Pavel Kutzko – Siamo quattro gatti

… se durante la mia assenza io dovessi per caso tornare, tu trattienimi finché non torno …

(non ti pare una citazione estratta dal discorso che tenne Teseo ad Arianna prima di avventurarsi nel Labirinto?, e invece è solo un mozzicone dello sproloquio di tempi e luoghi, captato dall’Orecchio di un dottore in ascolto del suo paziente: cfr. Cooper, Il linguaggio della follia, incipit)

quattro-gattiSiamo quattro gatti. Fino all’altro ieri eravamo otto, e uno di questi otto era convinto, ma così convinto da dirsi certo che un tempo eravamo stati sedici, e prima ancora trentadue, per non dire poi di quella più che mitica Stagione in cui eravamo stati felici d’essere sessantaquattro.
Di questi Beati Sessantaquattro – così li chiamava lui – si sarebbe persa ogni memoria, se a uno di loro, a un poetastro qualunque, non fosse venuta la balzana idea di inventare il gioco dei ching.
Il «gioco della Vecchia», così lo chiamava il suo inventore, e si scusava – in pubblico, preferibilmente – se la «sua» Vecchia, in verità, non era la più vecchia del Mondo degli Esagrammi.

C’è una Vecchia ancora più vecchia di Lei – diceva.
E diceva che quell’altra, la più vecchia, era stata una Regina prima d’essere scalzata dal Trono dei Centoventotto nel corso di una congiura ordita dal Re, suo marito, meglio noto come l’Augusto di Giada.
Una volta, pare che, confessandosi a qualcuno, abbia fatto cenno a un Reame Anteriore, a un Mondo ancora più vecchio della più vecchia delle due Antenate del gioco che s’era inventato.
Quel Reame – disse – fu in illo tempore il Grande Seminario, il più grande Mucchio di Semi che mai si sia visto al mondo, il Granaio di tutti i semi di tutte le carte da gioco. Era il «divino deposito» dei Duecentocinquantasei Germi della Pazziella Universale.

Lo so, sono fandonie, e non bisogna dare credito a simili Voci.
Il fatto è che noi, adesso, siamo Quattro Gatti, ma in realtà non più di Due Ermafroditi che vivono assieme, diciamo così, da una vita. È difficile perciò che tra noi avvenga qualcosa d’imprevisto. Ci conosciamo a memoria. Se uno dei Due si ricorda cosa ha detto l’Altro cent’anni fa, può anche fare a meno di starlo a sentire ora, perché tanto, quello che aveva da dire, quel poco o niente che pensava di dover dire, l’Altro l’ha già detto e ripetuto mille volte. Ormai più nulla ci sorprende. Le nostre reciproche emozioni stagnano. Per viverle, ci tocca nuotare nell’acqua marcia di questa Palude Binaria.

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Siamo rimasti in pochi, troppo pochi e disperati per non prestarci all’illusione che un tempo fummo Molti. Un tempo divenimmo talmente Tanti – che un dio invidioso, il Signore di un Reame tutt’altro che popoloso, scagliò contro la Nostra Gente fulmini e saette. E fu il Diluvio Universale. Fu la fine della Nostra Moltitudine. La fine di quel mitico Inizio Molteplice che noi, Quattro Gatti Randagi, ci continuiamo a raccontare nell’illusione, dolce chimera, che il Racconto possa risarcirci di quel Tutto che perdemmo, allorché proprio dalla Moltitudine fummo «per gioco» spodestati della nostra pazza Singolare Maestà. La Matta del Gioco, la Vecchia, fu cacciata «fuori di noi». Espulsa per via di quel Pungiglione che aveva sulla coda.

In fondo, che cosa ci raccontiamo? Tutto quello che, a memoria, ci possiamo concedere è un’illusione. Un lusso aritmetico. Un ritmico conforto. Una specie di soporifera ninnananna. Il Racconto, è vero, non sarà «buono da mangiare», non quanto la pappa che la notte raccattiamo nei bidoni della mondezza Umana, ma forse, almeno a un «quarto» di luna, almeno all’unghia dell’alluce di uno di noi Quattro, potrà sembrare «buono da miagolare», almeno una notte all’anno.
Almeno ogni quattro, otto, sedici … o trentadue anni!
Trentadue! Questo numero non mi è nuovo (miagolo tra me e me).

In questo nostro vicolo (vicolo cieco o vicolo stretto?) coabitiamo noi Quattro Gatti. Ci unisce Un bidone, e uno solo. Un bidone per Quattro bocche di una Fame antica. La Fame dei nostri Trentadue Macellai.
Sono un Gatto, e posso prendermi certi lussi che gli Speculativi Umani mai e poi mai si permetteranno: il lusso di chiamare i «loro» Sentieri di Sapienza col Nome dei Nostri Denti.

gatti-lunaHai sentito cosa dice Ogotemmeli?
Dice che la Seconda Parola fu «tessuta», ordito e trama, tra le due fila di denti superiori e inferiori, che «facevano la spola» per masticare le «fibre naturali».
Dice che Trentadue Denti spuntarono all’Uomo, trentadue «vie» furono così aperte al Palato Umano, al Gusto dell’Uomo: ogni via, un Sapore; ogni Dente, una Sapienza tutta sua.

Saper masticare le parole, saper masticare ciò che è «buono da parlare», è il requisito minimo che ti chiede «sulla soglia» il Maestro di Parola.
Noi quattro, perciò siamo rimasti Gatti: perché il «loro» Maestro, a noi, non c’intimorisce. Il «nostro» Maestro è il Gatto con gli Stivali. È il Mago che a noi ci svela i trucchi a cui, invece, abboccano gli Umani.
Gli Umani mangiano al Tavolo della Metafora. Credono di mangiare, e invece sono loro a essere divorati dal Galateo. Perciò, da sazi ma anche a digiuno, inneggiano alla Sophia dei Trenta e passa Eoni, e di noi – che siamo rimasti Quattro Gatti – non si curano che certe Vecchie beghine, una più vecchia dell’altra, l’una più zoppa e l’altra più cieca della Vecchia Regina del Reame Anteriore – la Grande Madre, il Corpo dalle Molte Mammelle, la Nutrice del divino Horus. La (ormai miticamente «defunta») stella Canopo.

Lo so, queste sono idiozie che solo i Gatti continuano a miagolare, quando non c’è più niente da masticare – quando nient’altro hanno da masticare che la loro amara solitudine.
Siamo solo quattro Solitari – due Ermafroditi rinchiusi in una Sola Gatta(buia).

Giriamo la notte a curiosare nei Trentadue Angoli di un Prisma Immaginario: a ogni angolo abbiamo dato il nome di un nostro Dente. Del Dente «canino», per es., perché quello è il Dente che sa addentare più degli altri. Gli altri Denti non fanno che aspettare a masticare la Preda che il Cane porta loro fino a domicilio. Perciò si dice che il Cane «apre la via» (alla Fame). E si dice che c’è il Cane Maggiore (Sirio, la Prostituta che addenta tutte le prede che le capitano a tiro) e il Cane Minore (Procione, il povero Humbaba ridotto al rango di Orco nella Foresta).
La notte, quando non abbiamo più nient’altro da miagolare tra di noi (tanto ci diciamo da cent’anni i soliti miao), allora in cerca di novità alziamo gli occhi al Cielo ed eccoli, li vediamo, i due Canini – della fila superiore (Procione) e di quella inferiore (Sirio). Allora la vediamo, la Bocca Aperta – la Mascella Spalancata. Sappiamo che è Vecchia, ma sappiamo anche che non è la più Vecchia delle Stelle a caccia di prede.
E ci domandiamo: qual è la Preda su cui questa vecchia Mascella si avventa, già pregustando i trentadue sapori dell’imminente sazietà?

Sirio-Procione-mascella

Orione! – ecco la Preda: il Cacciatore che finì per essere, lui, cacciato.
Il Predatore predato dalla sua stessa Fame. Lo Stregone stregato dai suoi stessi sortilegi. Il Parlante parlato dalle parole dei suoi stessi incantesimi.
Lui «crede» di masticarle, e non s’accorge d’essere lui la Preda del simbolismo delle parole che mastica, e soprattutto di quelle che dice in vista di qualcosa di «buono da mangiare».

Lo senti? dice: durante la mia assenza, se ti capita per caso d’incontrare la mia immagine tra i tuoi ricordi, ti prego – trattienila finché non torno a essere tutt’e due insieme gli Stivali della Gatta che fui prima di caricarmi la Volpe e le sue menzogne sulle spalle.
Io non sono Atlante. Io sono appena un «quarto di luna» spuntato il Settimo Giorno – quello del Signore della Parola.
Io sono solo un poeta sgrammaticato che sproloquia le subordinate di tempo e di luogo, senza però nessuna Principale.
Il Trono della Principale è vacante.
Al suo posto c’è appena un bidone di mondezza. Uno solo.
La Sintassi dei Simboli – ordinata dal Signore delle Frasi Umane.
Dal Nome del Padreterno Umano.
Dal Nome del dio della «loro» umana credulità.
Gli uomini «credono» talmente e soltanto a ciò che mangiano, che il loro dio non si vergognano d’immolarlo.
Mangialo pure! – dice il prete. – Ma mi raccomando, non masticarlo coi denti!

(Pavel Kutzko, Da che dente per dente fu Legge)