Dieterlen – Una concezione placentare dell’Universo

placenta

In Africa occidentale, numerose popolazioni hanno elaborato concezioni rigorose della funzione della placenta e fanno tuttora oggetto quest’organo di riti meticolosi.
Presso di loro «la creazione – ci dice Michel Cartry – è concepita assai più sul modello della riproduzione biologica che non su quello della creazione artigianale, il che spiega molto probabilmente gli sviluppi talora straordinari riguardo alla placenta che è dato trovare non solo presso i mande ma anche presso gli yoruba, gli ewe e i gourmantché».

Tra i dogon, finché una donna non ha espulso la placenta non si dice che ha partorito, non si dà la notizia al padre; si dice: «abbiamo avuto il bambino, non abbiamo ancora il suo fratellino».
Infatti, qui come in numerose altre società dell’Africa occidentale, la placenta è considerata il gemello del bambino. Quando essa è stata espulsa, il cordone ombelicale viene tagliato da una levatrice con un rasoio o un coltello. La placenta e l’annesso cordone ombelicale vengono successivamente deposti in un vaso che sarà poi sistemato nel cortile di famiglia sotto lo strame lasciato a imputridire. Il vaso è ricoperto da una pietra piatta, che viene assimilata alla palude del genitore dell’umanità, il Nommo.

Per la durata di sette settimane la puerpera effettua le abluzioni mattutine su questa pietra, lavandovi pure il neonato. Il fatto di lasciare la placenta nell’acqua della pozza per sette settimane – 7 è anche il numero assegnato alla moltiplicazione della Parola divina – e di abbandonarla sotto il letame esprime la volontà di mantenerla viva indefinitamente.
Dal momento che ha presieduto al mantenimento e alla crescita del feto per i nove mesi della gestazione, è infatti considerata «sempre viva, intangibile e non soggiacente a rischi di impurità».
«La placenta – dicono i dogon – è sempre pura», e questo anche dopo la nascita del bambino.

L’affermazione che sottolinea la sacralizzazione di quest’organo, non può essere intesa se non inquadrando il problema in funzione delle rappresentazioni di cui è oggetto.
dogon-segni-primordialiPer i dogon, ogni placenta è sulla terra il doppione della placenta del «grembo di Amma», in cui fu concepito l’universo. Ora, questa placenta, a detta dei dottori dogon, era doppia e le sue due parti era tenute collegate da Amma stesso.

Una figura fatta di due segni a V, uno dei quali è capovolto e posto al di sopra dell’altro, ricorda la formazione di questa doppia placenta. Essa è detta «Amma che forma due punte», che cioè sviluppa lo spazio del mondo.
Questo segno, che costituisce pure una delle rappresentazioni fondamentali della formazione del cielo e della terra, viene tracciato ritualmente sulla facciata della dimora e nel campo dove opera lo Hogon, capo religioso dei dogon al livello della tribù e garante della fecondità della terra.

Questa ripartizione prefigura anche i due elementi che vengono alla luce all’atto della nascita di un essere umano, cioè il bambino, i, e la placenta, me.
La doppia rappresentazione riguarda ciò che avviene biologicamente al momento della formazione del feto, cioè una divisione tra l’involucro, detto anche i guru, «nido del bambino», e la placenta.
Qui è più che mai evidente la relazione tra il piano biologico e il sistema cosmogonico.

L’idea si trova parimenti presso i geomanti gourmantché dell’Alto Volta, per i quali – ci dice Michel Cartry – «lo sviluppo di ciascun individuo dipende dalla natura del segno iscritto nella sostanza che lo teneva unito alla madre, come lo sviluppo della specie umana dipende dai segni iscritti nella placenta primordiale […] l’ontogenesi ripete qui la filogenesi».

In origine, dicono i dogon, era Amma, e riposava sul nulla. «L’uovo a palla di Amma» era chiuso, ma fatto di quattro parti, dette «clavicole», anch’esse ovoidali, unite come fossero saldate tra loro. Le quattro clavicole contenevano i germi dei quattro elementi (kize nay, «cose quattro»), acqua, aria, fuoco, terra; analogamente, le bisettrici ideali che le separavano, segnavano già le direzioni dei punti cardinali (sibe nay, «angoli quattro»), vale a dire lo spazio.
Così, elementi fondamentali e futuro spazio erano presenti nella morfologia dell’«uovo» primordiale, sotto forma di segni.

I dogon rappresentano l’uovo di Amma sotto forma di una tavola oblunga ricoperta di segni, detta «ventre di tutti i segni del mondo», il cui centro è l’ombelico.
L’uovo era diviso in quattro settori, ciascuno dei quali conteneva otto figure, le quali ne produssero ancora otto. L’ovale ne conteneva dunque 8 x 8 x 4, cioè 256 cui se ne aggiungevano 8 (2 per semiasse) più 2 per il centro. Il totale era dunque di 266 «segni di Amma».

dogon-segniCosì Amma aveva inciso sulle pareti della propria stessa placenta i segni dell’universo prima ancora di crearlo. Questi segni, nel numero teorico di 266, corrispondono esattamente al numero di giorni cui assommano i nove mesi richiesti dalla gestazione degli esseri umani.
Materia cosmica, materia creatrice per eccellenza, proprio questa placenta iniziale fu la sostanza in cui Amma fece germogliare i semi che dovevano essere sistemati nelle clavicole dei primi gemelli e divenirne il supporto dei princìpi spirituali. Tali gemelli erano ancora, in questo stadio, dei pesci – per l’esattezza dei siluri – assimilati ai feti umani immersi nel liquido amniotico e legati alle rispettive placente.

Conosciamo d’altra parte gli sviluppi vertiginosi del mito riguardante la rottura di questa membrana. Ogo, uno dei gemelli maschi, pur non avendo ancora raggiunto il pieno sviluppo, uscì bruscamente strappando un pezzo della propria placenta e, servendosene come di un supporto, discese nell’oscurità e nel vuoto iniziale.
Il sovvertimento avvenuto nella placenta primordiale fu determinante per la storia dell’umanità. Amma, che non voleva più reintegrare in un nuovo universo la placenta sottratta da Ogo – e divenuta impura – decise di rigenerare il resto della placenta. Per questo evirò e successivamente sacrificò uno dei fratelli gemelli di Ogo, che era ancora in gestazione sotto forma di pesce. Avendo in seguito rimesso insieme il corpo smembrato di quest’ultimo, lo plasmò a forma di uomo con la terra della sua stessa placenta e lo risuscitò servendosi della linfa di un albero purissimo.

L’immagine di un’umanità in formazione nella placenta dell’universo rigenerato si ritrova in numerosi rituali dogon. Nella notte che precede le cerimonie sessantennali del Sigui – cerimonie il cui scopo principale è commemorare la rivelazione della Parola agli uomini – tutti i partecipanti maschi si ritirano e vanno a rintanarsi in una caverna isolata, dove non toccano più né cibo né bevanda. Questo digiuno ha per essi un significato positivo.
«Da quando in qua – dicono – si ha necessità di bere o di mangiare quando ci si trova nel grembo materno?».

Il mattino dell’inizio della cerimonia viene loro rasata la testa, atto che li assimila ai neonati. Indossano poi il costume tradizionale del Sigui, e l’abbigliamento è tale da farli assomigliare a pesci: una cuffia bianca, che rappresenta la testa del siluro, e ampi pantaloni neri stretti alle caviglie, che rappresentano la sua coda bifida, mentre il colore ricorda il liquido amniotico; sul petto, una specie di cinturone ornato di cauri, che sono come le uova del pesce, eccetera.
dogon-Sigui-cuffieNella mano sinistra terranno un bastone-sedile, simbolo del sesso del Nommo, mitico progenitore dell’umanità, e una mezza zucca, che servirà per bere la birra del Sigui: questo recipiente è l’immagine del «grembo di Amma» in cui la gestazione dell’universo si è svolta come in un utero.

L’immagine dell’umanità in formazione nella sua placenta, presente già durante la vita nei riti di procreazione, lo è anche nei riti funebri, durante i quali il defunto procede nel suo destino.
La bocca del morto viene ricoperta da un bavaglio che simboleggia i barbigli del pesce; il suo capo da una fascia bianca che circonda la calotta cranica e forma la parte alta della testa del pesce, eccetera.

Tutte le danze rituali che donne e ragazze eseguono durante i funerali, ricordano, per via dei movimenti morbidi delle braccia e delle mani protese in avanti, il nuoto del pesce.
L’assimilazione prosegue, in quanto si dice che il defunto, il quale conserva sempre i propri princìpi spirituali (vale a dire i propri elementi di base) fino all’aldilà, è come un «pesce del cielo».

Se non tutte le popolazioni del Mande hanno sempre elaborato miti che riferiscano in forma esplicita quella che potremmo chiamare la storia della formazione placentare dell’umanità, resta comunque il fatto che questa traspare spesso in numerose regioni dell’Africa occidentale.
A ciò rimanda, per esempio, l’esistenza di un sistema complesso di segni grafici che servono all’elaborazione dei noti altari portatili, fondamento delle grandi società di iniziazione dei Bambara.

Così le società del Komo, del Kore e del Nya possiedono ciascuna 266 altari (boliw) che si rifanno a un sistema di 266 segni incisi su una tavoletta.
Anche qui, come presso i Dogon, i 266 altari detti pure «segni della creazione dell’universo» corrispondono al numero dei giorni cui assommano i nove mesi della gestazione degli esseri umani.
Parallelamente, sul piano della collettività, i 266 segni sono presenti nella struttura della società del Komo in riferimento al numero delle classi di iniziazione. Le 33 classi del Komo radunano 33 x 2 x 4, cioè 264 categorie che corrispondono a 264 dei segni fondamentali, mentre i primi due segni sono rappresentati dal capo del Komo, che è la testa, e dal danzatore mascherato che è alla base dell’istituzione. Ciascuna di queste classi ha un nome segreto e rimanda a un nome di Dio o a una delle 266 categorie della creazione del mondo.

Secondo un’antica tradizione, ogni altare è l’immagine simbolica della placenta dell’essere o dell’oggetto di cui è il testimone.
Testimoni della vita degli esseri concepiti da Dio in cielo e prefigurati dai segni, i boliw sono considerati i supporti della loro perpetuità; ne garantiscono il perdurare, rinsaldati e incrementati regolarmente dai sacrifici di mantenimento che vengono loro rivolti.

Illuminante a questo proposito è un racconto mitico che narra l’origine di uno dei più antichi boliw del regno bambara di Segou, il makôge ba, considerato la placenta dell’antilope ippotrago: «il fabbro mitico cacciando aveva ucciso un ippotrago maschio, e la femmina, che era prossima a partorire, lo implorò di risparmiarla, cosa che egli fece. Essa partorì ed espulse in seguito la placenta del suo piccolo, che dedicò all’artefice. Questi la consacrò come altare».
Qui, come altrove in parecchie società d’iniziazione bambara, malinke e minyanka, la placenta di un’antilope viene offerta nel mito come dimostrazione tangibile e commovente della purezza divina.

(Germaine Dieterlen, Voce: Placenta, in Dizionario delle mitologie e delle religioni)