, chi fosse questo Pan, trovò dalle loro relazioni che era stato figlio di Mercurio e di Penelope.

Così già era stato scritto da Erodoto, e anche da Cicerone, nel suo terzo libro Della natura degli dèi. Io però interpreterei il fatto come riferentesi alla morte del nostro gran Salvatore, che fu in Giudea ignominiosamente ucciso per l’invidia e iniquità dei pontefici, dottori, preti e monaci della legge mosaica.
E l’interpretazione non mi sembra aborrente: perché Egli a buon diritto può essere in lingua greca chiamato Pan, visto che egli è il nostro Tutto, e tutto quel che noi siamo, che viviamo, che abbiamo, che speriamo, è lui, in lui, di lui, per mezzo di lui.

Egli è il buon Pan, il gran pastore, il quale, come attesta l’amoroso pastorello Coridone, non solo predilige e ama le sue pecorelle, ma anche i suoi guardiani. Alla cui morte furono pianti, sospiri, grida di terrore e lamenti in tutta la gran macchina dell’Universo, cieli, terra, mare, inferni.
E questa mia interpretazione trova concordanza di date, perché quel nostro ottimo, grandissimo Pan, nostro unico Salvatore, morì a Gerusalemme, regnando in Roma Cesare Tiberio.

(Rabelais, Gargantua e Pantagruele, 4: 28)