L’Allogeno e la sua stirpe costituiscono una divina aristocrazia estranea a questo nostro mondo.
Voce dell’aldilà o del «di fuori», la Rivelazione portata da Seth, e più tardi da Cristo, «Seth redivivo», insegna ad alcuni «spirituali» – che la scintilla di Luce da loro posseduta rende estranei alla condizione umana in cui li ha momentaneamente inabissati un decadimento – il dio Ignoto e Straniero, Dio di Verità, di Bontà e di Libertà distinto dal dio Creatore e Giudice dell’Universo, dal dio del Mondo e della Legge che viene assimilato al settimo pianeta e al dio degli Ebrei […]
Secondo un tema leggendario Seth sarebbe stato rapito in cielo dalla Potenza Superiore (la Madre) e dagli angeli del Dio Buono. Là gli sarebbero stati svelati i misteri del Pleroma, la trascendenza del Dio Supremo e l’inferiorità del Demiurgo, che egli rivela al suo ritorno in questo mondo […]
Seth è l’Allogeno per eccellenza, e i suoi sette figli sono anch’essi «stranieri», al pari degli spirituali, «pneumatici», i membri della setta che si consideravano discendenti di Seth […]
Per quanto inizialmente vi sia apparente identità fra il linguaggio della Gnosi e quello dell’esistenzialismo moderno, l’impressione di «essere gettato nel mondo» non corrisponde al disvelamento di un «essere per il mondo», ma all’opposto, lungi dall’instaurare fra l’io e il mondo una connessione indissolubile, dall’orientare l’io sul mondo, dall’aprirlo a esso, e a esso soltanto, la rivelazione della propria esistenza quale è data allo gnostico … porta a distinguere e a separare come due termini antitetici il mondo e l’io, a renderli indipendenti l’uno dall’altro, e a indurre l’io a distaccarsi dal mondo […]
In altri termini, qui non è rivelato «l’essere per il mondo», ma un essere che, pur essendo nel mondo, non è del mondo, un essere che non vuole appartenere al mondo ed esistere in vista e in funzione di esso, a contatto con esso e dentro di esso, e che a causa dell’insoddisfazione, del disagio o della sofferenza che vi prova, si sentirà sempre più estraneo ad esso e alla fine si concepirà come tale: indipendente dal mondo e contro di esso, senza di esso e in opposizione a esso […]
Questa riflessione andrà accentuandosi e approfondendosi, si concluderà con una rottura e approderà alla scoperta dell’essere fuori dal mondo quale condizione del «salvato» […]
Lo gnostico si rifiuta al mondo fin da subito. La sua prima reazione è di non avere fiducia, di diffidare di un mondo che gli ripugna e gli sembra cattivo. Egli non cerca di situarsi in esso e rispetto a esso, ma fuori di esso e differenziandosene. Gli rifiuta il proprio accordo, rifiuta qualsiasi accordo con esso.
In una parola, fin dal momento in cui prende coscienza di se stesso lo gnostico si rifiuta di accettare il mondo, così come si rifiuta – e perché si rifiuta – di accettare la propria situazione, la propria condizione personale, la propria esistenza nel mondo. Per forza di cose e suo malgrado, egli si trova immerso nel mondo, ma non vi si impegna, non si impegna con esso. Il suo comportamento spirituale consiste anzitutto in un disimpegno, non in un «impegno» […]
Il mondo appare «altro» allo gnostico. Se mi sembra di vivere in qualcosa d’altro, se la mia esistenza mi appare «altra» da ciò che dovrebbe o potrebbe essere, l’impressione di disparità si trasformerà e si rafforzerà in quella di stranezza e alla fine di incoerenza, di sostanziale inadeguatezza […]
Ciò in cui vivo è qualcosa d’altro. Dunque, altro rispetto a me, altro da me […]
E io stesso sono altro dal mondo. La sua presenza, percepita come strana, mi apparirà estranea. Il mondo mi diventerà «estraneo», giungerò alla convinzione che esso mi è «estraneo» allo stesso modo in cui io sono «estraneo» ad esso.
Per spiegare questa strana situazione di estraneo in un mondo estraneo, vengono a sostegno le costruzioni dogmatiche che lo gnostico erigerà a mito destinato a definirgli insieme la sua origine e la sua natura, il suo essere vero: fatto certo da esse, o rendendosi certo per loro tramite, che il suo essere ha la propria origine e il suo luogo proprio al di là del corpo, del tempo e del mondo, che per essenza e per diritto di nascita egli è superiore al corpo, al tempo, al mondo, affermerà allora di essere in se stesso e in realtà di natura totalmente, radicalmente altra dalla loro […]
L’io si sentiva inizialmente diverso dal mondo: ecco che, alla fine, la distinzione delineatasi tra l’uno e l’altro è diventata scissione, anzi opposizione che mette di fronte e in conflitto due realtà naturalmente, sostanzialmente contraddittorie. La differenziazione, nata da un’impressione affettiva, approda alla costituzione e alla separazione di due esseri o di due ordini, di due modalità di essere che se di fatto coesistono, sono di diritto incompatibili. La differenza tra «io» e mondo non è più di ordine sentimentale, ma di ordine ontologico; non è più di grado o di qualità, ma di essenza: essa è oggettivamente realizzata […]
Di qui i sensi successivi, le diverse sfumature che assume nel linguaggio degli gnostici il termine, costante e quasi tecnico, di «altro» o di «estraneo», «straniero». Parola chiave, che corrisponde insieme a un sentimento e a una nozione.
In molti casi è «estraneo» o «straniero» quel che è anche percepito come «strano», fonte di stupore, «nuovo», radicalmente trascendente, totalmente diverso dal mondo, ciò la cui presenza è «numinosa» e insieme prodigiosa […]
L’io inteso nella sua essenza è originario dell’Aldilà, in quanto proviene da un luogo diverso dal mondo, in quanto la sua «patria», il suo luogo vero, l’origine del suo essere e il suo stesso essere autentico sono al di là del «cosmo»; la «razza» degli Eletti, dei Pneumatici, degli Incrollabili, nonché la «chiamata», la «voce» del Salvatore o Messaggero vengono da oltre il mondo[ …]
Ancora nella preghiera catara la menzione del «mondo del dio straniero» è seguita dalla spiegazione: «perché noi non siamo del mondo, e il mondo non è in noi» […]
Il lamento esprime una nostalgia, presuppone il rimpianto di una patria lontana, più o meno vagamente situata in un luogo fuori dal mondo, nonché il presentimento di non essere originariamente appartenuto o di non appartenere per natura a un mondo in cui l’esistenza ha il carattere di un esilio.
Ancora un passo e lo gnostico, giunto alla convinzione di non avere normalmente e in sé nulla da spartire col mondo, andrà fiero di sapersi straniero ad esso, trarrà motivo di gioia e di orgoglio da questo titolo di «straniero» che, come quello di «figlio di re» o «dei re» cui spesso è unito, autentica il suo essere e la nobiltà delle sue origini. Anzi, egli riterrà indispensabile avere costantemente presente tale qualità di «straniero» e pericoloso smarrirne la memoria o tentare di cancellarla familiarizzandosi col «mondo» e assimilandosi a esso, cose che equivarrebbe a obliare se stesso e la sua vera natura, a privarsi di qualsiasi possibilità di salvezza.
Tutto ciò è messo in luce particolarmente bene nel «Canto della perla» degli Atti di Tomaso […]
Infine, lo gnostico apprende o sa, conosce o riconosce che, pur essendo al mondo, nel mondo, egli non è del mondo, non gli appartiene, ma viene da altrove, è di altrove.
(Puech, Sulle tracce della Gnosi)