
Più che il cielo stellato, scrive Gauguin nel suo Diario, il solo infinito a misura dello sguardo umano è il corpo delle donne.
Questo nostro cielo non è che uno degli innumerevoli cieli, e le donne non sono che queste stelle di questo cielo che vediamo noi.
Poco più avanti aggiunge: … la luce di ciascuna stella che vediamo, non è la Luce che ci fa vedere le stelle. Noi vediamo le lingue parlate dal fuoco, noi vediamo le fiamme che avvampano, ma il fuoco ci rimane invisibile.
E ancora più avanti: … l’oro non è ciò che luccica al primo sguardo gettato sul corpo di una donna. L’oro è ciò che di prezioso va estratto dalla miniera di questo sguardo.
L’infinito accessibile allo sguardo umano è come la spada nella roccia: ci vuole un uomo degno di questo nome per estrarla e farne lo scettro di un nuovo regno.
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Gauguin non vuole essere questo novello Re Artù della Pittura. Sa che il suo richiamo non proviene dalla Roccia che non ride. Viene da più su, da più vicino. Viene forse dalle foglie di un Albero Antico, ma non così antico come il Diamante. Perciò, se pure ci crede a un Regno della Luce allo stato puro, della luce cruda, se ne tiene a distanza. Gauguin sa che la Luce è crudele. Crudele anzitutto con chi la veste, soprattutto coi pittori che la tradiscono. Chiedetelo a van Gogh! – se la luce non l’accecò. Chiedetegli, per favore, se non fu la luce stessa che l’istigò a spogliarla dei colori, con la promessa di un oro al di là dell’oro: dell’Oro Senza Corpo.
E domandategli pure, giacché ci siete, da quale disperazione fu spinto a dare credito a questa che è la più sciocca delle speranze.
Forse dirà pure a voi qualcosa che somiglia a quello che ha detto a me.
A me ha detto, quella volta al Jeu de Pommes mi disse: «Siediti, ché fra poco ti gira la testa!».
Ogni suo quadro mi parve un tappo che turava il collo stretto di una falla in cui si erano imbottigliate le onde di un Oceano di luce che mi veniva a sommergere. Che mi avrebbe sommerso, se il pennello di van Gogh, se la sua terza mano, non si fosse presa su di sé tutta la rabbia della Luce.
La Luce si vendica di chi osa guardarla in faccia. Non abbiamo occhi capaci di sostenere la vista del Sole. Al nostro sguardo non è accessibile la Medusa senza veli. Van Gogh è un velo, forse uno dei suoi prediletti. Van Gogh, forse più di tanti altri, ci protegge dal «faccia a faccia». Noialtri, è bene che la luce l’assaggiamo «cotta».
È bene che noi, la luce, ce la facciamo filtrare coprire colorare velare. E che impariamo a riconoscerne i richiami attraverso le sue maschere.
Capisco Gauguin. Quale maschera la maschera meglio, la Luce? – quale più dell’oro evidente della Bellezza delle donne, dell’oro superficiale che non ha bisogno di essere scavato, che è qui e ora, di fronte, immediato, gratuito, occasionale … figura del «tutto passa» e niente rimane?
Capisco che mi sono imbrogliato in un imbroglio simile al suo. Che come lui ho creduto nelle maschere della Luce. Ho creduto, all’incirca come lui, nella stessa Superficie. Sogni stelle e nuvole, chimere e tentazioni, alternandosi vi danzavano la mia gioia di esistere, di perdermi nel luccichio dell’esistenza.
Ho visto anch’io l’oro di cui l’Oro Senza Corpo della Luce ogni volta s’ingelosisce. Ho visto l’oro dei corpi, l’oro che è disseminato negli infiniti corpi della Donna.
E ora?
Ora me ne sto seduto, tra i quadri di van Gogh e di Gauguin, sennò mi gira la testa!
(Aiguesmortes, Quaderni)