Santillana – Il mito e la realtà vivente

La strana fine del racconto iranico, che si conclude con un’ascesa al cielo [di Kay Khusraw] simile a quella di Elia, lascia perplesso il lettore. Se questa è l’epopea nazionale (che occupa quasi metà del poema), dove sono l’elemento epico e l’elemento tragico?
In effetti, c’è in Firdusi una buona dose di narrazione di tipo omerico che abbiamo dovuto trascurare: grandi battaglie, simili a quella sulla ventosa piana di Troia, sfide e duelli, le gesta incredibili di eroi come Rustam e Zâl, rapimenti, intrighi, innumerevoli intrecci secondari: abbastanza da permettere a un bardo di intrattenere i suoi signori per settimane intere e garantirgli un rifornimento costante di quarti di cervo.

Ma l’intervento degli dèi nel racconto, per quanto traspaia più volte in un simbolismo complicato e in fiabe bizzarre, non è così umanizzato come nell’Iliade. Il conflitto tra volontà e fato non è a misura d’uomo.
Quella che si è tracciata poc’anzi è una storia disorientante di successioni dinastiche all’insegna di una Gloria sfuggente, una Gloria senza eventi eccelsi, che si accompagna a una situazione amletica e a una malinconia inspiegata.

La sua essenza è una labile parata di astrazioni ambigue, un fuggevole balletto di azioni sfrenatamente simboliche legate alla magia rituale e a dottrine religiose, le cui motivazioni non si possono confrontare con quelle normali. Il tutto è un rebus da interpretarsi mediante inni, in modo assai simile a quanto avviene nel Rig Veda.

Ma qui ci viene finalmente data apertis verbis una chiave per penetrare nel significato delle immagini, cioè le parole culminanti di Khusraw:

Il mondo intero è il mio reame, tutto è mio
dai Pesci giù fino alla testa del Toro
(Firdusi, Shâh-nâma, 2, p.407)

HatterasSe un eroe dell’emisfero occidentale proclamasse: «Tutto questo continente è mio, da Hatteras a Eastport», lo si riterrebbe affetto da mania unidimensionale: forse nella sua mente quel tratto di costa simboleggia un intero continente?
Qui invece le parole hanno perfettamente senso perché Kay Khusraw non si riferisce alla terra, bensì a quella sezione dello zodiaco compreso tra i Pesci e Aldebaran, i trenta gradi che abbracciano la costellazione dell’Ariete.
EastportCiò significa che il suo regno non è solamente dei cieli, è essenzialmente un regno del Tempo.

Il Tempo è la dimensione del cielo. Kay Khusraw si presenta come una funzione del tempo preordinata da eventi nello zodiaco.

Da oggi infatti datano nuove feste e nuove usanze …

Perché proprio l’Ariete e che importanza abbia tutto ciò sono domande che per ora non interessano. Sta di fatto che «sovrano dell’Ariete» era il titolo ufficiale del potere supremo in Iran, titolo che può avere avuto tanto o tanto poco significato quanto, in Occidente, quello di «Sacro Romano Imperatore».
Ciò che conta è che Roma è un luogo della terra, il cui prestigio è collegato a un determinato periodo storico, mentre l’Ariete è una zona del cielo, o meglio, dato che il cielo è in continuo movimento, un determinato tempo definito dal moto celeste in rapporto a quella costellazione.
Roma, persino la «Roma eterna», è un fatto storico: un tempo fu realtà e ora è solo nel ricordo; ma l’Ariete è un tempo «marcato», ed è destinato a fare ritorno secondo cicli determinati.

Anche se si pensa a Kay Khusraw come a un sovrano terreno in un’epopea che fa da premessa alla storia, è evidente che nessuna immaginazione moderna, storica o naturalistica che sia, potrà mai fornire la chiave per penetrare in menti come quelle dei bardi iranici dalle cui rapsodie il dotto Firdusi trasse e organizzò il suo racconto.
Non è possibile rinvenirvi alcun fondamento storico né rintracciarvi simbolismi legati alla fertilità o alle stagioni; gli stessi psicoanalisti hanno finito per arrendersi.
Questo tipo di pensiero può essere definito in un modo solo: essenzialmente cosmologico.

Diciamo questo non per rendere le cose inutilmente difficili, ma per delineare la vera struttura del pensiero mitico, assai familiare in realtà, e tuttavia ormai raramente riconosciuto.
Esso compare addirittura sotto forma di meditazione lirica:

Iram è davvero scomparso con tutte le sue rose
e la coppa delle sette fasce di Jamshîd
– nessuno sa più dov’è;
ma ancora cede la vite l’antico suo rubino,
ancora un giardino fiorisce presso l’acqua […]

Osserva: mille boccioli col giorno
si son destati, e mille si son dispersi nell’argilla;
e questo primo mese dell’estate che porta la rosa
porterà via Jamshîd e Kay Qobâd.

Ma vieni col vecchio Khayyâm, e lascia che la sorte
di Kay Qobâd e Kay Khusraw sia dimenticata
(Omar Khayyâm, Rubâ’iyât)

Omar Khayyâm potrà prendere il tono dello scettico stanco oppure quello del mistico sufi, ma tutto ciò di cui parla è inteso come reale: gli eroi del passato sono reali, così come lo sono gli amici per i quali scrive, la vite, le rose e le acque, come lo è la sua esperienza diretta del flusso e dell’impermanenza della vita.
Quando egli attribuisce sentimenti e pensieri a vasi di terraglia, non lo fa per usare un tropo letterario, bensì nella consapevolezza che tutte le cose transeunti sono prigioniere della medesima trasmutazione, che la sostanza è una e di essa son fatti vasi, uomini e sogni.

Si potrebbe chiamarla una realtà vivente: essa differisce in modo singolare dalla realtà ordinaria o oggettiva. Quando il poeta immagina che questo stesso mattone possa essere l’argilla che un tempo fu di Kay Khusraw, si ricollega alle meditazioni di Amleto nel cimitero:

A quali vili usi noi possiamo tornare,
Orazio! Perché non potrebbe l’immaginazione
seguire la nobile polvere di Alessandro
fino a trovarla a turare il buco di una botte?
(Shakespeare, Amleto, V: 1)

Ecco qui, dunque, già quattro personaggi, due immaginari e due perduti nelle nebbie del tempo, eppure tutti egualmente presenti nel nostro gioco, mentre la maggioranza dei personaggi concreti – l’assessore alle imposte, poniamo – non lo sono, benché le loro azioni ci riguardino concretamente.
In quel reame dell’«esistenza vera» troveremo stelle, vigne, rose e acque, le forme eterne; vi troveremo inoltre le idee della matematica, anch’esse una forma di esperienza diretta. Il mondo della storia è ad esso estraneo nella sua totalità.
Khayyâm, così come Firdusi una generazione dopo di lui, non parla mai delle glorie di Ciro e di Artaserse, parla invece di eroi mitici, proprio come il nostro Medioevo non si curava della storia e parlava di Artù e Galvano.

Tutto era accaduto «tanto tempo fa», e se Dante riporta in vita così potentemente il mito, è perché i suoi contemporanei si credevano veramente discesi da Dardano e da Troia e pensavano che il nobile Ulisse potesse, chissà, essere ancora vivo, mentre l’Imperatore Barbarossa addormentato nel suo nobile Kyffhäuser – certo si tratta di una favola come quella di Biancaneve.
O no?

Re-Artù-mortoLe fiabe ci suonano familiari ed è quindi facile non tenerne conto. Ma potrebbe risultare che simili figure di grandi imperatori trasformati in leggenda abbiano una vita segreta propria, che seguano le leggi del mito scritte ben prima di loro.
Proprio come secondo la profezia di Merlino, Re Artù non è morto, ma continua a vivere nel profondo del mistico lago, così Goffredo da Viterbo (c. 1190), che era stato al seguito del Barbarossa, è il solo a offrire la «vera» versione. Ed è la versione ortodossa, redatta in un linguaggio arcaico stranamente conservato: l’Imperatore dorme nelle profondità dell’Abisso delle Acque, là dove sono i sovrani che hanno lasciato il mondo […]

Comincia ad apparire una distinzione tra mito e favola. Amleto si rivela sotto l’aspetto di un vero mito. Khayyâm fu il più grande matematico dei suoi tempi, autore di una progettata riforma del calendario che si rivelò ancor più precisa di quella poi adottata nel calendario gregoriano; un intelletto in cui potevano coesistere uno scetticismo tagliente e una profonda intellezione sufica.
Egli sapeva perfettamente che la coppa dalle sette fasce di Jamshîd non è perduta, poiché rappresenta le sette orbite planetarie di cui Jamshîd è il sovrano, così come il magico specchio di Jamshîd continua a riflettere il mondo intero perché è il cielo stesso.
Ma è naturale lasciare che essi mantengano il loro rapporto iridescente, poiché appartengono alla realtà vivente, come i volani di Platone e il suo fuso di Ananke. O come lo stesso Amleto.

Che cos’erano dunque Jamshîd e Kay Khusraw? Per i semplici un’immagine magica, una favola. Per quelli che capivano, un riflesso del Tempo stesso, ovviamente uno dei suoi aspetti principali.
Essi erano riconoscibili, sotto diversi nomi, in diversi luoghi, anche in allusioni in conflitto tra loro: era sempre lo stesso mito, e tanto bastava. Esso esprimeva le leggi dell’universo in quel linguaggio specifico che è il linguaggio del Tempo.
Così si doveva parlare del cosmo.

Tutto ciò che è realtà vivente, sub specie transeuntis, ha un racconto, nel suo manifestarsi sotto aspetti maestosi, spaventosi o consolanti, nella «paurosa simmetria» di tigri o teoremi o delle stelle nei loro corsi, ma sempre vivo per l’anima.
È un gioco di trasmutazioni che comprendono anche noi, governato dal Tempo, inquadrato nelle forme eterne. Un pensiero governato dal Tempo può essere espresso solo nel mito. Quando i linguaggi del mito erano universali ed evidenti, anche il pensiero era autosufficiente: non poteva cercare una spiegazione di sé in altri termini, perché era la stessa realtà vivente che si esprimeva.

Alles Vergängliche
ist nur ein Gleichnis
(Goethe, Faust: finale)

«Ogni cosa che passa è solo una figura», come disse Goethe.

(Santillana-von Dechend, Il mulino di Amleto)