… dunque, Dio non sa di nascondere qualcosa di Sé ad Abramo.
Mi trema la mano, mentre oso scriverlo.
Dio non sa? Può essere che qualcosa Gli sfugga?
Finché gli Angeli non glielo rinfacciano, Lui, l’Onnisciente, non sa di celare al suo amico più intimo, Abramo, quella certa «cosuccia» della cui conoscenza dovrebbe invece essere «informata» qualunque intimità degna di tale nome!
Allora di’ che Abramo non è tuo intimo, e tutto quadra! – gli obiettò quel po’ po’ di malignità che parlava dalla bocca di Mefistofele.
Se nascondi a lui, all’Intimo, quel che nascondi agli Estimi, dov’è la differenza tra dentro e fuori, tra vicino e lontano? Abramo è o non è il tuo Vicinissimo? e non è, grazie a questa vicinanza, egli il Mago, il più Fausto dei maghi che abbiano facoltà di fare prodigi? e che prodigio può fare mai chi non ha il soffio per dare vita alla sua Elena?
Poiché Torah non volle sposarlo, Dio si consultò col libro Yetsirah, che invece accettò, e Dio lo consegnò ad Abramo.
La Mansueta, l’Addomesticata, la (Orecchiabile) Popolare, Quella a cui tutto il popolo presta orecchio, la Torah, la Legge Pop, Quella che da sé non esclude nessun membro, che tutti li riguarda, che a tutti parla – Essa non avrebbe mai potuto «compensare» la «singolare» ignoranza di Abramo, l’ignoranza di quella «cosuccia» che, più ne parlo, e più mi solletica la curiosità di sapere di che si tratta.
L’Abramo del mio essere, mi domando, fu dunque così «furioso» da trovarsi, suo malgrado, da subito «impopolare»? da subito solo, intrappolato in una stonatura «fuori dal Coro»?
C’è dell’ira di Dio, dunque, nella nascita di ogni «io»?
Nasce, dunque, «furioso» a ciascuno di noi l’Abramo del suo essere?
E, mi domando, questa «ira» non è quella per cui eravamo già stati espulsi dal paradiso? cos’è? un’onda di ritorno?
Non ritorna che il Rimosso?
È su questo «principio» del Ritorno dell’Eterno su Se Stesso, è solo su questo che Dio scommette?
Troppe domande. Una cosa sola è certa: Dio non si arrende.
Non sarà Torah a sposarlo, ma una lingua da far parlare a questo bimbo furioso, io comunque la troverò, miei cari Angeli, statene certi!
Troverò un’onda «furiosa», una nota più alta, un suono steccato che sia più conforme alla dissonanza di questo bimbo «fuori dal Popolo», lontano dalla Piazza, perché fui io a dirgli: vattene! vattene dalla tua gente! E ora non posso abbandonarlo al suo destino.

Sa tutto Dio. Dio sa anche ciò che nasconde ad Abramo, però mannaggia non sa di nasconderglielo.
Dio è dunque tenuto all’oscuro della Sua Onniscienza? È così che va inteso il versetto talmudico? O è solo una carambola a tre sponde che, con mano ferma, andrebbe qui tracciata? Solo una «triangolazione» simbolica può tirarci fuori dai lacci e dalle catene della Solitudine?
Il Racconto dice che Torah non volle, che Yetsirah invece disse sì, e si diede da «leggere» ad Abramo. Si offrì per introdurlo a un altro «genere» di compagnia. A un genere «maschile», a quel genere di maschio che si trova a essere rifiutato da Torah. Interdetto a ogni «pubblicità». Condannato a una «endogamia» eterna. Quel genere di «mascolinità» che ogni maschio si deve piangere da solo. La Donna Pubblica, la Parola Popolare l’ha rifiutato!
Abramo sedette e meditò in solitudine sul libro, ma non ci capiva nulla, finché non lo raggiunse una voce celeste che gli disse: «Vorresti essere eguale a me? Io sono Uno e ho creato il libro Yetsirah e l’ho studiato; ma tu da solo non lo puoi capire. Prenditi un compagno, e rifletti insieme, e capirete».
Abramo sedette sulla panchina. Era novembre, me lo ricordo bene. Era di pomeriggio, e aveva smesso da poco di piovere.
Lo vidi che sfogliava nervosamente le pagine d’un libro. Allora, non sapevo quale. Poi, d’improvviso, lo richiudeva, e poi di nuovo lo riapriva a casaccio. E ogni volta si faceva sempre più nervoso, e si lasciava, a momenti, sfuggire di bocca un’imprecazione, qualcosa come un «vattene! voglio una femmina!». E gettava via il libro. Poi, ci ripensava e lo raccoglieva da terra.
… prenditi un compagno, e rifletti insieme!
Non la Compagnia Popolare, ma un compagno che l’accompagnasse nella lettura del Libro scritto apposta per i «furiosi solitari»: questo fu il solo «rimedio» che Dio riuscì a trovare all’incoscienza di tutti i suoi amici intimi, non di quelli che Gli parlano, ma di quelli che sono oscuramente parlati dalla Sua lingua.
Di quelli che, come Strindberg, non ebbero mai «chiare» nozze, ma sempre si videro costretti a sposare i loro fantasmi «notturni».
A tutti loro Dio trovò un linguaggio, un codice, gli alchimisti lo chiamano homunculus, esso pure Intimo, obbligato perciò a rimanere oscuro a ogni Lingua che, a Sua insaputa, lo tiene celato nella radice dei suoi stessi vocaboli. Un linguaggio trovò Dio ad Abramo, un «dire» intimo alla Torah, ignara di portarlo scritto dentro. Un dialetto da far parlare ai nervi delle «pecorelle smarrite», che ne musicasse tremiti e fremiti sulle onde del loro stesso spaesamento, lungo i fili del Telegrafo per cui passano schizzi o frange d’intensità ancor non sedate, non ancora mansuete, non tali perlomeno da pacificarsi nella comprensione di se stesse.
Strindberg, solo oggi trovo il coraggio di scriverlo, s’è perso come tutti gli Esoterici d’ogni tempo e luogo. S’è perso come Artaud, come Campana, come Nerval, come tutta una generazione (ancora non esaurita) di Furiosi, s’é perso nella sua stessa «furia», se n’è andato nella sua tempesta. Sant’Antonio, ahimé, è sprofondato nella contemplazione del Fantasma della sua propria dissacrazione. La lingua delle Sacre Scritture s’è liquefatta nel paradosso della sua popolarità. Per sposare tutto il popolo, non è mai stata in intimità con nessuno!

Non ebbe la fortuna d’incontrare un Astolfo che gli andasse a riprendere la gioia sulla luna. Voleva Angelica, e non un fido compagno d’armi. Neanche il più fiero dei paladini avrebbe potuto colmare il vuoto d’angeli, l’Angelica mancanza.
Galeotto può essere qualunque libro, ma solo tra lui e lei. Dio invece pure per Strindberg «rimediò» a stento un libro «maschio» per fargli compagnia. Uno di quei lunatici libri in cui fumano le ampolle delle nostre terrene menti.
Strindberg incontrò Swedenborg, e ne fece il suo maestro di parola.
Abramo andò di corsa dal maestro Shem, figlio di Noè, e stette con lui tre anni, e fecero riflessioni, finché furono capaci di creare il mondo.
Creare il mondo, creare – eccolo, il chiodo fisso, la smania, la necessità che urge nel midollo dei nostri nervi. Perché creare, forse, è il solo modo di fare «a immagine e somiglianza» del Creatore. È replicare il divino «soffio sull’argilla», è soffiarlo sui propri fantasmi immaginari, per rifare Adamo, Eva e il Serpente, per riscrivere il mondo, per produrre altro mondo sul mondo prodotto.
Creare è pazziare a connettersi in presa diretta con il «dio della propria credenza». Ma ciò che i nervi e questo dio, quale che sia, si dicono, tu vallo a dire in una lingua «popolare», e poi fammi sapere se non ti hanno per caso rinchiuso in un manicomio, o roba del genere.
Perché è pazzia, la «cosuccia».
È la pazzia di stare azzeccati a Dio, di stare punto e a capo a sfogliare l’antica margherita. Chi ha creato chi?
Nessun esoterico trova «dentro», nel suo «dentro», altro che un bambino ignaro del mondo. Sono gli Angeli che si ribellano a Dio, non lui. Sono gli Angeli che chiedono che sia fatta luce su questa «cosuccia» oscura, che Dio ha omesso di dire ad Abramo il giorno in cui l’ha creato.
Il mio maestro, perché tale tuttora io ritengo Strindberg per me, non mi ha detto, in fondo non poteva dirmi, quello che già a lui era stato omesso.
No, non voleva tenermelo nascosto. Anzi, voleva che io sapessi. Perciò riaprì il libro che aveva chiuso dianzi, e mi disse: Questo è il mio Inferno, il solo dei miei libri che può accettare di sposarti. Prendilo, e rifletti!
Perché un riflesso solo dei tuoi raggi può illuminare ciò che vi è di oscuro. Lo lascio, mi disse, nelle tue mani – perché è con te, in tua compagnia, e mai da solo, che potrò un giorno rileggerlo!
Così sedettero l’uno vicino all’altro e per tre anni fecero contemplazioni e infine riuscirono a capirlo.
Allora crearono un vitello e lo macellarono, e allestirono un banchetto per festeggiare la conclusione del trattato.
Non appena lo ebbero macellato, lo dimenticarono.
Allora sedettero per altri tre anni e lo capirono per una seconda volta.
(Ginzberg, Leggende degli Ebrei, 5: 210)
Mi disse: da solo non ce la faccio, non ci capisco niente, l’ho scritto io, eppure mi è inconscio.
Era più che un appello, il suo. Era l’ultimo appello che aveva, dopo tanti rifiuti, la forza di rivolgere ancora a qualcuno.
Mi trovai io per caso, a sedergli accanto. A fare io di Lui il Maestro nato dal soffio della mia creatività. Del mio istinto a scrivere, a vivificare perdendo la mia vita i morti. Del mio istinto a vendicarli delle umiliazioni.
L’indomani, mi ricordo, andai apposta ai Giardini. Pioveva a dirotto.
E mi ricordo la prima cosa che gli dissi, appena giunsi alla panchina. Ero ancora in piedi, e anche un po’ affannato, quando gli dissi che m’era tornato alla mente un certo particolare di un libro macellato tre anni avanti, e di cui avevo perso ogni memoria.
Non ricordavo neanche d’averlo letto.
Gli dissi: «Maestro, quando ti avrò dimenticato, quando neanche più saprò d’aver letto il tuo Inferno, quando sarò un vecchio scimunito, magari stanco e deluso dalla vita, spero che mi torni in mente un rigo, soltanto un rigo, di questo tuo libro. Non ne guadagnerò un mondo, anzi so già che perderò io migliaia dei miei mondi, passando appresso a te dall’altra parte».
È incredibile. Sono il primo a non crederci, ma è esattamente ciò che mi sta succedendo.
Ho una sola spiegazione: qui non c’entra la magia, vaffanculo ogni spiritismo! Qui si tratta della potenza di un’Omissione divina. È l’Omissis che sempre ritorna, e Dio vince tutte le scommesse.
Anche quelle che io qui sto perdendo?
(Aiguesmortes, Udite! Udite!)