Nietzsche – La grande separazione

Pazienza-dedicata
Andrea Pazienza

Si può presumere che uno spirito, nel quale il tipo dello «spirito libero» sia destinato a maturare fino all’ultima dolcezza e perfezione, abbia avuto il suo evento decisivo in una grande separazione, e che egli prima sia stato uno spirito tanto più legato e sia apparso tanto più incatenato per sempre alla sua colonna nel suo angolo.
Cos’è che lega più saldamente? Quali lacci sono quasi impossibili da spezzare? Per gli uomini di specie alta ed eletta saranno i doveri: quel rispetto che è proprio della gioventù, quella soggezione e delicatezza di fronte a tutto ciò che è degno e venerato dall’antichità, quella riconoscenza per il suolo sul quale crebbero, per la mano che li guidò, per il santuario dove impararono a pregare – i loro stessi più elevati momenti li legheranno nel modo più saldo, li obbligheranno nel modo più durevole.

La grande separazione giunge per simili incatenati improvvisa, come una scossa di terremoto: la giovane anima viene d’un colpo scossa, strappata, divelta; essa stessa non capisce quel che accade. Un impulso e un’urgenza sorgono in essa e se ne impossessano imperiosamente; si svegliano in essa una volontà e un desiderio di andare avanti, dove che sia, a ogni costo; un’ardente, pericolosa curiosità verso un mondo ignoto serpeggia fiammeggiando in tutti i suoi sensi.
«Piuttosto morire che vivere qui», così parla la voce imperiosa della seduzione: e questo «qui», questo «a casa» è tutto ciò che fino ad allora la giovane anima aveva amato!

Un subitaneo orrore e sospetto verso ciò che amava, un lampo di disprezzo verso ciò che per essa significava «dovere», una smania ribelle, capricciosa, vulcanicamente impetuosa, di peregrinare, espatriare, estraniarsi, raffreddarsi, disincantarsi, gelarsi, un odio per l’amore, forse uno sguardo e un gesto sacrileghi all’indietro, là dove aveva finora pregato e amato, forse un rossore di vergogna per ciò che ha appena fatto, e nello stesso tempo un’esultanza per averlo fatto, un ebbro, profondo, esultante brivido, in cui si rivela una vittoria – una vittoria? su che? su chi? una vittoria enigmatica, piena di interrogativi, problematica, ma comunque la prima vittoria: – simili cose tristi e dolorose appartengono alla storia della grande separazione.

È in pari tempo una malattia che può distruggere l’uomo, questo primo scoppio di forza e di volontà di autodeterminarsi, di porre da sé dei valori, questa volontà di volontà libera: e quanta malattia si esprime nei selvaggi tentativi e stranezze con cui il liberato, il separato, cerca ormai di dimostrare a se stesso il suo dominio sulle cose.
Va girovagando con animo crudele, con bramosia insoddisfatta; quel che riporta come preda, lo deve pagare con la pericolosa tensione del suo orgoglio: egli fa a brani ciò che lo affascina. Con una risata cattiva capovolge le cose che trova velate, risparmiate da un qualche pudore: vuol provare come esse appaiano, quando siano messe a testa in giù.
Per capriccio, per puro gusto del capriccio, egli rivolge adesso il suo favore a quanto finora è stato in cattiva fama: s’aggira, curioso e tentatore, intorno alle cose più proibite.

Sullo sfondo della sua agitazione, del suo vagabondaggio – poiché è sempre in cammino, inquieto e senza meta come in un deserto – incombe il punto interrogativo di una curiosità sempre più pericolosa.
«Non si possono capovolgere tutti i valori? Ed è forse bene il male? e dio solo un’invenzione e una finezza del diavolo? È forse tutto in ultima analisi falso? E se noi siamo degli ingannati, non siamo per ciò stesso anche ingannatori? Non dobbiamo essere anche ingannatori?».
Tali pensieri lo seducono e lo conducono sempre più lontano, sempre più lontano. La solitudine lo circonda e lo stringe, sempre più minacciosa, soffocante, attanagliante, quella terribile dea e mater saeva cupidinum – ma chi sa oggi che cosa sia la solitudine? …

(Nietzsche, Umano troppo umano, Prefazione)