Io dico che si sbagliarono tutti gli uccelli

I discepoli di Sais non sono, quel che si dice, un’«opera compiuta». Novalis non finì mai di scriverla. Continuò, più o meno, per un paio d’anni ad abbozzare idee, schemi e frammenti. Poi si arrese, lasciò perdere, passò ad altro. Forse, si ripromise di terminarla il giorno che avesse trovato le «parole degne» dell’avventura in cui l’aveva avventurata. Perché questo, forse, non si dovrebbe trascurare: che Novalis s’era spinto o, meglio, era stato spinto, eccitato dall’intuizione iniziale che ne aveva avuto, a un progetto troppo ambizioso, al di là delle possibilità espressive di cui la sua romanticamente acerba lingua godeva.
Forse, per spingerla più innanzi, gli occorreva una lingua più ignara, meno avvertita di quel che, intanto, le si diceva intorno. Una lingua che andasse per la sua strada, invece di misurarsi con le questioni filosofiche del tempo. Che puntasse sulla sua «purezza», invece di andarsi a sporcare nelle polemiche del giorno. Una lingua «inattuale», fuori tempo e luogo: una lingua in atto solo nei tempi e nei luoghi immaginari dello scrittore.

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Magritte – Gli Amanti

Questa è, in fondo, la scommessa (perché è di una scommessa che si tratta, quando si vuole tradurre verbalmente un’«intuizione»): che quei tempi e quei luoghi dei miraggi possano giungere, miracolosamente!, a parlare la lingua della poesia eterna, senza data, la lingua del Possibile sempre in atto e tuttavia mai attuato. Mai Enunciato.
Questa non è la mia, ma la scommessa «romantica». Devo forse qui elencare uno per uno tutti gli Hölderlin che, più o meno invasati, ne hanno pagato il fallimento sulla propria pelle, o bisogna far finta di niente, dire due o tre sciocchezze sullo Sturm und Drang e tirare avanti?

I romantici hanno pagato, e continuano a pagare il debito che hanno contratto scommettendo sull’«inattualità» della Poesia, sulla possibilità di una Lingua nella Lingua, di un «seme» linguistico, di una «potenza» espressiva che rimane eternamente «vergine», sebbene le lingue continuino a violentarla o, come direbbe lo stesso Novalis, a «velarla».
Hanno scommesso, per dirla a occhio e croce alla de Saussure, sulla parole e la sua capacità di sovversione, diciamolo pure: di vendetta, sulla Langue. Hanno puntato sul cavallo sbagliato, ecco tutto. E adesso facciamo fatica a venir fuori dalle macerie del loro fallimento!

I romantici hanno puntato sull’io – e si sono sbagliati di quello sbaglio in cui la nostra Lingua è ancora presa.
Erano, forse, sulla strada giusta (volevano venir fuori dalle sanguinose idee dell’Illuminismo), ma quando giunsero all’io, pensarono di essere giunti alla meta, e si fermarono. Non avevano le «parole degne» per andare oltre. Erano solo arrivati alla stazione del cogito di Cartesio, non oltre la rampa di lancio dell’io penso di Kant – sebbene avessero desiderio di volare più in là, e malgrado tutto il coraggio e a dispetto del «lume della ragione» che pure erano disposti a mettere in gioco.

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Dalì – Morbida costruzione con fagioli bolliti

I romantici si sono condannati a suicidarsi … o a rinnegarsi. A impazzire, in entrambi i casi. A dare, cioè, la parola ai pazzi e, insieme, anche a chi da pazzi doveva poi trattarli.
I fanatici dell’io romantico, del Poeta che parla nel deserto, ma anche di Erode che mira solo alla propria goduria, non sono meno sanguigni dei più fervidi illuministi.
È che la Langue ci ha divorati tutti, indifferentemente. Divorati non ora, non da poco, ma dal suo stesso Esordio. La Langue ha un Soggetto che la parla, e non è l’«io». Lacan non si stanca di ripeterlo nei suoi seminari: quando si dice Soggetto, non si deve fare la fesseria (romantica) di schiacciarlo subito nella dimensione dell’ego – perché l’ego è il Figlio, non il Padre, e anche se nasce il giorno in cui apprende il Nome del Padre, porta comunque il nome di suo Nonno!

Antero Vipunen s’è pappato tutti i poeti nel nome del primo di loro, il vecchio intrepido Väinämöinen!
Dobbiamo rimboccarci le maniche, e ripartire da qui, se vogliamo ritrovare la coscienza perduta – la consapevolezza di sé che la Langue ha gettata via, elusa e ingannata nella bocca di tutti quelli che quando dicono «io», come Peppino, credono di aver «detto tutto»!
Solo che questo «tutto» è a stento un morso di pane nella pancia del Racconto Umano! Questo «tutto» non è che una «parte» recitata assieme alle infinite altre che si alternano, chi in primo piano, chi solo sullo sfondo del Teatro Umano.

Quelli che però la Langue divora con più piacere, è ora di dircelo, sono i poeti. Se le riesce, e ci riesce ahinoi! – di strafogarsi un Omero o un Dante, la Langue, Antero Vipunen, il Pescecane di Pinocchio, la Balena di Giona, il Lupo di Cappuccetto rosso, è ora di dircelo: si lecca i baffi, tale e tanto è il piacere che prova ad affogare i poeti nel caffè e nei salotti delle chiacchiere.
E intanto … intanto i romantici impazziscono, e i dottori romantici, intanto, continuano a perseguitare i loro alterni poetici. Ma sì due tre parole sullo Sturm und Drang, bastano e avanzano. Ma quale poesia vai cercando, stolto che ancora non ti arrendi?

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Goltzius – Il Drago divora i compagni di Cadmo

È che la Langue ci ha divorati tutti, indifferentemente. E, se c’è qualcosa che può dirsi inattuale, questa è proprio e solo l’indifferenza della Langue al differenziale della parole, poetica e non. La Langue si mangia tutte le parole, dette o scritte. Non basta mettere il mondo sottosopra per scuoterla dal suo torpore eterno. Neanche Mefistofele ce la farà mai a distrarre il padreterno dal suo Ozio.
Solo i «diavoli», solo le nostre parole negoziano.

In quanto all’incompiuta di Novalis, rimane ben poco da negoziare. Anzi, non resterebbe più nulla, se tra le note e gli appunti che continuò a prendere per un paio d’anni per i suoi Discepoli (e, va da sé, per il suo Maestro immaginario) non incontrassimo la perla della sua intuizione.
Scritta, ma relegata ai margini, per non dire «fuori» del libro. In attesa, forse, che il libro potesse accoglierla nella sua «trama».
Eccola qui, è appena una poesiola di cinque versi:

A uno accadde
di sollevare il velo della dea di Sais.
Ma che vide egli?
Meraviglia delle meraviglie,
vide se stesso.
(Novalis, Frammenti, maggio 1798)

Non è niente, chiunque lo vede: è solo, niente di più che l’appunto di un ingenuo pentagramma.
Eppure, è tutto ciò che Novalis aveva da dire della sua «intuizione». Solo questo (in polemica con Schiller): che al fondo di ogni intuizione, l’occhio che intuisce si trova a essere «respinto» dalla sua propria immagine riflessa – come se questa immagine fosse al servizio di una potenza (divina? naturale? inconscia?) che se ne serve per allontanare i «curiosi».
Che ne è poi di questa «intuizione» una volta tradotta romanticamente, una volta ridotta nella forma di un «eroismo della solitudine», che altro mai può esserne se non una cavezza troppo stretta per contenerla? Non è romantica l’intuizione, ma la veste che Novalis le dà.

E le conseguenze di questo «travestimento» provano una sola cosa: che l’intuizione resta sempre fuori, mentre nel libro, in ogni libro di cui è fatto il Libro, trovano posto solo alcune sue controfigure, ancora troppo opache per fare largo all’illuminazione che le ha, diciamo così, contro-prodotte.
Il coraggio di alzare il velo, di svelare ciò che il pudore del Racconto tiene da sempre celato ai suoi «discepoli», questo a Novalis non mancava. Il coraggio glielo dava l’intuizione stessa – che, in sé, s’era intuita in una miracolosa compiutezza. Come un «tutto», che ha difficoltà poi ad acconciarsi nei limiti di una «parte», nelle strettoie di un «libro».

Come a tutti noi, si sbagliò dunque la colomba di Novalis. Non era pasqua, e neanche carnevale. Era solo un capriccio del Tempo, un’onda di ritorno di un’eco che rimbalza nel Racconto.
L’intuizione di Novalis «richiama» infatti quelle lontane di Dante e di ‘Attâr, il trentatreesimo di Paradiso e l’epilogo del Verbo degli uccelli. Alla fine del viaggio, dopo un lungo pellegrinaggio, i viandanti giungono …
Già, ma dov’è che essi giungono, se non là dove li ha portati la parola di cui si sono serviti per tirare innanzi? E dove può mai portare la Parola i viandanti che la parlano e che, parlandola, cercano in Lei la purezza della Vergine Velata? dove, dove altro mai se non là dove la parole dell’«io» sconfina nel Territorio più oscuro, là dove la Langue sconfina nella sua arkhé, nel fondo senza fondo delle sue origini «naturali»? Dove, se non là dove essa si confonde col cinguettio degli uccelli o col balbettio dei neonati?

Non si sbagliò solo la colomba, ma si sbagliarono tutt’e trenta gli uccelli che erano partiti alla ricerca della Sîmorgh. Si sbagliarono tutte le lingue di tutti i poeti che corsero dietro alla sottana delle loro Intuite. Si sbagliarono i taglialegna a tagliare l’albero che non doveva essere tagliato. E si sbagliarono i falegnami che il legno di quell’albero lo piallarono per farne un burattino. E si sbagliarono i figli di falegname a giocare con i pupi di legno, dando a ciascuno un «io» e fingendo di non vedere che erano tutti appesi ai fili di uno «stesso» Mangiafoco.