Gilgameš a Enkidu rivolse la parola: «Amico mio,
perché piangi? Dimmi: perché il tuo cuore è affranto?».
Enkidu aprì la bocca e così rispose: «Amico mio,
un senso di oppressione mi stringe il cuore,
le mie braccia sono deboli e la mia forza è svanita».
Gilgameš allora provò a consolarlo e disse:
«Nella foresta abita il feroce Humbaba.
Ad ucciderlo adesso io voglio andare,
i cedri della foresta voglio abbattere».
Enkidu aprì la bocca e così gli rispose:
«Il dio Enlil pose Humbaba a guardia della foresta:
il suo grido è diluvio, il soffio è fuoco e il respiro è morte.
Può udire fino a sessanta leghe di distanza; chi dunque può
impunemente addentrarsi nelle viscere della sua foresta?
Per proteggere la foresta dei cedri e incutere timore
ai viandanti, il dio Enlil lo scelse, e chi osa penetrare
in quella foresta è sopraffatto dalla sua forza.
Perché ti ostini in un così ardito progetto?».
E a lui Gilgameš: «Amico mio, chi dei mortali
può arrampicarsi fino al cielo? Solo gli dèi
resistono alla potenza del sole. Lasciami salire sul monte.
L’uomo ha i giorni contati e ogni sua impresa non è che vento.
Ma adesso tu hai paura della morte. Che fine ha fatto
il tuo eroismo? Io voglio andare. E se morrò,
avrò guadagnato la gloria. Di me si dirà: Gilgameš
ha combattuto contro il feroce Humbaba ed è rinato!
Vieni con me, non temere, vieni a sradicare i cedri,
e avrai anche tu una fama che durerà in eterno.
Su, andiamo dagli armaioli e facciamoci forgiare un’ascia».
Andarono e gli armaioli per loro fabbricarono grandi mannaie,
fusero asce da tre talenti ciascuna, fusero spade e giavellotti.
Quando al popolo giunse la notizia, fu radunata l’assemblea
e Gilgameš al cospetto degli anziani così parlò:
«Udite, anziani di Uruk dalla grande piazza,
prenderò la via per il paese lontano di Humbaba.
Con lui voglio ingaggiare una lotta dall’esito incerto
e voglio giungere alla sua foresta percorrendo una via sconosciuta.
Datemi la vostra benedizione, ché così ho deciso di fare».
Gli anziani di Uruk così replicarono a Gilgameš:
«Tu sei ancora giovane, Gilgameš, e il tuo cuore è focoso.
Non sai a cosa vai incontro. Noi sì lo sappiamo:
Humbaba ha un aspetto mostruoso e nessuno
può competere con le sue armi. Vasta è la foresta e si estende
per diecimila ore doppie: chi può addentrarsi nelle sue viscere?
Ascolta il nostro consiglio: rinuncia all’audace impresa nella foresta!».
Udito il consiglio degli anziani, Gilgameš guardò e sorrise
al suo amico: «Io voglio andare lo stesso – disse. – Voglio
lo stesso tentare l’impresa». Allora gli anziani dissero:
«Fa’ che Enkidu vada davanti a te: la via che porta alla foresta,
egli la conosce, ed è esperto nella lotta, è avvezzo alle guerre».
Si misero dunque in cammino e, al calare della notte,
si fermarono per mangiare. Poi Enkidu allestì un giaciglio per sé
e uno per l’amico. Gilgameš si distese a dormire.
Ma nel cuore della notte si svegliò di soprassalto:
aveva fatto un brutto sogno, aveva sognato che il monte
si abbatteva su di loro e li schiacciava come mosche.
Una folgore abbagliante aveva squarciato la notte
e, alla sua luce, un uomo era apparso, bello a vedersi,
e li aveva tirati fuori da sotto la montagna.
I cieli tuonavano, la terra rimbombava,
il giorno si oscurava e cadevano fulmini,
tutto avvampava e su quell’incendio pioveva la morte.
Poi, poco a poco, le faville si spegnevano, il fuoco si estingueva
e i legni caduti dal cielo diventavano carboni.
Nella steppa irrompeva un toro infuriato: sbuffava,
scavava la terra e la polvere sollevata oscurava il cielo.
Il toro l’aveva ghermito. Lui, Gilgameš, tremava.
Ma il toro voleva solo dargli acqua da bere dalla sua borraccia.
«Torniamo indietro verso la steppa», concluse Gilgameš.
Ma a lui Enkidu rivolse parole di conforto. «Amico mio –
gli disse – il tuo sogno è buono, il sogno che hai fatto
è per noi molto prezioso. La montagna che hai visto cadere
è Humbaba, e vuol dire che lo vinceremo e l’uccideremo
e che il suo corpo lo getteremo nell’abisso. E la folgore
che ti ha abbagliato è il sole: all’alba del nuovo giorno,
quando il sole sorgerà, noi saremo infine vincitori.
Il toro selvaggio che hai visto è la sua luce radiosa
che domani ci disseterà con l’acqua della sua borraccia.
Non temere, ché grande è la gloria che ci riserva l’impresa».
Gilgameš pregò allora il dio sole e ne implorò il soccorso.
E un grido subito gli rispose: «Fa’ presto! Affrettati!
Affrontalo prima che entri nella foresta, non farlo
nascondere tra gli alberi, non concedergli tregua.
Humbaba indossa sette camicie: sei gli sono state strappate,
ora ne indossa una soltanto. Questo è il momento della lotta!».
I due amici erano ormai ai margini della foresta
e di là miravano stupiti l’altezza dei cedri.
Erano come estasiati all’ingresso del bosco,
i cedri svettavano maestosi sulla montagna:
la loro ombra era gradevole, dava felicità a chi vi entrava.
Il terreno era cosparso di cespugli e di rovi;
nella macchia si annidava l’albero profumato.
Trassero la spada dalla guaina i due amici
e di netto lo tagliarono. Ecco, fu allora che Humbaba
fece udire la sua voce: «Non avrà scampo, non si salverà!
Maledetto colui che ha sradicato il cedro profumato!».
Intimorito, Enkidu disse: «La sua forza è troppo grande,
da soli non lo possiamo affrontare». Ma Gilgameš
prese l’ascia dalla sua mano e colpì Humbaba alla nuca.
Sguainata la spada, Enkidu gli trafisse il cuore.
Al terzo colpo quello stramazzò al suolo:
ne nacque un trambusto, poi fu silenzio di morte.
Avevano ucciso Humbaba, il grande guardiano.
A due leghe di distanza i cedri udirono il tonfo.
I due amici avanzarono nella foresta:
Gilgameš tagliò i cedri, Enkidu ne sradicò i tronchi;
l’uno abbatteva gli alberi, l’altro raccoglieva i ciocchi.
Infine Enkidu così parlò a Gilgameš: «Amico mio,
abbiamo abbattuto il cedro meraviglioso, la cui chioma
toccava il cielo. Ne faremo la porta del nostro palazzo».
Così disse, e ripresero la via del ritorno a Uruk.