Parola di Sibilla, parola sibillina. Ambiguità ineludibile. La Sibilla parla «simboli», parla «parole». Non è Lei la sola a essere ambigua. È semmai la sola a sottolineare, in ogni occasione, l’ambiguità che è in tutte le parole.
Ora, a detta di Ovidio, a chi le attribuisce onori divini, la Sibilla dice: «non sono una dea, fammi il favore di non ricordarmi la fesseria che ho fatto rifiutandomi all’amore di un dio».
E questo è il primo paradosso: che per sentirla, tu debba invocarla come dea, ma quando poi, finalmente, essa ti parla, la Sibilla dice di non essere dea, di non esserlo perché ha detto la parola sbagliata. La parola abbagliata dal mito della verginità.
Insomma, ti sta dicendo: io non io, io parola enunciata, io sentenza oracolare sono, e perciò non io sono la vergine, ma Colei che mi parla. È Lei che mi ha sacrificato, e che ancora mi sacrifica, alla sua illibata verginità. È Lei che, anziché darsi in silenzio al dio che la desidera, sta qui a dire «io», e mi costringe in sua vece a chiacchierare del «suo» rimpianto.
Ad Apollo che mi amava e che mi faceva doni, io chiusi il mio grembo e non lo lasciai entrare. Ecco perché non godo di luce eterna infinita, e sono qui – in questa caverna di Cuma – a rimpiangere tutte le volte che rifiutai gli approcci del dio, tutti i pretesti e le scuse che accampai per non darmi a lui.
Sono ancora vergine, è vero. Ma tu che nella vergine credi di vedere una dea, tu che m’interroghi, sappi che nessuna vergine si deifica, se la sua verginità non s’apre, se non si lascia penetrare dal desiderio di un dio vergine, qual è Febo Apollo: pura luce ma anche puro terrore del «coniuge» illuminato.
D’altronde, chi può comprendere la verginità senza violarla? chi può esaltarla senza vincere la paura di umiliarla?
La Sibilla, di fatto, non è che una delle tante vergini che «fanno gola» ad Apollo. Anzi, poiché nulla è casuale nelle Metamorfosi, è da supporre che Ovidio la menzionasse come l’anti-tipo di Coronide. Come l’altra «cornacchia», amata da Apollo. L’altro «uccello di malaugurio» caduto nella rete dei suoi divini, quanto letali, innamoramenti.
La Sibilla, a ben vedere, è tra le «vittime» della seduzione di Apollo, la sola ad avere il privilegio di una metamorfosi «lenta», nientemeno millenaria. Tutte le altre amate, sotto gli strali della divina vendetta, si tramutano all’istante: chi si fa stella e ascende in cielo, chi si radica ancor più nella terra, e diventa ora pianta, ora fiore. Le altre restano visibili, queste la notte, quelle in pieno giorno. Solo la Sibilla avrà l’«onore» di trasmutarsi sì, ma senza diventare altra da quella che è. L’onore di essere ridotta a essere, nel giro di mille anni, solo la sua propria voce. Le altre sono ammutolite, lei sola avrà diritto alla parola. Le altre godranno della luce e dei colori; lei sola, reclusa sin d’ora nel buio d’una caverna, attenderà di diventare del tutto invisibile.
Ancora una volta, Ovidio insiste a riproporci il suo Teorema teatrale: se sulla scena c’è Apollo e, a lui di fronte, una Vergine, è impossibile qualunque «lieto fine». Non c’è luogo a procedere che per una tragedia, o se preferite per un «romanzo criminale». Criminale però non è la perdita della verginità. Questo ci ripete più volte Ovidio: che di criminale c’è in tutte le storie di vergini solo la fedeltà! che la fedeltà, ora al dio come nel caso di Corvo, ora alla verginità come nel caso della Sibilla, non solo non è una via a dio, ma addirittura è la via che dal dio, dal dio che ama, più allontana i «fedeli».
Là l’Amata, Coronide, era infedele al dio. Era il Corvo a rimanergli fedele, e dunque a prendersi le conseguenze (le piume nere) del suo gesto «criminale». Qui l’Amata, la Sibilla, è fedele alla sua verginità, e dunque a differenza di Coronide non «tradisce» il dio con un altro, ma neanche gli si concede. Dovrà perciò pur essa espiare la sua «colpa». Dovrà «oscurarsi» al mondo, diverrà invisibile, ma in compenso la sua voce continuerà a essere ispirata dal dio «profetico». Continuerà a essere invasata dal dio a cui si negò. Non gracchierà come quella del Corvo. Sarà una voce vagamente umana. Una voce umana vagante nella nostalgia e nel rimpianto del Remoto, del Lontano e del Rimosso, e solo a questa condizione capace di «indovinare» un Futuro.
La verginità si nutre di rimpianti, e non di gioie. E là dove non ci sono gioie, non c’è neanche nessun dio a farci compagnia. Dice Ovidio.
Aprirsi a dio, lo capisce tardivamente la Sibilla, è sacrificarsi al suo desiderio, è non mancare alla sua seduzione, è assecondarlo: perché solo chi al proprio dio è «secondo», e non prova a scippargli il diritto di primogenitura, seguendolo imbocca la via a quella «giovinezza perenne» che alla Sibilla fu offerta in dono, ma che virginea mente lei si lasciò sfuggire.
Dice «eterna giovinezza» e intende quel fiore che non sfiorisce, intende l’infanzia interminabile, lo sterminato, il vasto, e mai devastato, paese di cuccagna. Intende la città dei balocchi, il teatro delle marionette immaginarie. Intende la Festa, lo spasso, l’allegria e l’incoscienza. Intende tutto ciò che ha «perduto» per restare insensatamente fedele al suo crudele destino di doversi ridurre a essere solo una «voce».
A non essere che la «radice», essa sì vergine, di tutto ciò che quella «voce» dice dalla sua bocca prostituita alla parola e al codice simbolico. Solo voce. Voce senza (più) un corpo. Significante senza (più) un significato.
Ma c’è anche questo. C’è che il j’accuse della Sibilla alla verginità a noi viene da una terra, Cuma, non distante da quell’altra terra, Napoli, la cui mitica fondatrice, Partenope, la verginità la sbandiera finanche nel nome, il cui senso è all’incirca quello di «Vergine a vedersi», o «epifania della Vergine». Sua «apparizione».
Come a dire che il j’accuse della Sibilla doveva suonare due volte eretico in quanto pronunciato in un’«area linguistica» in cui, a quanto pare, il culto della Vergine doveva essere così diffuso da autorizzare i «clienti» della Sibilla a chiamarla dea, solo perché vergine. A «vedere» per sbaglio la dea in ogni vergine.
Il Teorema di Ovidio mette in scena il «cammino» di questa doppia eresia. Spostandola da Coronide alla Sibilla, la «verginità», ora perduta, ora invece serbata, gli serve solo per tracciare una via, lungo la quale portare in processione tutte le sue «fallimentari» epifanie. Fallimentari, perché tutte, direttamente o indirettamente, mettono sotto processo il solito crimine: la «fedeltà».
Sta a noi tentare di ridisegnarla, quella via. A noi sarà difficile, ma c’è da scommettere che non era così per un partenopeo di allora. Un devoto di Partenope, di Colei che, come Coronide, non esita a cedere la sua verginità al primo Posillipo che incontra, la via ce l’aveva «in casa». La via, lui la percorreva ogni volta che andava da Napoli a Cuma, e viceversa. La percorreva a dritto e a rovescio, andata e ritorno.
A lui no, non era difficile prendere dimestichezza con quella curiosa proporzione per cui Cuma stava a Napoli, come la Sibilla a Partenope:
(Cuma : Napoli) = (Sibilla : Partenope)
Perché la verginità «procede» passando da un luogo all’altro delle sue epifanie, e insieme permutandosi dalla Vergine che a Cuma è sterile e si rammarica della propria verginità, a Colei che a Napoli è feconda e partorisce un popolo che continua a immaginarla e addirittura a «vederla» Vergine. A vederla e rivederla apparire Vergine, a dispetto della sua manifesta «infedeltà».
Lungo la via, la «verginità» trasloca dalla bocca di Partenope alla vagina della Sibilla. Il che è come dire che la bocca della Sibilla sta a Cuma, nello stesso rapporto che la vagina di Partenope intrattiene con tutto il popolo napoletano.
Perché, sarà bene ricordarlo, c’è la verginità della bocca, non solo quella che riposa nei nostri genitali.
Immacolata fu la vagina della Sibilla, e pervertita invece le fu la parola in bocca. Tacque dal canto suo Partenope, non si concesse alle lusinghe della parola, e perciò si lasciò fecondare da tutte le immaginazioni.
Da Cuma a Napoli, dal Super-io all’ideale dell’io.
Forse è un azzardo, ma provo a riscrivere l’antica proporzione in lingua lacaniana:
(Super-io : ideale dell’io) = (costrizione : esaltazione)
La «vagina» costretta [alla verginità] e quella esaltata [nella fecondità], la Sibilla e Partenope. Ma egualmente: la «bocca» aperta [all’ambiguità della parola] e quella chiusa [nel recinto dell’immaginario].
Per venire a capo dell’enigma della Vergine, i napoletani avevano dunque tracciato un sentiero da percorrere in entrambi i sensi del Teorema ovidiano. E come se non bastasse, all’un capo e all’altro dello stesso «virgineo» cammino, ciò che li aspettava era in entrambe le direzioni un «doppio senso».
A Cuma il doppio senso del Super-io nel registro suo proprio, che è quello del Simbolo e della Parola: a Cuma, dunque, l’Ambiguità dell’Oracolo. A Napoli invece il doppio senso dell’ideale dell’io nell’altro registro, che è di sua pertinenza: quello della Visione e del Miraggio (doppio, in quanto sovrascrive sempre dei «fiori» a un «vaso»).
Il Super-io è un imperativo, scrive Lacan.
Emette «ordini», fonda una Legge, ma insieme «bisogna anche sottolineare, dal lato opposto, il suo carattere insensato, cieco, di puro imperativo, di semplice tirannia».
Enuncia «sentenze oracolari»: le dice e insieme le disdice. La Sibilla, come il Super-io, «è contemporaneamente la legge e la sua distruzione».
In questo è la parola stessa, il comandamento della legge nella misura in cui non resta altro che la radice. La legge si riduce interamente a qualche cosa che non si può neppure esprimere come il Tu devi, che è una parola priva di ogni senso.
In questo senso il Super-io finisce per identificarsi esclusivamente a quel che vi è di più devastante, di più affascinante nelle esperienze primitive del soggetto.
Finisce per identificarsi a quel che chiamo la faccia feroce, alle figure che possiamo legare ai traumi primari, qualsiasi essi siano, che il bambino ha subito.
(Lacan, Il Seminario, 1)
A Napoli, è tutta un’altra musica. Alla «faccia feroce» della Vecchia Strega che vive nel chiuso della caverna, Partenope oppone la bellezza che espone pubblicamente, senza veli, all’aperto.
È troppo bella, Partenope per non esaltare chi ha la fortuna d’avvistarla. È troppo eccitante l’ideale dell’io per non aprire valvole e sfinteri al suo «ideatore».
Partenope è Vergine, in quanto ignara di ogni simbolismo. Ignara di ogni segno che non sia funzione della sua immaginazione creatrice, Partenope feconda e si lascia fecondare senza la mediazione della parola.
A Napoli non parlano le parole, ma i gesti: parlano le mani, parlano gli occhi, parla la mimica del corpo «eccitato».
Dov’è dunque possibile che proprio in tanta eccitazione e seduzione di corpi sia stato coltivato il mito della Vergine?
Non a Napoli, né a Cuma. Ma nella «via stretta» che ogni bambino percorre dalla sua topologia immaginaria al Simbolo. E che ogni vecchio ripercorre a ritroso, dalla Cuma, letteralmente dalle «onde», del suo ambiguo simbolismo verbale alla Napoli della sua immaginazione infantile.
La Verginità non è «di stanza» né a Cuma né a Napoli. È solo un’illusione venuta in mente a certi viandanti mentre coprivano la «distanza» dall’uno all’altro capo del loro mondo «linguistico».