La biblioteca di don Chisciotte

Uno dei rimedi che per il momento il barbiere e il curato proposero per il male del nostro amico, fu di murargli e di chiudergli la stanza dove teneva i libri, di modo che, alzandosi, non li trovasse più (così eliminando la causa avrebbe potuto cessare l’effetto); e gli dovevano dire che un incantatore s’era portato via tutto, stanza compresa. E così fu fatto sollecitamente.
Di lì a due giorni don Chisciotte si alzò e la prima cosa che fece fu di andare a vedere i suoi libri, e non trovando più la stanza dove l’aveva lasciata, l’andava cercando di qua e di là.
Giunto dove soleva esserci la porta, toccava con le mani, poi girava e rigirava gli occhi per ogni dove, senza dir parola; ma alla fine, dopo un bel po’ di tempo, domandò alla governante da che parte stava la stanza dei libri.
(Cervantes, 1: 7)

I libri fanno male a don Chisciotte. Il barbiere e il curato non si perdono in chiacchiere. Gli murano la porta della Biblioteca.
Ha letto più di quel che doveva, ora basta!

Non so dire se in ogni pazzia c’è sempre del donchisciottismo. So che il donchisciottismo è il seme di una certa pazzia, e in particolare di quella pazzia che era una pazziella, finché un barbiere e un curato non l’hanno presa in cura. L’hanno presa per una malattia, capisci? chi non esce nel mondo, nel «mondo reale», chi ancora naviga in alto mare, direbbe Nietzsche, e non è afflitto, non ancora, da una nostalgia della terra, è solo perché è fuori di testa!
All’homo ludens hanno detto: è ora di finirla! esci dal paradiso! vieni al mondo! esci dal racconto!
I bambini che giocavano al piano di sopra, i signori di Xibalbá trovarono mille argomenti per scipparli al loro gioco. E tuttavia, dice il Racconto, gli «attrezzi da gioco», quelli no, non hanno fatto la fine dei giocatori. I giocattoli sono sopravvissuti!

Il che si può intendere in almeno due modi. Nel modo più facile: che, morti gli eroi, sopravvivono le memorie del loro eroismo (Kierkegaard ne serba viva ancora l’angoscia). In un modo più allegro: che non solo Sancio Panza doveva essere un giocattolo a uso e consumo di don Chisciotte, se gli è sopravvissuto, ma anche che lo stesso don Chisciotte era, a sua volta, il resto di un gioco che nessuno giocava più, da che erano impazziti (non di gloria, ma d’amore – dice Boiardo e conferma Ariosto) i paladini di Francia, a loro volta giocattoli delle fantasie di cantastorie ancora più giocherelloni, sensibilmente più spassosi.
È come se, nel passarsi gli attrezzi da gioco, i giocatori fossero man mano sempre meno divertiti e tuttavia più disposti a illudersi che si può giocare ancora. Che si può giocare a tressette, anche col morto.

trenino-circolareAbbiamo fatto un giro, forse più di uno. La Biblioteca è periodica, ci ricorda Borges: ecco perché ci gira la testa.
È cominciato tutto da lì, dalla passione di don Chisciotte per i libri. Ma solo ora che, sull’onda della finzione di Borges, lì torniamo, lo possiamo capire: non era quello l’inizio, e non è questa la fine del girotondo. Non era finto il principio, e non è reale la fine.
Si può sempre giocare alla «Vita è bella». Ma per giocarci, serve un bambino, un ingenuo, un selvaggio, un piccolo Dick, insomma: uno che deve morire alla «realtà», al suo «reale primitivo», dice Lacan, uno il cui «linguaggio naturale» deve essere immolato sulla soglia del Paese dei Balocchi Simbolici, delle Scritture più o meno sacre, e altrettanto algebriche quanto l’odore di tutta una solfatara che scappi al culo di un solo aborigeno sperduto nel folto della foresta.

Fin dalla prima parola del Libro, è tutto un derivare, un dedurre, un presumere che si enuncia e si scrive addosso i propri odori: venticinque, dice Borges, mi raccomando – non più di venticinque ideogrammi per clan famiglia o tribù che vomiti o defechi in una qualche latrina degli innumerevoli Esagoni dell’Umana Diceria.
È cominciato tutto qui, e di nuovo qui, dopo chissà quanti giri a folle, ancora siamo.
Siamo a girare ancora tra i libri. La Biblioteca è ciclica. L’hanno murata chissà quante volte, ma c’è sempre un bambino pazzo, un genio nato alla pazziella, che trova un pertugio nel muro. Anche se la «governante» non gli dà una mano.

Perciò, qualunque cosa tu stia qui e ora sbirciando è «nel mezzo del cammin» di una Commedia che ti trovi. Quale che sia la pagina, il rigo, la lettera su cui in questo momento stanno cadendo i tuoi occhi, sappilo: sono le voci degli altri che ti circuiscono. È qui e ora che continui a perderti.

Quando si mischia la propria voce a quella degli altri, si rimane come presi a un amo (Kafka, Bimbi sulla strada maestra)

I pesci non parlano, finché non abboccano all’amo di una «parolina magica». Ti ricordi il «caso del piccolo Dick»? Era un «selvaggio» prima della parola. Una volta che ha parlato (augh!), è diventato uno di noi, un bibliotecario disperso nel Paese dei Simboli.
Ma è davvero «selvaggio», o è solo «primitivo», ciò che ancora non cade nella Trama delle nostre «derivate»?
Ci sono pazzie che si prendono a pazziella. Per non guardare in faccia la Medusa (solo i filosofi fanno una simile sciocchezza), accettano di essere distratte … perché no? – da un libro, da un film, da una musica, da qualunque gioco le porti via di qui, da qualunque amo le peschi dal mare magno della Noia.
Solo i sapienti insistono ad annoiarsi.

totem-disegnoLa dottoressa Klein starebbe dunque a Dick, come un antropologo, poniamo Lévi-Strauss, sta all’enigma del totemismo?
Può mai essere che siano i pesci le Persone di Lassù e, come suggerisce Socrate quando riassume per sommi capi la sua propria uranografia, e noi invece, noi che crediamo di vederli in basso, le Persone di Quaggiù?
Può mai essere che i pesci volano sulla nostra testa? Chi ha detto che quella è la Vera Terra?
Eppure, per avvistarla, non ci vuole chissà quale stramba prospettiva alla Bosch: basta osservare ciò che i libri continuano a scriversi l’uno addosso all’altro, ed ecco spuntare la Formula Magica. Così, a casaccio: per via stocastica, sfuggente a ogni statistica. Perché basta mischiarne le pagine, sovrapporle, se è il caso perfino bucarle l’una nell’altra.

La Formula di cui noiosamente disputano qui e ora, come cinquemila anni fa, i sapienti – sarebbe, tutto sommato, questa:

(a : b) = (A : B)

Alla Segreteria della Sorbona qualcuno ha fatto un pasticcio, qualcuno distrattamente ha mischiato le carte, e nel faldone del piccolo Dick, in mezzo alla diagnosi della dottoressa Klein, sono finite per sbaglio alcune pagine di Lévi-Strauss sul totemismo.
Questa in particolare, là dove Lévi-Strauss scrive: «Non sono le rassomiglianze, ma le differenze, che si assomigliano».

Il «selvaggio» vive nel suo codice immaginario, vive in un mondo «ricco di differenze» (… e … e … e …) in cui ogni «differente» (… e …) è prigioniero della sua unicità e singolarità. È sempre un altro, e poi un altro ancora. Il mondo del «selvaggio» [Dick], come quello della Psiche di Apuleio, è ricco ma disordinato: bisogna dargli un ordine che lo «impoverisca». Bisogna ridurlo, bisogna inocularvi dell’«indifferenza». Una dose, sia pur minima, di «crudeltà».

I treni non somigliano al padre e alla madre di Dick! I treni, quelli «reali» come i giocattoli che li riproducono, non hanno niente in comune con la famiglia di Dick, e ancor meno una qualunque stazione ferroviaria può dare, di per sé, a uno di noi l’«idea» della pancia della mamma.
La Stazione non è la mamma, e il Treno non è papà, e va da sé che Dick non è e non sarà mai un trenino.
Don Chisciotte non somiglia a Orlando, e la sua Dulcinea del Toboso non ha niente a che vedere con una sola smorfia di Angelica.

Michelangelo-Creazione-Adamo
Michelangelo – La creazione di Adamo

E allora come stanno le cose?
Stanno così: che (Orlando sta ad Angelica) come (don Chisciotte a Dulcinea).
Stanno che (la Stazione e i Treni non sono la famiglia di Dick) come (ciò che sta scritto nei libri, e soprattutto ciò che si dice nelle voci degli altri non è quello che intanto ci passa per la testa).
Stanno che (il Centro non è la Circonferenza) come (Paolo Uccello non è Raffaello).
Stanno che (Artaud non è van Gogh) come (l’erede non è l’antenato): essi condividono solo il centro delle loro vertigini.

Borges non è don Chisciotte: è solo un vivo che rincorre un morto a cui scippare gli attrezzi da gioco. L’Attrezzo degli attrezzi del gioco umano, il Seme dei semi di ogni simbolismo, è solo un misero, stolto «come».

Non la faccio più lunga: non m’aspetto d’essere capito, ma derubato, scippato di questa idiozia, a cui non cerco somiglianza se non a chi sta al Libro in una relazione altrettanto idiota della mia.
Perciò, sarò breve, ascolta.
icona-don-chisciotteDon Chisciotte non crede sul serio d’essere Orlando. È quando trova murata la porta della Biblioteca, che si vede costretto a pubblicare la sua pazziella. È allora che il suo codice immaginario è obbligato a ridursi a non più di tot ideogrammi.
Da buon narciso, don Chisciotte non sa che è la sua propria relazione immaginaria con la Bella Taverniera, essa sola, che somiglia. E che somiglia a un’altra relazione, quella tra Orlando e Angelica. Solo grazie alla «parolina magica», Dick può prendere il treno che non è, per andare a stare nelle braccia della mamma che pure non è nessuna stazione.

Questo è il Grande Totem che ci è divenuto tabù, il giorno stesso, lo stesso preciso istante in cui abboccammo all’amo.
Il Grande Totem simbolico, quello che mette ordine nel mucchio dei semi di Psiche, è questo misero come che due mondi, due tempi, due insiemi differenti «condividono» tra i loro membri, tra le proprie differenze «interne».

Non è dunque un singolo pezzo della ferrovia o un singolo membro della famiglia ad avere «in sé» un valore simbolico. Nel simbolico non conta mai l’individuo, quale che sia il gruppo a cui appartiene, perché, come scrive Lévi-Strauss, «non esistono animali che si assomigliano tra di loro per il solo fatto che partecipano tutti del comportamento animale», e dunque: non esistono treni che si assomigliano tra di loro, solo perché camminano tutti sullo stesso binario; «né esistono degli antenati che si assomigliano tra di loro solo perché partecipano del comportamento ancestrale», e dunque: non esistono genitori che si assomigliano tra loro, per il semplice fatto che sono tutti genitori e hanno dei figli; «… e neanche esiste una rassomiglianza globale tra i due gruppi, ma, da una parte, ci sono animali che differiscono gli uni dagli altri (perché fanno parte di specie distinte, ognuna delle quali ha un’apparenza fisica e un genere di vita che le sono propri), e dall’altra degli uomini […] che differiscono tra loro (perché sono suddivisi tra i segmenti della società, ognuno dei quali occupa una posizione particolare nella struttura sociale). La rassomiglianza, che suppongono le rappresentazioni totemiche, è tra questi due sistemi di differenze» (Il totemismo oggi).
La somiglianza quale «materia prima» del Simbolo, è tra due distinti mondi, ciascuno dei quali ha le sue proprie differenze, «ordinabili» tuttavia, tanto per l’uno quanto per l’altro, in modo simile:

la Stazione sta al trenino come la Pancia della Mamma sta a Dick
ossia
(Stazione : Treni) = (Mamma : Figli)

Non c’è qui nessuna somiglianza «individuale» di fatto, ma una somiglianza «logica» tra due relazioni, i cui membri restano tra loro differenti. Una somiglianza, dovrei dire «dialogica», in quanto mette a dialogare tra loro «gruppi» portatori di differenze «individuali» potenzialmente infinite.
La Biblioteca, può essere infinita quanto vuole, eppure nessun «individuo» vi troverà mai scritto il suo «caso». Vi troverà, al più, una relazione tra due libri che somigli al caso (non contemplato da nessuna statistica) della sua relazione coi giocattoli.

Quando si dice che i pesci abboccano, questo s’intende: che l’esca del predatore è come la preda vera. È solo una risposta invertita, e perciò sibillina eco, alla domanda che i pesci fanno al mare.