Lo Shâh-nâma («Libro dei Re») di Firdusi è l’epopea nazionale dell’Iran, e Firdusi (c. 1010) è ancor oggi il suo poeta nazionale.
Ai tempi in cui egli scriveva, il suo mecenate Mahmûd di Ghazna, aveva trasferito il centro del proprio potere in India e da lungo tempo ormai dell’impero iranico era rimasto solamente il ricordo. Firdusi dunque, così come aveva fatto Omero prima di lui, intraprese con prodigiosa dottrina il compito di organizzare e registrare la tradizione avestica che, da un passato storico, rimontava nel tempo a epoche puramente mitiche.
La prima parte, quella che tratta delle dinastie dei Pishdâd e dei Kay, è da considerarsi del tutto mitica, benché giunga in effetti a varcare le soglie della storia e comprenda quattro dei nove volumi della traduzione inglese dello Shâh-nâma.
Khusraw (Хοσρόης in greco) è inoltre il nome di una dinastia di sovrani storici, uno dei quali, Khusraw Anûshirwân, diede asilo agli ultimi filosofi della Grecia, i membri dell’Accademia platonica cacciati nel 529 da Giustiniano.
Ma il Kay Khusraw firdusiano è la figura che giganteggia nella sua epoca mitica: a lui è assegnato quasi un quinto dell’intera opera. In realtà, egli è l’avestico Haosravah e anche il vedico Sušravas, identità che risolleva il problema, lungamente dibattuto, di una comune Urzeit o età delle origini indoeuropea.
Gli elementi che accomunano l’Amlethus di Saxo e Kay Khusraw sono talmente sorprendenti che Jiriczek e in seguito Zenker intrapresero dettagliati studi comparativi in merito; entrambi conclusero tuttavia che la saga greca di Bellerofonte avrebbe potuto fornire un’origine comune, e qui finì la loro ricerca.
Per la mente dello studioso, l’antichità classica ha proprietà magnetiche, agisce su di essa come la gran Montagna Magnetica di Sindbad: non appena la Grecia si profila all’orizzonte, ecco sfasciarsi il fragile naviglio della filologia.
La tetra storia di Bellerofonte potrebbe anch’essa fornirci un parallelo, ma perché mai dovrebbe segnare la fine della pista? Si pensi alla mesta osservazione di Erodoto che la sua antichità ellenica non comprende che pochi secoli di documentazione mnemonica, al di là della quale si fonde con il patrimonio di leggende indoeuropee.
Nell’ampio filone dello Shâh-nâma un elemento di rilievo è la guerra perpetua […] tra i popoli rivali del Turan e dell’Iran. Poiché le vicissitudini della dinastia iranica dei Kay si estendono per una narrazione lunga il doppio dei due poemi epici di Milton messi assieme, è necessario fissare l’attenzione su un aspetto essenziale.
La trama iranica presenta un certo ‘spostamento’, in quanto il tirannico Afrâsiyâb uccide non il fratello, ma il figlio di suo fratello, sicché il «vendicatore» del delitto deve necessariamente essere colui che è insieme nipote del malevolo Shâh turanico Afrâsiyâb e nipote del fratello di costui, il nobile Shâh iranico Kay Kâ’ûs (lo stesso che ha, come Kâvya Ušanas, un ruolo di non poco rilievo nel Rig Veda nonché, come Kavi Usan, nell’Avesta.
Siyâwush, comandante dell’esercito paterno, fa profferte di pace al turanico Afrâsiyâb, il quale accetta l’offerta perché ha avuto un sogno catastrofico […]
Kay Kâ’ûs, non fidandosi di Afrâsiyâb, rifiuta la pace e Siyâwush, che non desidera infrangere il proprio patto con il Turan, va a vivere con Afrâsiyâb.
Afrâsiyâb rende al giovane ogni onore e gli dona una grande provincia che egli governa in modo eccellente, vale a dire nello stile dell’«Età dell’oro» di suo padre Kay Kâ’ûs. Siyâwush sposa in prime nozze una figlia del turanico Pîrân; in seguito Afrâsiyâb gli dà in moglie la sua stessa figlia Farangîs.
C’è però un serpente in questo giardino: Garsîwaz, fratello di Afrâsiyâb, un Polonio ante litteram, spinto da gelosia trama con tanto successo contro Siyâwush che alla fine Afrâsiyâb manda un esercito contro il giovane sovrano innocente.
Siyâwush viene catturato e ucciso; Farangîs, ora vedova, fugge accompagnata da Pîrân (primo suocero di Siyâwush) fino alla dimora di lui, dove dà alla luce un bimbo di grande bellezza, Kay Khusraw, nipote tanto di quanto di Kay Kâ’ûs.
Una notte buia e senza luna, mentre uccelli, fiere
e bestiame dormivano, Pîrân in sogno vide
uno splendore brillante più del sole,
mentre Siyâwush, assiso in trono e con la spada in mano,
lo chiamava a gran voce e gli diceva: «Lascia il riposo!
Scaccia il dolce sonno e pensa ai tempi a venire.
Da oggi infatti datano nuove feste e nuove usanze
perché stanotte è nato Shâh Kay Khusraw!».
Il condottiero si scosse dal suo dolce riposo:
Gulshahr volto di sole destò. Pîrân
le disse: «Sorgi, recati
ad assistere Farangîs; perché io ho visto
nel sonno Siyâwush, ora è un momento,
vincere in lustro sole e luna,
e mi diceva: Non dormire più ma unisciti alla festa
di Kay Khusraw, sovrano della Terra!».
Gulshahr corse dalla Luna e vide
il principe già nato; tornò con grida
di gioia, che il palazzo facevano risuonare,
da Pîrân il duce. «Diresti – ella gridava –
che Re e Luna ben siano accoppiati!».
(Firdusi, Shâh-nâma: 2, pp.325 ss.)
Con questo sogno profetico di una nuova grande età ha inizio un lungo periodo di prove per l’eroe predestinato.
Il fanciullo cresce fra i pastori e diventa un abilissimo cacciatore con un arco rudimentale e frecce che, come Amleto con i suoi pioli aguzzati, si è foggiato da solo, senza punte e senza penne.
Nonno Afrâsiyâb, temendo il principino, se lo fa condurre per convincersi che la sua vittima è inoffensiva. Per quanto Afrâsiyâb abbia giurato solennemente di non far del male a Khusraw, Pîrân consiglia al fanciullo di comportarsi da idiota del villaggio per la sua stessa sicurezza.
Quando il tiranno, fingendo benevolenza, lo interroga, Kay Khusraw risponde proprio come Amleto, con indovinelli che sembrano senza senso, in cui il giovane Khusraw si paragona a un cane. L’usurpatore si sente sollevato: «Costui è uno sciocco!».
Il racconto della vendetta, indebitamente accorciato nella versione riferita da Saxo e in altre, riceve da Firdusi un’ambientazione convenientemente maestosa e dai toni possenti.
Lo sdegno dell’Iran e del mondo provocato dalla morte di Siyâwush riceve un’orchestrazione apocalittica in un tumulto di proporzioni cosmiche:
Il mondo era tutto vendetta, avresti detto
«È un mare ribollente!». La terra non aveva più spazio
ove camminare, l’aria era aggredita dalle lance;
le stelle incominciavano a guerreggiare e terra e tempo
si lavavano le mani nella discordia.
(Firdusi, Shâh-nâma, 2, p.342)
Ciò nonostante i due arcicriminali riescono a fuggire e a nascondersi con ingegnosità inesauribile. Afrâsiyâb arriva addirittura a fare il Proteo nelle acque di un profondo lago salato, dove assume forme sempre diverse per sfuggire alla cattura.
Alla fine, dopo due volumi e una moltitudine di episodi, Afrâsiyâb e il malvagio consigliere vengono catturati con un laccio o una rete e periscono entrambi.
È solo rifacendosi alla tradizione avestica che si può dare un senso alle numerose vicissitudini a cui alludono ripetutamente gli Yast o inni dell’Avesta. I due Shâh, Kay Khusraw e Afrâsiyâb, erano rivali nella ricerca dell’enigmatico xvarnah, reso come «la Gloria», ossia il Carisma della Fortuna; per ottenerlo essi continuavano a sacrificare cento cavalli, mille buoi, diecimila agnelli alla dea Anâhitâ, una specie di Ištar-Artemide.
Ora, questa Gloria, «che appartiene alle nazioni arie, nate e non ancora nate, e al santo Zarathustra», si trovava nel Lago Vourukaša e Afrâsiyâb, Shâh dei turanici, popolazione anaria, non vi aveva alcun diritto.
Tuttavia, lasciato il suo nascondiglio situato in un palazzo sotterraneo fatto di ferro, «alto mille volte la statura di un uomo» e illuminato da sole, luna e stelle artificiali, egli tentò per tre volte di impadronirsi dello xvarnah, tuffandosi nel Lago Vourukaša ma: «La Gloria sfuggì, la Gloria fuggì via, la Gloria cambiò sede» […]
La Gloria invece fu assegnata a Kay Khusraw e gli venne conferita senza tante formalità.
A questo punto si può tranquillamente affermare che lo xvarnah rappresentava la Legittimità o il Mandato Celeste che viene concesso ai sovrani, ma che può anche essere loro tolto facilmente: Yima (Jamshîd), il più antico «sovrano universale», lo perdette tre volte.
La storia delle immersioni di Afrâsiyâb ha avuto molte diramazioni nel folklore eurasiatico: qui, Afrâsiyâb diventa il «Diavolo», e Dio lo manda a tuffarsi in fondo al mare così che, nel frattempo, uno degli arcangeli (oppure sant’Elia) possa rubare un oggetto prezioso che appartiene legittimamente al Diavolo. Talvolta l’oggetto in questione è il sole, talvolta è la «potenza divina», o il tuono e il fulmine, o perfino un trattato tra Dio e Diavolo rivelatosi svantaggioso per Dio.
Rimane ora il dénouement essenziale. Durante tutti questi anni ricchi di eventi, Kay Kâ’ûs, saldo nella sua Gloria, ha regnato congiuntamente al nipote di Kay Khusraw. Poco dopo la vittoria riportata da questi sul parvenu Afrâsiyâb, Kay Kâ’ûs muore e Kay Khusraw ascende al Trono d’Avorio. Per sessant’anni, dice il poema, «il mondo intero fu obbediente al suo potere».
Ciò che colpisce è che non vi sia alcun riferimento a eventi successivi alla morte di Kay Kâ’ûs, forse, ciò è dovuto al fatto che tutto è stato ormai compiuto: i regni felici non hanno storia.
Il racconto dice invece che Kay Khusraw cade in preda a una malinconia profonda e a un travaglio interiore: teme di «diventare arrogante nell’animo, corrotto nel pensiero» come i suoi predecessori Yima (Jamshîd) e, tra gli altri, lo stesso Kay Kâ’ûs che, come il babilonese Etana, aveva cercato di farsi portare in cielo dalle aquile.
Prende pertanto la decisione suprema:
«E ora penso sia meglio che io me ne vada
a Dio in tutta la mia gloria […]
poiché questa corona e questo trono dei Kay passeranno».
Poi, il grande Shâh, colui che una volta (alla sua prima ascesa al trono accanto a Kay Kâ’ûs) aveva affermato:
«Il mondo intero è il mio reame, tutto è mio
dai Pesci giù fino alla testa del Toro»
(Firdusi, Shâh-nâma, 2, p.407)
prepara la sua partenza e si accomiata dai paladini, respingendo le loro suppliche e quelle dell’intero esercito:
Un grido si levò dall’esercito dell’Iran:
il sole ha deviato dal suo cammino in cielo!
[…]
Lo Shâh nomina Luhrâsp suo successore e si ritira sulla cima di un monte accompagnato da cinque dei suoi paladini; a questi, la sera, prima di sedersi tutti per l’ultima volta a parlare del grande passato che hanno vissuto insieme, egli annuncia:
«Quando il sole radioso leverà il suo stendardo
e trasformerà la scura terra in liquido oro,
quello sarà il momento della mia dipartita
e forse in compagnia di Surûsh»
[Surûsh = avestico Sraoša, l’«angelo» di Ahura Mazda]
Verso l’alba si rivolge agli amici ancora una volta:
«Addio per sempre! Quando il cielo riporterà
il sole, voi non mi vedrete più,
d’ora in avanti, se non nei vostri sogni. E inoltre
non rimanete qui domani su queste aride sabbie,
nemmeno se le nubi piovessero muschio; dai Monti
s’alzerà infatti un vento furioso, spezzerà i rami
e le foglie degli alberi; una tempesta di neve
precipiterà dalle nubi minacciose del cielo,
e la via dell’Iran voi non ritroverete».
Chinarono il capo gravemente i cavalieri alla notizia.
Il sonno dei guerrieri fu doloroso, e quando il sole
si alzò sulle colline, lo Shâh era scomparso.
I cinque paladini si perdono e rimangono sepolti sotto la tormenta […]
Il mito di Quetzalcoatl è ancora più circostanziato: il sovrano esiliato viene scortato dai nani e dai gobbi e anche costoro si perdono nelle nevi di quello che ora è il passo Cortez. Il sovrano invece prosegue fino al mare e se ne va. Ma lui, almeno, promette di ritornare a giudicare i vivi e i morti.
(Santillana-von Dechend, Il mulino di Amleto)