Perché nei tuoi sermoni non s’ode né voce né parola?
Voce e parola son la legge della vostra città …
provengono dalla provincia di Ignoranza,
da sempre sono estranee al vertice di Conoscenza
(Sanâ’î)
Che lingua è mai questa, che non è fatta di suoni e di parole? una lingua inudibile? una lingua inaudita?
Muto linguaggio che non esce mai dal silenzio. È di là che vengono le parole dei poeti? di là le locuzioni teopatiche e gli oracoli sibillini? di là gli indovinelli della nostra Sfinge?
Le parole dei poeti, di quelli che all’incirca si confondono coi «veggenti» a dire di Rimbaud, non hanno un «genere» che non sia il «naturale» ermafroditismo che tiene in vita, sempre più faticosamente, i loro, e se va bene, anche i nostri più geniali sottintesi e quiproquo.
Tu domanda allora: non di che genere (maschile o femminile), ma di che sesso sono le parole dei poeti?
Perché, se esse vengono, non possono venire che dalla «congiunzione» di due, non possono che uscire da una camera nuziale.
Solo quando due si accoppiano, solo a questa condizione può darsi che al «gesto» succedano anche le parole.
Le parole hanno sempre un Padre e una Madre, solo il poeta è orfano, celibe e perciò condannato a parlare parole di rivolta contro chi le ha messe al mondo.
Di questo crimine crudele si macchiano le parole. Quelle più fedeli al Significato che significano, sono perciò le più ostili a prendere coscienza della propria criminalità.
Del crimine d’essersi disgiunte dal Silenzio, per avventurarsi alla ricerca della Sposa o della Madre o della Figlia che hanno perduto in illo tempore.
Le parole sono figlie, a volte, solo di Madre o, il caso è più frequente, solo di Padre. Ed eccole a segnarsi nel nome del Padre, o viceversa nel misterioso venire al mondo di un figlio di Madre Vergine, quando non della Vedova più Nera – quella che andò bruciata sul rogo della prima insurrezione celeste.
Perciò, per non rischiare di bruciarle arrosto, le parole è meglio cuocerle a fuoco lento. Parlare senza dover rigurgitare le proprie bestemmie, richiede molta, molta pazienza!
Nel fare un passo indietro, riandiamo dunque a una nota strana del Convivio.
Dante sta disquisendo di Angeli (abbozzo di quella dottrina delle «forme angeliche» che, lievemente modificata, ricomparirà negli ultimi canti della Commedia, alla frontiera tra il cielo cristallino e l’Empireo).
La nota strana è insinuata, più o meno, all’incipit del capo 6.
Nel trattare dei «movitori del cielo di Venere», Dante ritornando sui primi versi di O voi che intendendo lo terzo cielo movete, udite il ragionare … aggiunge:
Non dico udite perch’elli odano alcuno suono, ch’elli [gli Angeli] non hanno senso, ma dico udite, cioè con quello udire ch’elli hanno ch’è intendere per intelletto
(Convivio, 2: 6.4)
Angelico intendere per intelletto, senza suoni: perché il «ragionare» di cui il Poeta parla è nel core, è lingua del cuore non della bocca, è lingua le cui «parole» sono scandite dalle pulsazioni del sangue che va su e giù nel rimescolio di atri e ventricoli. Parole che ci «agiscono» nei flussi e riflussi che ci nuotano dentro. Esse non hanno bisogno di essere dette. Parlano da sé. Almeno tra gli Angeli deve essere così. Sennò …
L’appello del Poeta è dunque: ascoltatemi, Angeli d’amore, voi che udite il non detto, datemi ascolto. Nel cielo di Venere, voi che «intendendo» lo agitate nell’orbita d’Amore, voi «udite» le onde mute dei desideri in cui naufraga il mio cuore quando sragionando «ragiona» sotto le parole.
Tutto il «poetico» è sottinteso per intelletto. È nascosto sotto la lettera, negli abissi inconsci del testo che il poeta riesce a mettere a verbale. Perciò Dante ammonisce: qui «lo core si prende per lo secreto dentro, e non per altra spezial parte de l’anima e del corpo».
Quando si dice «cuore», quando si fantastica la cosiddetta «scienza del cuore», il Poeta ammonisce a non «incarnare» la parola – perché la parola non ha un corpo che non sia quello dell’incorporea voce su cui si tiene a galla.
Le parole sono «onde». Se non è chiaro, lo dico in greco: le parole sono chymai (κύμαι). Esse «schiumano» dalla bocca. Se non basta, lo traduco in latino: le parole sono Cumae. Provengono dall’antro della Sibilla cumana. Capisci?
Dall’ondeggiante insipienza barbarica di certi «gesti» sibillini che inducono alla loro «ermeneutica». Gesti che parlano da sé, e tuttavia – a volte – certi suoni li accompagnano.
Se li porti via da Cuma, se quei suoni li trasporti nell’illusione di Sophia, nel miraggio che essi possano bastare a farle conoscere Se Stessa, nella criminale verginità che, quei suoni, li «separa» dal gesto di chi li ispira (ecco chi è che manca nella «camera nuziale»), allora hai i vocaboli, hai i nomi e i cognomi dell’anagrafe prosaica che ci passiamo nel Passaparola dei «si dice».
Il dio non ci parla nelle nostre «categorie linguistiche», dice il cabalista. La nostra Guida interiore non produce né suoni né parole, postilla il poeta persiano. Lui che, come Dante, viaggia alla volta del Ritorno a Se Stesso. Lui, il fuggitivo che non ha più rifugio che nel ritornello muto da cui fu partorita la prima strofa del suo primo salmo.
Perciò forse i poeti, i più disperati di trovare Poesia, s’inventarono l’alibi di una «lingua del cuore». Solo per insubordinazione delle subordinate linguistiche a cui dovevano sottostare, per giungere a dire quel «niente» o, meglio, quel «Nessuno» primitivo che «udì» (ricordi Rilke? il tempio è nell’udito!) il Silenzio, e che lo «intese per intelletto».
A volo, senza nessuno che glielo spiegasse.
Prima che qualcuno glielo traducesse a parole.
La dura Regola del gioco, in Cina dicono che la detta l’Augusto di giada.
Se a tutti impone il suo diktat, dicono che in particolare al poeta, e solo a lui, impone di saper parlare una lingua speciale: una lingua fatta di parole «sessuate», e poi abbandonate al loro destino «verbale», alla loro fuggiasca verbosità ad allontanarsi sempre più dal dio che le insinuò nella bocca d’una Sibilla, o forse nel sibilo d’un Serpente tentatore.
Perché vi fecondassero, c’è da credere, la passione per l’avventura, il desiderio di avvenire nel topos per eccellenza dell’ermafroditismo, nel Talamo nuziale da cui Narciso fugge a polarizzarsi in una identità di genere.
Il guaio è che, delle antiche lingue poetiche, le nostre hanno perso il numero «duale» e, in quanto ai generi, si sono quasi tutte ridotte solo al maschile e al femminile. Qualcuna, è vero, conserva ancora il neutro: un terzo genere, deducibile solo dal fatto che non è né l’uno, né l’altra. Né Maschio né Femmina. Né carne né pesce. Nessuna ha memoria di un genere, ammesso e non concesso che sia mai stato parlato un genere «speciale» (come dice Dante), che fosse «e Maschio e Femmina». Le Lingue hanno preferito trattarlo come uno sgorbio naturale. Non hanno mai dato spazio a una sintassi ermafrodisiaca.
Ecco perché al poeta toccano parole che «rimpiangono» il gesto Muto che le suscitò. A volte, addirittura, il Gesto che non ci fu. Il Gesto che fu sempre sottinteso, a dispetto di qualunque mito dell’incarnazione che l’abbia cancellato dalle nostre grammatiche.
Dobbiamo essere così fessi da pensare che Dante abbia letteralmente parlato agli Spiriti ardenti di desiderio del Terzo Cielo? O non è materia sufficiente a chiamare il dottore?
Qui si aggira un cane randagio. Chiamate, semmai, il veterinario! qui c’è un tale che dice di «fiutare» la presenza di una Guida che gli sta accanto.
Dice di parlare agli Angeli. Dice che, dagli Angeli, vuole essere «udito». Che, se essi lo sentono, allora vuol dire che il Talamo non è andato distrutto. Che tutt’e due i generi hanno ancora un posto dove potersi angelicamente «sposare».
Per intelletto.