Dove si pratica lo «sciamanesimo»?
Nelle nostre scuole di pensiero etnologico.
Dov’è storicamente accertata l’esistenza d’un totemismo all’altezza dei tabù che produce?
Nelle brache dei nostri professori universitari, all’incirca dove s’annida pure l’isterismo, il Grande Isterismo: nell’inguinitudine che essi s’ostinano a negare alla radice dei loro tormenti «intellettuali».
Quando l’etnologo incontra il «primitivo»: è più o meno la stessa cosa di un maschio che incontra una femmina, e lui che fa? pensa di essere alle prese col Femminile! E con una bella faccia tosta dà per scontato di sapersi districare nei meandri di cotale Labirinto, in cui s’è cacciato lui stesso «ideando» al di là di quest’individuo che incontra, il Primitivo – oltre questa femmina qui che ha di fronte, il Femminile più o meno Eterno. Solo (lui pensa), ci vuole un po’ di pazienza, ma riuscirò a sbrogliarla, questa complicata matassa.
Pazienza, però, vorrebbe che uno non si mettesse a sputare sentenze, a stilare diagnosi, a suggerire sistemi cosmici dopo una sommaria occhiata all’oggetto (ho detto «oggetto») delle sue «esplorazioni cognitive».
Uno incontra lo «sconosciuto»: sono millenni che l’Occidentale e il Primitivo non si frequentano. Più o meno, da quando il Maschio e la Femmina più non si concedono all’ermafroditismo dei loro istinti. E i professori alla promiscuità degli incontri occasionali con gli «oggetti» che incuriosiscono i loro esercizi di «ideazione».
Millenni? O è così da sempre? Da sempre, e per natura, che i sessi, e come i sessi, tutti gli sconosciuti si debbano curiosare l’uno nei segreti dell’Altra? il «minuscolo» nella foresta di cedri della «grande A, l’Altra, la vera A»? o, viceversa, che sia la sua «casetta in Canada», la sua asessuata insignificante posizione iniziale nel mondo, a essere «visitata», o forse «invasa», dall’irruzione del Grande Mistero, l’Aleph?
Non si gioca tutto l’Umano, ogni volta, nei fremiti inguinali suscitati da quella minima incognita che al desiderio di ogni Narciso è la sua prima momentanea (ma di che momento!) svista allo specchio?
Non c’è monumento che l’Uomo non abbia eretto a coprire la monumentale ignoranza di Se Stesso. Un’isterica, una totemica, una sciamanica ignoranza della propria narcisistica fuga nell’ignoranza.
È sempre Quella che abbiamo da ingannare. La Grande Ignoranza. E ogni minuscola sconosciuta in cui c’imbattiamo, è la Porta Aperta sui richiami di un «oltre», da cui strategicamente abbiamo imparato a difenderci a oltranza.
L’Occidentale non incontra più l’indio, ma lo «studia»: se la Storia o il Caso li ha separati, lui ne marca la distanza, senza saperlo ne accentua le differenze, le «esalta» e insieme le «oltraggia», deducendo sciamanesimo e totemismo da ciò che non comprende – deducendoli a copertura di altrettanti «non so, non capisco».
Non era meglio lasciare il punto interrogativo? anziché bollare nei secoli dei secoli ogni femmina, in quanto femmina, di isteria, non era meglio tacere, visto che di quell’isteria a essere malato è solo il Femminile che il maschio professa ogni volta che non vuole andare oltre (ύστερον)?
Per andare oltre, per inoltrarsi nell’Incognita di chi ci sta di fronte, la Porta è Aperta, siamo noi che fingiamo di trovarla chiusa.
E allora ci diciamo e ci facciamo forti di questo «detto» reciproco, talmente tante volte detto che non c’è più bisogno di dirlo, va da sé, è sottinteso che la Porta è chiusa, e noi che non siamo più né barbari né mariuoli (si fa per dire), invece di sfondarla, noi che usiamo le buone maniere, noi che coltiviamo platonacee nei nostri giardini anche quando pensiamo contro Platone, noi che pratichiamo il galateo e la scolastica anche quando crediamo di fare una scostumatezza – noi, questi occidentali qui, giochiamo a chi è più bravo a trovare la chiave smarrita tra gli alambicchi delle nostre scienze.
La chiave dell’ermeneutica. Niente di meno!
E dov’è che si trova?, ché la voglio usare anch’io.
Eh, caro mio, mi si dice, non è così semplice. C’è un lungo cammino da fare se vuoi andarla a riprendere.
E com’è che è così lontana?
È che, peccato originale, l’Uomo allora l’ha gettata via, come per liberarsi di quella «cosuccia» che la sua Lingua d’oggi chiama «colpa dell’innocenza perduta». L’ha gettata via, per scordarsi del Passato, per ricominciarsi dalle tre «paroline magiche» che gli sono passate di mente. E non l’ha dimenticate una sola volta. E ogni volta, è stato un diluvio. Ogni volta, un oblio. Una rimozione.
Ma se è così, è forse nella trance di uno sciamano che è sprofondata? dove? nello stato di maga di un arcivescovo zoroastriano? nelle lamentazioni rituali egizie per la morte e il sacrificio di Tammûz? nel ventre, forse, della Nonna dell’Universo? o dietro la stufa, assieme al mignolo di non so quale cuoca alle prese con non so quale pollastro? o s’è confusa per caso tra le dita mozzate a Nuliajuk, il giorno del fuggi-fuggi di tutta una tribù via mare? dove, dove si può ancora sperare di ritrovare la chiave?
No, caro mio, mi si dice, ma io continuo a fingere di non capirlo – l’Uomo l’ha gettata in un mucchio di chiavi. Di modo che, se un giorno si fosse pentito e avesse avuto la pazza idea di tornare sui suoi passi per andarsela a riprendere, tutta la vita non gli sarebbe bastata a fare la cernita di un quarto di milionesimo delle scienze e delle credenze che nel tempo ha accumulato sulla sua ignoranza.
Narciso non vuole sapere che il Primitivo è lui, che lui è Femmina, così femmina da invaghirsi, lui per primo, dell’irriconoscenza della sua propria selvaggia mascolinità.
Quanto tempo buttato a girare nella serratura sciamanesimo, isterismo o totemismo! A collaudare le «idee» dei nostri maestri di pensiero. A tenere attaccato alla vita, e con che fatica, il nostro, ma soprattutto il loro, «io ideale».
Una volta preso un vizio, è difficile toglierselo.
A meno che … non lo raddoppi. Similia similibus curantur.
Solo facendolo risorgere un’altra volta dalle sue radici «inguinali», un vizio, qualunque vizio, anche il più infernale (Dante docet), ci può riportare all’Aleph – all’inizio strabico, al miraggio del «vaso coi fiori», alle «nozze miracolose» di realtà e immaginazione, di nuovo a quella Porta Aperta che oggi nevroticamente fingiamo di trovare sempre chiusa. Oggi fingiamo di non vedere che sono le nostre «idee» le sentinelle che c’impediscono il passaggio. Non è vero che vogliamo andare oltre. Vogliamo a oltranza che qualcuno ci dia una scusa per dire: «stiamo meglio qua, nonostante tutto».
In quanto alle «bassezze inguinali» del nostro inizio «umano», in quanto alle «domande aperte» dalle nostre curiosità infantili, mi si dice: lascia perdere questi pruriti, non è roba da «persone serie».
In parole povere, mi si dice: non cadere dov’è caduta l’Ombra del tuo Aleph. Mi si dice che sono colpevole io della sua (supposta) «caduta». Io, l’ira di dio.
E come dargli torto? sono io il dio «irato», io il dio «esiliato», come ogni altro «io» dal suo paradiso. Esiliato il giorno in cui l’Albero del Mondo si rovesciò nel suo proprio Simbolo, di modo che l’Altissimo, il «germoglio di foglie», si trovò confinato in basso a elemosinare un «seme del vivere».
Narciso a mendicare giù, alla sua immagine «sessuata», quel «vivere» il cui tormento non gli riuscirà di sedare con nessuna delle sue «idee più elevate», che poi sono soltanto le più fasulle.
(Aiguesmortes, Udite! Udite!)