
… la terra, l’humus dell’Uomo, la «materia» di cui è fatto il Sopravvissuto al Diluvio, è l’Aleph, la «lettera più asciutta» dell’alfabeto di Corvo, la più povera di significato, la cruna dell’ago per cui passano infinite «idee», e non solo «rette» ma anche «trasversali, congiunte, ascendenti e divergenti».
Tutte le «idee» ideate prima del Diluvio – non sono «umane». Preesistono all’avvento dell’Uomo.
Dinanzi ai maestri, al cospetto dei Dottori del Tempio – ogni neonato al Simbolismo umano potrebbe, come Gesù, come questo Gesù relegato nelle rimanenze apocrife della sua Leggenda, levarsi in piedi a protestare.
Finitela di darvi tante arie! – gli direbbe. – Voi siete troppo smemorati per sapere il vostro proprio Aleph, e ogni vostro «dire» comincia sempre dalla beta.
La questione non è però «che cosa ha detto Gesù bambino». La questione è «a chi risultano incomprensibili le sue parole». Talmente incomprensibili da prenderle per pazze. Talmente pazze da doverle escludere dai suoi testi canonici.
Perciò, a scanso di equivoci, è bene chiarirlo: è contro di me che il bambino (su cui sono cresciuto) si è levato a protestare! È alla faccia del mio dottorato che ha rinfacciato l’Aleph!

Mi ha detto: maestro, ma tu veramente sei ciuccio! Maestro, la tua ciucciaria è talmente vasta, che io non so più come metterci una pezza!
Vuoi andare in giro a pubblicare le tue sapienze, tu che ancora non sai chi ti ha creato!
La prima volta l’ho cacciato via. Ho chiamato suo padre Geppetto e gli ho detto: riprenditelo! Tuo figlio è un pezzo di legno. Non solo non capisce niente, ma pretende di dare lezioni lui a me!
La seconda ho perso la pazienza e l’ho picchiato, gli ho dato una scoppola, un manrovescio, tre pugni nell’occhio e un calcio negli stinchi. E lui mi ha maledetto: ha detto una parola e mi ha fatto male. Una sola parola, e mi ha ucciso.
Sono vissuto, da allora, morto tra i morti miei pari. E se qualche volta m’è successo, per un momento, di tornare a vivere – di tornare a tutte le cose vive – se mai mi è successo di tornare là dove le cose vivono tutte insieme, l’una della vita dell’altra, in una donazione d’essere illimitata in cui tutte si scambiano indifferentemente con tutte, è stato quando il bambino su cui sono cresciuto, il «mio» infantile apocrifo, ha incontrato chi gli ha reso «giusta testimonianza». È stato solo quelle poche volte che, chi l’ha sentito, non si è lasciato irretire dai suoi zompi immaginari di palo in frasca, ma vi ha udito l’Appello del (codice linguistico) Rimosso nel nostro «dire» simbolico. Vi ha udito il richiamo antico, per cui le immagini si richiamano tra di loro senza passare ancora per le forche caudine di un Ordine simbolico. Vi ha udito il fruscio d’ali delle sue antiche «idee», di quelle che erano ancora ignare degli Scogli Cozzanti per cui dovevano passare. Vi ha visto le sue voci nell’atto di demoltiplicare, articolandosi, il loro unico e solo Tesoro nelle pietre di mille dilemmi, una sola Notte ricca di idee e povera di parole nelle mille stelle che si spartiscono il corpo nudo della sua luce.
L’Aleph è la lettera muta, la lettera asciutta di tutti gli alfabeti umani. L’Aleph non si dice, l’Aleph si vede. E paradosso vuole che, a vederlo meglio di tutti, siano i ciechi come Borges.
C’è del «vendicativo» nella catena dei suoi «vidi … vidi … vidi …» (ne ho contati 38!): il cieco si prende la sua rivincita!
È che ci sono «voci» che si vedono soltanto con occhi accecati da un’antica rivendicazione – dall’Antico che rivendica i suoi «diritti di primogenitura» sul Racconto a lui postumo. Sul Racconto che gli succede, e che ne cancella la Memoria, paradossalmente: scolpendone nel marmo la lapide. Ricordandolo, lo dimentica. Archiviandolo, il Racconto lo mette a tacere.
È che ci sono voci che non giungono mai a divenire nomi o parole, voci che vagano silenti nei campi delle nostre fantasie infantili, voci immaginarie, voci che stanno tra la parola e l’immagine: colombe, anatre, rondini e forse anche gabbiani, che «nuotano» (come li «vede» Bosch) tra il cielo delle delizie e l’abisso degli abissi della sofferenza.
Di tanti «uccelli», solo il corvo infine trova un lembo di «loquacità», sia pure gracchiata.
Cosa c’è nell’Aleph di Borges che m’inquieta, mentre mi stupisce? Che c’è di così terribile, che lui stesso – dopo – non ne vuole più parlare? Ha aperto quel certo cofanetto che, chi ci guarda dentro, vi trova i frammenti sparsi del suo antico codice linguistico.
Venere dice a Psiche: va’ dalla Regina dei morti, e fatti dare quello che mi serve per farmi bella. A Venere non serve che il «profumo» di quella caotica molteplicità di «vidi» all’infinito, di «idee» che si ammucchiano a casaccio (… e poi questo … e poi quest’altro … e poi quest’altro ancora).
Di quel codice «disordinato» (è il disordine che ci fa impazzire) Venere non rivendica che il privilegio, l’antecedenza della sua Dominazione su tutte le parentele, affinità, analogie e famiglie varie, per cui il linguaggio simbolico, la Lingua che ci parla in bocca, è costretta a passare.

Il profumo «salva» dall’interminabile. Il profumo «accomuna», raduna, unifica e ordina il molteplice. È l’«essenza» delle cose, la porta per cui si entra nella Grande Sala dei Concetti.
È l’«essere», la parola più volatile, e insieme la più asciutta, la più povera di senso, a salvare il fiuto (il noûs) di Parmenide dal tutto scorre (… e … e … e …) di Eraclito.
Uno stesso profumo si spande per tutt’e trentotto i «pezzi di idee», per tutt’e trentotto le schegge visionarie in cui si è frammentato l’Aleph di Borges.
Si può «fiutare» uno Stesso nel Molteplice: basta farsi guidare dalle donne, disse quel mattacchione di Parmenide (per favore, toglietegli questa maschera seria che lo rende a tutti così astruso!).
Prendetelo per quello che è: uno scolaro indisciplinato. Non fatevi ingannare dalla parte che fa a scuola. Se pure siede in cattedra, è ancora fermo lì – al pianto che pianse il primo giorno di scuola.
Appena la «vide», disse: questa è la Caverna di Platone! Che Venere non mi abbandoni!
(Aiguesmortes, Quaderni)