Immagine e simulacro

don-chisciotte-e-sancio-pancia-disegnoQualcuno ha detto che noi non immaginiamo più – che a dispetto del dilagare apparente dell’Immaginario, i nostri sono ormai i tempi del Simulacro.
C’è della nostalgia, si sente che c’è del rimpianto in quell’«ormai». I bei tempi di una volta! ti ricordi? allora immaginavamo …
Nostalgico o no, comunque ha detto che i mostri, i fantasmi, e tutti i mulini a vento che da don Chisciotte a venire in qua ci è dato d’incontrare, non sono più i «nostri», che non siamo più noi a fantasticarli, che li troviamo bell’e fatti, che in qualche modo ci viene risparmiata la fatica di crearceli uno per uno, ciascuno a uso e consumo delle sue proprie mostruosità.

Ha detto che Dulcinea del Toboso è una «copia», riveduta e scorretta, di Angelica. Una simulazione. Che don Chisciotte non è, ma recita la parte del paladino. Che il sant’Antonio di Flaubert non ha fatto altro che scoperchiare l’evidenza di questa moderna «mostruosità» costretta a rimuovere e a non guardare mai in faccia i suoi mostri, e a cercare rifugio nei mostri che abitano «fuori», nei libri, a teatro (e aggiungiamo noi: al cinema, in televisione, e nella rete di tutti i nuovi mezzi di comunicazione fino al cellulare).

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Bruegel il Giovane – Tentazioni di sant’Antonio (dettaglio)

Ho detto cellulare?
Come non li vedi pure tu in giro tanti sant’Antoni «distratti» dai mostri reali e stregati dai mostri che cinguettano nella Rete?
È sconcertante, Bruegel ci ha pittati qualche secolo fa!
Abbiamo gli occhi per vedere il mondo, ma non li usiamo più per guardarlo in faccia. Non sosteniamo più la «visione diretta», immediata, del mondo: vedremmo, d’altronde, un mondo insignificante anonimo e terribilmente spaventoso (o almeno è ciò che temiamo).
Il mondo in cui riusciamo a stento a vivere, da cui possiamo raccattare un po’ di sogno o quanto meno di senso, è il mondo «filtrato», mediato, filmato, rappresentato, raccontato, vissuto e vivibile «là dentro», nel solo «posto» che ci è rimasto dove sia ancora possibile informare le nostre cellule nervose, dei mostri con cui sono chiamate a misurarsi.
I soli mostri che le toccano, sono ormai dei simulacri. Copie di copie di copie sempre più sbiadite, ma rispetto a quale «originale» è ancora tutto da dire.

Intendiamoci: i nostri simulacri sono crudelmente reali. Hanno dimostrato anzi una tale forza di penetrazione nella «realtà» che neanche la più ardita e creativa immaginazione degli Immaginativi di una volta poteva augurarsi.
vampiroPiù sono simulati, più sono finti – e più sono reali.
Lo sono da molto tempo prima che s’inventasse il cellulare.
Il cellulare non è, in ordine cronologico, che l’ultimo organo di cui il Grande Simulatore (parliamoci chiaro: sto dicendo «l’Uomo», l’Uomo Perfetto, il Sovrano Ideale di tutte le simulazioni – sto dicendo il «SI» soggetto invisibile dei «si dice», nonché dei «si fa», «si va», «si gira», «si trova gente») si è dotato per insistere nella sua millenaria macchinazione (se la chiamassi «creazione» o «produzione», non cambierebbe d’una virgola il nocciolo della questione).

È detto: a immagine e somiglianza. È scritto nei libri più antichi del mondo. È registrato all’anagrafe. Immaginazione e simulacro sono gemelli: vedessi come si somigliano, ma non sono la stessa «cosa»!
Può mai essere che nessuno è stato mai tentato prima di sant’Antonio dall’idea d’immolarsi alla pura «somiglianza», pur di non vedere coi suoi occhi, pur di non fantasticare con la sua fantasia? o quando finalmente Flaubert produce il personaggio-simulacro, solo allora i «simulatori» sono stimolati a prendere atto del grado a cui è degradata la loro mostruosità?

Simulare, non è proprio dell’Immaginazione? L’immagine non simula sempre e comunque il «reale»? come facciamo dunque a distinguere i due gemelli, se si somigliano così tanto?
L’immagine è sempre un simulacro in potenza, il simulacro non è mai l’immagine in atto. Non ricordo chi l’ha detto. Suppongo che volesse dire che l’immagine si produce a contatto diretto col «reale», e che il simulacro ne è la riproduzione a dir poco di seconda mano. Voleva, forse, allo stesso tempo dire che il simulacro è la «vendetta» (Nemesi) che la «realtà» si prende sull’immaginazione che ha osato immaginarla Venere.
Qualcosa come: la prossima volta impari a immaginarmi!

Immaginatevi voi in bocca a quale padreterno starebbe bene una frase del genere, ed ecco spiegato perché, quando qui si dice «reale», s’intende «divino».
È a immagine e somiglianza di «dio» che è nato l’Uomo, se non sbaglio.
Non vuoi chiamarlo «divino»? ti sembra troppo «ecclesiastico»? fa’ come Lacan: chiamalo «reale primitivo», è l’«ineffabile», l’«inattingibile», il «coso in sé» contro cui ogni pensiero va, prima o poi, a sbattere il muso.
E allora, consiglia Lévi-Strauss di trattarlo come il manitù dei Pellerossa o il duende dei ballerini di flamenco – ossia come la termica di grado zero della fucina della loro danza immaginaria.

camicia-di-forzaL’Immaginazione è un linguaggio, non ce lo scordiamo. E come tutti i linguaggi ha un suo codice nel quale «traduce», per dirla alla Nietzsche, i tic nervosi, ovvero le reazioni, più o meno ansiose, al mondo che abita.
L’immaginazione Umana codifica, scrive, registra queste «interazioni» in cui ci tocchiamo i nervi a vicenda. Tutti, e giustamente, a dire: siamo stati toccati prima d’essere stati noi a toccare l’Altro!
Chi ci ha toccati per primo non si sa: è il Reale Ignoto, il mistico dice che è la Realtà Vera, dice che solo Lui è Reale, e che a noialtri ci tocca solo una manciata di simulazioni (in sogno soprattutto, o nelle allucinazioni estatiche) di quella Realtà, solo qualche sua imitazione. Dopo di che non resta che discutere, sono cinque millenni che lo stiamo facendo, e poi ci meravigliamo se qualcuno si è stancato di stare a discutere se e quanto quell’imitazione è «autentica», cioè di prima mano, imitata direttamente dall’Originale «divino coso in sé», o se non sia soltanto un «falso», soltanto un simulacro che cerca di spacciarsi per «vero».

Ne abbiamo accocchiate tante di chiacchiere, e sotto una montagna di chiacchiere continuiamo a seppellire le nostre prime domande, pardon le nostre prime «reazioni a catena», i primi strappi con cui abbiamo provato a divincolarci dalla stretta del mondo, da un mondo che cominciava ad andarci stretto.
Sto dicendo che è per una via stretta, per una sola via fra le tante che pure sono possibili, solo per quel sentiero che si entra (e, stando alle parole del Vangelo, si esce) per la porta dell’Umano.

L’Umano confina a nord col Divino – col «valore infinito», lo chiama Mastro Dante: col «valore» in cui ogni computo della mente umana si perde. È il valore zero del mana e dell’orenda dei «selvaggi primitivi». È il fonema zero dei dottori di linguistica. È quella cosa di cui tu dici che «è» senza sapere «cos’è», ma con la certezza che «è», e guai a chi ti chiede che cos’«è» mai questa idiozia parmenidea dell’«essere», perché è quella a cui chi te la confuta sta facendo ricorso per formulare la domanda!

L’Umano confina a sud con l’Inferno – con tutti i simulacri che sono stati prodotti sopra le immagini divine, sopra gli incontri diretti e senza mediazioni tra i nervi d’un cucciolo della nostra specie e il Reale così come egli l’incontra mentre comincia a codificarlo nella sua immaginazione. Il Reale che egli ancora non simboleggia, che ancora non traduce in simboli verbali. Il Reale senza nomi, e dunque senza dio e senza diavoli, senza sì e no, senza inferni e paradisi.

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Munch – Il bacio

Quel Reale là che dicemmo, appunto, inattingibile zenit dell’Umano.
Tale lo dicemmo perché il cucciolo diventa umano, il giorno in cui è fatto in due pezzi, di cui almeno uno sprofonda sotto terra. Diventa uomo il giorno in cui è passato da parte a parte, oltre che dalla sua «apollinea» disgiunzione (è Apollo che su ordine di Zeus viene a spezzare in due il suo ermafroditismo), anche dalle disgiunzioni «dionisiache» (intendo le ebbrezze della trasgressione e dell’illegalità) che invasano le inconsce baccanti del discorso umano.

Cercavamo i mostri, ed eccoli qua!
Sono verbali scritti e riscritti, in ciascuno di noi, dal Calamo di un dio a due mani: lo Scritto, l’Uomo, è o non è a sua immagine?
Che la destra non sappia ciò che fa la sinistra, che Apollo e Dioniso facciano finta di non conoscersi, e viceversa – che il diavolo si astenga dal guardare in faccia i mostri che produce quando crede di essere un santo.

Simuliamo, imitiamo, facciamo di tutto per somigliarci, ci copiamo a vicenda, ci rubiamo l’un l’altro i fantasmi, cracchiamo le porte dei Mostri a pagamento, in una sorta di tacito olocausto di tutto ciò che umanamente fu una volta amabile. Amiamo, ormai, per aver letto, come Francesca e Paolo, un certo qual libro galeotto. Amiamo, come minimo, di seconda mano. Amiamo con la destra ciò che la sinistra non sa di uccidere. Non ce la facciamo più ad amare con tutt’e due le mani. Ce n’è almeno una delle due che simula.

Ma dov’è la novità del problema? Simulare è tutto l’Umano.
Finché saprà simulare perfino la distruzione dei suoi simulacri, a cominciare da quelli suoi più sacri, l’Umano continuerà a essere tal e quale.
E forse, proprio quando la simulazione l’avrà condotto lontano dai mostri che produceva e riproduceva, creandoli e distruggendoli con buona pace di Šiva e di Visnu, proprio là dove più si sentirà al sicuro, difeso dalla «distanza» che la simulazione avrà a quel punto saputo «fingere» come la più vicina delle vicinanze, forse là, per aggrapparsi all’ultimo resto di Possibile, si vedrà costretto a prendere atto di essere tornato a due passi da quel Termine che voleva scongiurare.
Il più finto dei simulacri lo costringerà, forse, l’Ultimo Giorno, il Giorno in cui metterà finalmente Giudizio, a riconoscere il germe della finzione che era già nel primo seme incubato nella sua immaginazione.