Irlanda – La fanciulla uccello

Degas-ballerinaC’era una volta un ragazzo. Era il terzo di tre fratelli e si chiamava Balordo: il nome dice di che pasta era fatto. Tanto per dirne una, era così balordo che si mise in testa di partire alla volta di chissà dove, in cerca non lo sapeva neanche lui di che cosa.
Pare che un giorno, avendo udito nel bosco un uccello cantare, si fosse convinto da sé solo d’aver compreso la lingua dell’uccello canterino, e di aver ricevuto, in quella lingua, l’ordine di partire.
Non ci fu verso di fermarlo. Una mattina, sul far dell’alba, si mise in viaggio in groppa a un mulo.

Giunse a un lago largo cinque miglia e lungo altrettanto. Il mulo aveva sete, e s’impuntò: non avrebbe fatto un solo passo innanzi, se prima non avesse bevuto. Balordo, se pure aveva fretta, dovette accontentarlo. E così il mulo bevve, e bevve, e bevve ancora, finché non ebbe prosciugato tutto il lago fino all’ultima goccia.

Rimessisi in cammino, sul far della sera, giunsero a una locanda.
Il mulo disse al padrone: «Entra nell’osteria, mangia e bevi, e quando avrai mangiato e bevuto, fatti dare quaranta chili di biada per me, che ho tanta fame».
Balordo fece come il mulo gli aveva suggerito: mangiò e bevve a sazietà, ma quando ebbe finito di rimpinzarsi, all’oste che gli presentava il conto dovette confessare di non avere denaro.

«Vuol dire che mi pagherai col mulo che ti ha portato fino alla mia locanda – disse l’oste. – Nessuno finora è passato di qui senza pagare i suoi debiti». E senza perdersi in chiacchiere, uscì dalla locanda e andò dritto dal mulo a riscuotere quanto gli era dovuto.
Ma non gli fu possibile, non dico salire in groppa al mulo, ma neanche solo avvicinarsi alla bestia, perché questa si mise a scalciare a destra e a manca finché l’oste, piuttosto malconcio (due calci l’avevano preso ora all’uno, ora all’altro stinco), non corse a rifugiarsi nella locanda.
mulo-scalciaI malevoli dicono che corse a prendere il fucile da caccia. Altri credono invece che non aveva più nessuna voglia di esser risarcito, che voleva solo un letto su cui distendersi.

Un dubbio, questo, che a un balordo come il nostro Balordo non passò neanche per l’anticamera del cervello. S’era imbambolato a fissare quel quarto di luna, che stava giusto sorgendo dietro la collina.
Fu il mulo a scuoterlo: «Svegliati, padrone – ragliò in perfetta lingua asinina. – Montami in groppa, e fuggiamo via di qui, prima che quello ci ammazzi!».
Il mulo, si sa, è un malpensante.

Era ormai notte fonda. Balordo e il mulo, pur di allontanarsi dalla locanda, avevano imboccato l’unico sentiero che a tratti, facendo capolino tra le nuvole, la luce della luna faceva intravedere.
Costeggiava il bosco, quel sentiero, e dal bosco giungevano le voci della Terra di Nessuno.
«È così che si chiama questo Paese», disse il mulo al padroncino.
Disse di riconoscerlo dall’odore del legno dei suoi alberi.

«E io – disse d’un tratto Balordo – io pure lo riconosco, anche se non ho mai saputo come si chiama, sì adesso pure io lo riconosco: non dal profumo, ma dal canto degli uccelli che nidificano sui suoi alberi».
Disse di riconoscere in particolare un canto di una sola voce. Della voce dell’uccello canterino che gli aveva un giorno ordinato di partire.

Era notte sempre più fonda. Balordo e il mulo si fecero coraggio a vicenda e, lasciato il sentiero, e con esso il conforto della luce della luna, s’inoltrarono nel bosco.
Non vi dico lo spavento, i brividi e i sussulti che li assalirono più di una volta. Solo un balordo come Balordo poteva sfidare la fame delle belve notturne, invece di darsela a gambe.

Ma poiché, grazie a Dio, la fortuna aiuta gli audaci, e in particolare i più balordi tra quanti ardimentosi passano la vita ad acchiappare le nuvole, Balordo e il mulo passarono indenni più di un pericolo. Proprio perché era balordo, la fortuna – per dimostrare a tutti la propria cecità – volle che sopravvivesse lui là dove molti sapienti si erano persi e si perdono e continueranno a perdersi nei secoli dei secoli, proprio là dove molti contemplativi hanno pianto e piangono e piangeranno ancora infine volte le lacrime più amare di tutte le loro contemplazioni.

albero-uccelli«La fortuna è la mano cieca di Dio – soggiunse, dandosi arie da filosofo, il mulo. – La fortuna ci guiderà, stanne certo, dal tuo uccello!».
Aveva visto giusto, il mulo dall’alto della sua profetica sapienza asinina. Balordo sentiva il canto del «suo» uccello sempre più vicino.
Ed ecco, finalmente, furono ai piedi dell’albero su cui l’uccello aveva fatto il nido.

Di colpo, però, la terra si aprì sotto i loro piedi, e l’albero sprofondò in un abisso di cui non si scorgeva il fondo. Le sue radici rimasero però aggrappate al suolo, mentre il tronco e i rami e le foglie e i nidi degli uccelli si rovesciarono in basso.
«Non perdiamoci d’animo! – disse il mulo a Balordo. – Se scenderemo lungo il tronco, vedrai che risaliremo al nido del tuo uccello».

E così, state a sentire: a testa in giù, si avventurarono sotto terra. Sotto la terra della Terra di Nessuno, dove l’albero più caro al nostro Balordo s’era ribaltato!
E quando ebbero ridisceso tutto quanto il tronco, là dove s’aspettavano di trovare il fogliame dell’albero, con loro grande sorpresa i nostri due eroi videro sorgere un palazzo che dire meraviglioso è come non dire niente di quello che sbalordì Balordo – e non è un gioco di parole!
Non c’era il fogliame, e non c’erano più gli uccelli, e nemmeno i loro nidi. C’erano le mille dimore di un palazzo reale. E in ogni dimora, non un uccello, ma una fanciulla cantava. Cantava anche la bellissima fanciulla, nelle cui sembianze s’era trasformato l’uccello di Balordo.
Era così bella, che tutti la chiamavano la figlia del Re.

A Balordo bastò uno sguardo per innamorarsene. La guardava, e tra sé e sé diceva: non la conosco, eppure la riconosco! non l’ho mai vista prima, eppure i miei occhi giurano d’essersi aperti alla luce in cerca solo del suo volto.
«Mi vuoi sposare?», le chiese senza alcuna timidezza.
«Ti sposerò – rispose la figlia del Re. – Ti sposerò e verrò a vivere con te, solo se troverai mio padre, che ho nascosto per mettere alla prova la sapienza dei miei pretendenti».

Ma dato che i balordi non diventano intelligenti solo perché si sono innamorati, ecco che Balordo non aveva la benché minima idea di dove dovesse andare a cercare il Re.
Il mulo, però, gli aprì la mente: «La giovane principessa – gli disse – ha una gallina che sta covando nella sua stanza, sotto il suo letto. Va’, e ci troverai undici uova, di cui uno è giallo e maculato. Prendilo in mano, e fa’ l’atto di volerlo schiacciare sul pavimento. Vedrai, il Re che la figlia ha nascosto nell’uovo ti pregherà di risparmiargli la vita».

gallina-uovaLe cose andarono come il mulo aveva previsto: Balordo trovò la gallina e le undici uova, e quando fece per spiaccicare in terra l’uovo macchiato di giallo, il Re si mise a strepitare: «Mi hai scoperto! Lasciami vivere!».
Balordo andò allora dalla figlia del Re e le disse: «Vuoi sposarmi ora?». «Non ti sposerò – rispose lei – finché non troverai mio padre, dato che io l’ho nascosto una seconda volta».

Questa volta, la fanciulla aveva nascosto il padre nel becco di un’anatra, e aveva messo l’anatra a nuotare in uno stagno.
Balordo, c’è da scommettere, non l’avrebbe mai trovato, se il mulo non l’avesse istruito per filo e per segno anche quest’altra volta.
«Tra i peli della mia coda – disse il mulo a Balordo – ce n’è uno grigio. Strappalo via e vallo a gettare nelle acque dello stagno in cui vedrai un’anatra nuotare lontano dalla riva: per quanto lontano essa si trovi a nuotare, quel pelo grigio la farà venire a riva. Tu afferrala subito, e impugnando il coltello minacciala di tagliarle il collo! Vedrai che il Re che è nascosto nel suo becco griderà aiuto e ti pregherà di risparmiargli la vita».

Balordo fece come il mulo gli aveva detto. Trovò lo stagno, vi gettò il pelo grigio, e afferrata a volo l’anatra che s’era avvicinata alla riva, levò in alto il coltello come per tagliarle la gola. Le grida del Re non si fecero attendere. Balordo aveva superato anche la seconda prova.
Tornò allora tutto contento dalla figlia del Re e le rifece la proposta: «Vuoi sposarmi questa volta?».
«Non ti sposerò – disse lei – se prima non ritrovi mio padre che ho nascosto per la terza volta».

L’aveva nascosto in un pezzo di legno, l’aveva messo cioè in un posto che Balordo non avrebbe mai sospettato se, per l’ennesima volta, il mulo non l’avesse così istruito: «Togli dal mio zoccolo un chiodo – gli disse, – prendi un martello e vallo a inchiodare in quel pezzo di legno che la figlia del Re ha nascosto tra la legna accatastata vicino al focolare, ma che non ti sarà difficile distinguere in mezzo agli altri, perché non appena ti sentirà martellare, per paura di essere spaccato, sarà lui a dirti d’essere il Re e a chiederti di risparmiargli la vita».

Se c’è bisogno di dirlo, lo dico: le cose andarono precisamente come il mulo aveva vaticinato. Suppongo però che non è questo che siete ansiosi di sapere, quanto piuttosto se la terza fu o non fu la volta buona perché la Figlia del Re acconsentisse a sposare Balordo.
Come? la più bella sposerà il più stolto?
Incredibile, va béh è una favola, ma è proprio così che successe.
«Vuoi sposarmi?», chiese Balordo alla Figlia del Re per la terza volta.
E la Figlia del Re, la terza volta disse sì. Disse: «Sarei la donna più stolta del mondo, io la più balorda, se mi rifiutassi a colui che gode della sapienza più semplice: la sapienza di chi si lascia guidare dal fiuto della bestia che cavalca».