Qual è il tuo tipo? – che tipo di uomo o donna preferisci? – come t’immagini che lui/lei debba essere, per essere il tuo tipo? – il tuo ideale?
La Chiacchiera a nostra insaputa sa quello che dice.
Siamo noi che chiacchieriamo a non sapere quello che le nostre parole dicono. Siamo noi le lettere, dice la canzone – noi l’alfabeto della Chiacchiera.
Il Chiacchierone, Lui – il SI dei «si dice», l’Impersonale «noi» (noi si va, noi si fa, noi si chiacchiera), Lui sì che lo sa, lo sa di sicuro quello che dice.
Dice: tipo. E offre come sinonimo: ideale.
Ma tu hai visto, nientemeno, quante piroette e quanti funambolismi deve fare nella parola quel mattacchione di Lacan, per venire a dirci soltanto questo? e cioè, che a sedurci non è il Corpo, ma il tipo, l’ideale, l’idolo, l’immagine che ci «vediamo» sopra (ah, quando si dice il malocchio!). Non è il Vaso, ma i Fiori immaginari che la stoltezza di Epimeteo ci eccita a scriverci sopra.
Stiamo andando, appresso a Lacan, dentro a quello che la Chiacchiera già dice, ma che, a quanto pare, dice senza sapere quello che dice – per es., appunto, quando dice: il mio tipo ideale di uomo/ donna è così e cosà.
La Chiacchiera, senza saperlo, dice che è l’Immagine, il Tipo a sedurre. Dice che ci seducono i Fiori che «cogliamo» dipinti, scritti o scolpiti, non importa se a volte solo di passaggio, sull‘Altro. È l’immagine della nostra «congiunzione ideale con l’Altro» che ci seduce: con quell’Altro dai cui inviti «nudi e crudi» ci siamo disgiunti, per unirci solo a quest’Altro che ci è più intimo, a quest’Altro che «idealizziamo» come il nostro proprio (tipo di) «io».
Il Tipo – τύπος – impronta, marchio, traccia, segno di riconoscimento, ma anche carattere esteriore, qualità fisica, caratteristica visibile, la facies, l’aspetto superficiale, evidente, sensibile e manifesto. Insomma: il bello e il brutto, detto in italiano volgare.
Ora, che questo manifesto possa manifestare miraggi, simulazioni, finzioni e contraffazioni varie – che quasi debba manifestare forme ingannevoli di Se Stesso, non è il caso di perdersi in chiacchiere a dimostrarlo. Quando si tratta di Sedurre, il Tipo – l’Immagine, la Faccia, il Look, è tutto ciò che conta nel gioco degli accoppiamenti. Conta la maschera, non la nudità.
Come se poi il Corpo Nudo non fosse, esso, il Contraffatto. Esso, l’Artificio di cui Desiderio si traveste. Quante mutilazioni ancora gli dovremo infliggere, quante circoncisioni estetiche dovrà patire – prima di riconoscere la crudeltà, la necessaria crudeltà con cui lo trattiamo purché «funzioni» da esca?
Narciso abbocca. L’esca è il suo «tipo». Proprio il suo «ideale». Altro che chiacchiere, qui mi ci tuffo a occhi chiusi – dice Narciso tra sé e sé.
Se qualcosa non va, se Narciso rifiuta tutti gli inviti – quello della ninfa Eco soprattutto, se domandi a lui ti dice che è l’Altro che non va. Ti dice che a lui, Narciso, l’Altro non va come dovrebbe andare. Ha questo solo difetto: non è il suo «tipo».
Solo il suo Tipo l’attrae, lo seduce e … gli fa perdere il Rango Celeste, quel Trono su cui sedeva quand’era in braccio alla mamma (questa è la metafora più facile e più immediata che avevo a portata di mano) – quando cioè era Tutt’Uno con la Madonna, là – al Confine, poco prima dello svezzamento «linguistico».
Poi dice che, se io dico che la Commedia di Dante è comica, faccio ridere.
Se così fosse, non sarei – almeno in questo – uscito fuori tema. Avrei al più peccato di tautologia.
Ma quel che conta, nella follia di Narciso, che è la stessa di Mastro Dante, è che il Folle, lo Stolto «spera» che c’è un Riso che l’attende, una Gioia che vuole essere da lui gioita, un tipo particolare di Letizia che ha una sua «faccia» single e singolare – la Piccola Faccia, era così che si chiamava una volta la Prima Porta che apre l’Inferno dell’Umano.
Nella follia di Narciso succede che non gli basta sbattere la testa contro la Prima Porta, perché si arrenda. Narciso è disposto a morire ancora un’altra volta, la morte di sua Madre. E perciò «spera» che quest’altra porta che porta ancora più giù, più dentro la bestialità dell’Inferno, non gli rinchiuda l’accesso alla vista di sua Madre – della Grande Madre che è laggiù sprofondata.
Narciso «promette e giura» che sarà lui solo l’occhio di quella Stella che da lassù la notte, sua Madre, la contempla, e contempla così ogni notte la sua propria crudeltà.
Narciso, forse, solo questo insegue. Al di là delle Due Porte dell’Inferno «linguistico», Narciso insegue solo il Tipo che sia, insieme, a lui il più (idealmente) vicino e il più (fisicamente) lontano. Da chi più che dalla Madre si è allontanato? E a chi più che alla Madre fu mai vicino? D’altronde, di quale altra Metafora può Narciso servirsi – in quella francescana povertà di linguaggio di cui, qui – in questa stagione acerba, antica, arcaica dove stiamo cercando di ricostruirlo – gode la sua incoscienza infantile?
Narciso sogna il Ritorno. Ma, a quanto pare, non gli basta il ritorno della sua voce dall’Eco del Racconto, dagli echi della Gente che gli parla intorno. No, Narciso vuole «vedere» il Ritorno della Faccia – vuole riconoscere il suo Tipo, il solo che lo seduce.
Forse Narciso vuole solo rivedere Se Stesso distante, rivedersi lui lassù, figlio di Colei che sta immaginando quaggiù, e immergersi nel piacere di rigenerarsi, nella lungimiranza, lui a partorire Lei, lui a fare la Nonna Muta, la Nonna dei dolcetti scherzetti (comprendi l’allusione!), a girare la «ruota» del Cabalista all’indietro, lui il Vecchio che ringiovanisce nella confusione dei tempi e nella migrazione dei luoghi – solo questo piccolo Miracolo, Narciso vuole rivedere.
E sentirsi finalmente a casa là – nella lontananza essere, un’altra volta, di casa nel mondo. Lui, il sognatore dell’Eterno Ritorno.
Al di là della Seconda Porta – la Grande Faccia dei Misteri, era così che si chiamava una volta: la Porta dell’Ingiustizia, la Porta di Dite, la Terribile, la Spaventosa, la Bestia.
È laggiù, più giù dell’Inferno, nell’Inferno che più infernale non si può – è laggiù che è sprofondata l’Immagine della Grande Madre. Solo le stelle vedono quant’è profondo quest’abisso. Solo Narciso, quando prende coscienza della sua crudeltà, solo allora «rivede» nella lungimiranza la Ruota che avvicina il Lontano.
Forse.
Forse andrà addirittura peggio, perché bisogna farci i conti con quest’altro inferno – perché bisogna vincerlo, questo perverso inferno in fondo al quale la Madre delle stelle è stata maledetta, se si vuole venire a capo del proprio narcisismo. Della comicità della propria Commedia, per intenderci.
Il Commediante laggiù, più giù dell’Inferno della Prima Porta,– acconciando a suo gusto la mappa di Virgilio – dice che s’è imbattuto in una terrificante Seconda Porta. In una Porta che neanche la poesia magica di Virgilio sapeva aprire.
La Porta della Città. La Porta, oltre la quale l’Inferno è una Città, un vasto e difforme Insieme, una variegata bestiale Moltitudine che bestemmia una stessa Lingua, la Chiacchiera cittadina. Che miagola, ruggisce e bramisce in tutte le lingue del mondo.
È laggiù che la Donna è precipitata. Laggiù, l’Immagine della Donna è stata scaraventata. Laggiù bisogna che il Commediante vada a ripescarla, dal fondo delle miserie in cui la Chiacchiera volgare l’ha segregata.
La Chiacchiera della Città, della Gente, del SI che parla per bocca di tutti i chiacchieroni, nessuno escluso. La «volgare eloquenza», quella da cui, nell’omonimo libro, Dante si affatica ad estrarre una «lingua dei poeti», di questa nuova generazione di poeti «romantici», venuti a «romanzare» (in lingua neo-latina, in volgare appunto) i funambolismi e le capriole che un Maestro di scuola, un Maestro di parola, deve fare per venire a sciogliere l’indovinello della Sfinge Muta.
I Senoi avevano una strana aritmetica: uno, due, tre e Molti.
Solo quattro Numeri.
Noi, invece, che almeno da Pitagora in poi, di Numeri ne abbiano a Decine, e che sin dai Sumeri abbiamo il sistema sessagesimale, e le ore, e i minuti e le frazioni dei secondi, e che a Troia praticammo il sistema duodecimale, o presso i Maya quello vigesimale, noi che passammo per i Celti e i Galli tanto che per dire ottanta diciamo ancora, in francese, «quattro venti», noi abbiamo numeri che numerano perfino l’Infinito.
Almeno da Aristotele in qua.
Noi dunque abitiamo a Dite.
Abitiamo nella Città della Chiacchiera.
Della Chiacchiera che non accusa mai Se Stessa, che non insorge mai contro la sua Frode, che non si trova mai, neanche per caso, a dire: sono io la Prostituta delle Genti, io la Terribile, la Spaventosa Trappola al servizio della Metafora e del suo illusionismo ormai cristallizzato nell’interesse e per la sopravvivenza, niente di meno!, della specie.
Di tutte le chiacchiere non ne trovi una, che osi chiacchierare contro Se Stessa. È sempre l’Altro che non si piega a essere l’Esca che deve essere. È sempre colpa sua, se le cose vanno male. Se qualcosa non va, la Chiacchiera dice di averlo saputo da sempre che l’Altro non è il suo Tipo.
Solo uno stupido come Narciso si tuffa in un mare di guai.
In due mari, e non in uno solo.
Dopo il naufragio nel mare immaginario, nel Paese delle Immagini e dei Fantasmi, ecco quest’altro Oceano ancora più vasto, ancora più oscuro: questo Oceano senza fondo che è il Simbolismo parlato dalla Chiacchiera di una Moltitudine.
Narciso, per inseguire l’Esca Ingannevole, il Tipo che inganna solo lui, è pronto a farsi Glauco e scendere in fondo alla Chiacchiera, laggiù dove tutto è babelicamente rivoltato sottosopra: la Donna, la Celeste – ridotta a un misero «oggetto», a essere solo «passiva» di desiderio altrui, perché il Soggetto che l’assoggetta possa fare, lui, la parte dell’Altro che «si rivede» e «si ritrova» magicamente. Vicino e lontano, familiare e straniero – allo stesso tempo.
Il Tipo, il «nostro proprio» Tipo, single e singolare, il Solo Ideale, quello che ci chiede di durare al di là di noi stessi, il Lontano, l’Inattuale che parla dal fondo dei nostri propri desideri, ora che Narciso è diventato Glauco, ora che è affogato nella brocca del suo stesso miele – ora è rinchiuso nelle mura di Dite.
In un inferno a doppia mandata.
Nell’Inferno dei Molti – della Città, del Volgare, del Popolare.
È disperso nella Folla, il «nostro proprio».
Anche se Narciso l’ha avvistato in un faccia a faccia, in una privata relazione di coppia, ora che si è tuffato, Narciso si scopre a essere niente più che uno dei tanti fiori spuntati provvisoriamente in uno dei tanti prati.
Narciso è «uno dei Molti». La cosa faceva rabbrividire i Senoi.
Questo terzo narcisismo, questo narcisismo che a sorpresa si trova disperso nella Foresta dei Simboli, in quest’altro Paese Linguistico – i Senoi forse non l’hanno conosciuto.
O forse, curandosi dei sogni, incuriosendosi dei fantasmi, ne hanno limitato i danni.
È la lezione che ho imparato da Lévi-Strauss.
Che il viaggio del Viandante nel proprio narcisismo passa per due porte: la prima è quella che egli chiama «dell’intelletto» (che si fabbrica un «mondo» nella sua lingua non ancora verbale, e tuttavia già capace di allestire una sceneggiata o, se preferisci, una Struttura); la seconda è quella che egli chiama «della moltitudine» (o della sovrappopolazione che investe quel primo «mondo» coi suoi nuovi problemi di coesistenza, di rapporti di parentela e affinità più o meno totemiche, in ogni caso linguistiche).
La Grande Svolta Neolitica. Da uno, due e tre … a Molti clan in una Tribù, a partire dal giorno in cui la Tecnica è in grado di sfamare più Gente.
Lo so, dovrei attenermi al vizio dei dantisti, invece di leggere Dante con le lenti del Pensiero Selvaggio. Dovrei occuparmi anch’io del misterioso Messo e dell’aquila che lo «significa». Dovrei attenermi alle abitudini e allo stile della Chiacchiera. E che cosa c’è di più attraente per la Chiacchiera che fare chiacchiere che si riproducono a vicenda – solo per riprodurre, a loro insaputa, il SI chiacchierone?
Non la faremo mai saltare in aria, neanche a parole, la Città che nelle sue viscere linguistiche ci tiene prigionieri dei suoi Fantasmi?
O lo diremo in parole povere che le due Porte, sono l’Immaginario e il Simbolico?
Invece di farsi catturare dai Simboli, invece di mettersi a chiacchierare a chi la sa più lunga a proposito della Croce e dell’Aquila – dirlo così chiaro e distinto perché anche i sordi sentano quello che non gli piace sentire.
Certo, è sempre con quell’Immagine, con quella là che l’ha adescato, col suo Tipo, che comunque Narciso deve fare i conti – quando si racconta a se stesso.
Solo che quell’Immagine, ora, è nascosta sotto un Mucchio di chiacchiere che dicono, ma non sanno quello che dicono. Di chiacchiere che mirano a sedurre il primo che passa. A prescindere. Di chiacchiere che a Narciso mandano gli inviti che lui nemmeno sente.
Narciso è sordo. Narciso non vede l’ora di rivedere il suo Tipo.
E dunque: se Desiderio l’ha cacciato all’inferno, se Desiderio all’inferno s’è andato a murare dietro non una, ma due Porte, una più difficile da aprire dell’altra – non per questo Narciso s’arrende.
Se si arrendesse, sarebbe una Tragedia dello Spirito.
E invece, il nostro Commediante, il nostro Maestro di parola, Mastro Dante, «spera» di riuscire a rivoltare la Chiacchiera – a strappare i denti a questa Vagina Perversa che lo risucchia nel Volgo, nella Moltitudine, nella Gente.
Certo, se fosse un gatto – allora sì, che sarebbe tutt’altra cosa.
Ma Narciso, come Dante, come ogni povero cristo, è un uomo. E l’Uomo, soltanto l’Uomo, a differenza degli altri animali, è così stolto da inseguire il suo Tipo al di là del Paese delle Immagini, laggiù dentro la Chiacchiera, dentro l’inferno dell’Inconscio che parla e parla e parla.
Stolto è Narciso – due volte stolto è il Poeta, che si arrischia a inseguire il suo Tipo nell’Inferno della Parola, il più bestiale degli Inferni – l’Inferno solo umano.
Solo la stoltezza lo salverà. Solo la sua Credenza l’aiuterà a passare per la Parola della Città, per la Seconda Parola, senza con ciò perdere di vista il suo Tipo.