Ovidio – Il rammarico della Sibilla

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Non sono una dea – disse la Sibilla – e tu non degnare un essere umano, non profumargli il capo di sacro incenso. Perché ignaro tu non prenda un abbaglio, sappi che di luce eterna e senza fine avrei goduto, se la mia verginità si fosse aperta all’amore di Febo.
Lui ci sperava e, cercando di corrompermi con doni, mi diceva: «Scegli, o vergine di Cuma, quel che ti pare, e l’avrai».

Raccolto un mucchietto di polvere e mostrandoglielo, chiesi che, quanti granelli di polvere c’erano in quella manciata, tanti anni di vita mi fossero accordati; mi scordai però di chiedere che fossero anche anni di gioventù. Di certo, mi avrebbe concesso anche questo, una giovinezza perenne, se avessi aperto le cosce.

E invece, disprezzata l’offerta di Febo, vergine son rimasta; ma ormai l’età più felice ha voltato le spalle, e con passo tremante avanza la penosa vecchiaia, che a lungo dovrò sopportare. Già lo vedi, infatti, che sono vissuta sette secoli: per raggiungere il numero dei granelli di polvere, mi restano trecento raccolti e trecento vendemmie da vedere.

E verrà un giorno che la lunga esistenza mi farà così piccina, da grande che ero, che il mio corpo consunto dalla vecchiaia si ridurrà a un esile fuscello. E non sembrerà possibile che io sia stata amata o che sia piaciuta a un dio; forse perfino Febo non mi riconoscerà o negherà d’avermi desiderata.
E muterò ancora fino a diventare invisibile a tutti; e tuttavia, dalla voce sarò riconosciuta. La voce, solo quella, il destino me la lascerà.

(Ovidio, Metamorfosi, 14: 130-153)