Bretagna – La vera e la falsa Ginevra

Artu-banchettoUn giorno che il re Artù era seduto a banchetto, circondato dai baroni, giunse davanti al palazzo una damigella, accompagnata da un cavaliere molto vecchio e canuto.
Entrando nella sala, ella lasciò cadere il velo, e si vide una pulzella di grande bellezza, riccamente vestita di drappo di seta, i capelli riuniti in una sola treccia lunga, spessa, chiara e lucente.

«Dio salvi il re e tutta la sua compagnia!», ella disse.
«Damigella – rispose il re – che Dio vi doni buona ventura!».
Dopo di che il vecchio cavaliere, che era entrato con la pulzella, le consegnò una scatola d’oro e di pietre preziose, ed ella ne estrasse una lettera che porse al re.
«Sire, prima che facciate leggere questa lettera, riunite qui dentro tutti quelli della vostra casa comprese le dame e le damigelle, ché sappiate che vi si tratta d’un grande e nobile affare: conviene che tutti l’ascoltino».

Il re fece dunque chiamare la regina Ginevra con tutte le sue dame e tutti i preti, cavalieri e sergenti della sua casa; poi, davanti a loro, ricevette la lettera e l’affidò a quello dei suoi chierici che era di miglior senno e parola.
Ma appena il chierico vi ebbe gettato lo sguardo, fissò la regina, appoggiata alla spalla di monsignor Galvano che era seduto ai suoi piedi, e il cuore gli si serrò così forte che non avrebbe saputo pronunciare una sola parola, gli avessero pure tagliato la testa.

Il re, stupito, chiamò un altro chierico che a sua volta prese la lettera; ma subito la gettò in grembo al suo signore e se ne andò, dando segni del duolo più grande al mondo.
Allora il re convocò il cappellano e, molto turbato, lo scongiurò per la messa che aveva cantata di dirgli tutto quello che si trovava scritto, senza niente celargli.
E il cappellano, dopo aver scorso la lettera, sospirò e disse: «Ahimé! sire, dovrò pronunciare parole che rattristeranno tutta la corte!».

Poi lesse quanto segue: «La regina Ginevra, figlia di re Leodagan di Carmelide, saluta re Artù com’è suo dovere, e tutta la sua compagnia di baroni e cavalieri. Re, innanzitutto mi dolgo di te, ché non conviene a un re tenere una donna in concubinaggio come fai tu. È verità provata che io fui unita a te per matrimonio leale. Ma, sia per volontà tua o per altrui consiglio, al posto mio fu messa colei che era mia serva e servente. Questa Ginevra traditrice, che tu tieni per sposa, m’ha scacciata dal mio regno e diseredata. Ma Dio, che mai dimentica coloro che si abbandonano alla sua misericordia, m’ha liberata dalle sue mani. Io chiedo che sia fatta vendetta su questa slealtà per giudizio della tua corte, e che tu faccia ammenda delle colpe passate. E poiché non posso scrivere tutto quello che voglio dirti, t’invio il mio cuore e la mia lingua: vale a dire la pulzella che ti porta questa lettera. Voglio che tu creda a ciò che ti dirà da parte mia. Quanto a colui che l’accompagna, è il cavaliere più leale di quanti vivono nelle Isole del Mare».

Il cappellano si tacque e tutti restarono sbalorditi. Il re, dopo lungo silenzio, fissò la pulzella: «Damigella – disse – potete parlare poiché portate il cuore e la lingua della vostra signora. E vorrei sapere chi è questo cavaliere, che è il più leale di tutti quelli delle Isole del Mare».
La damigella prese per mano il suo vecchio compagno e lo condusse al cospetto del re. Era rugoso e canuto, e sembrava di età molto avanzata. Il viso era pallido e pieno di cicatrici, e la pelle del collo cascante. Ma aveva le spalle larghe e tornite, era alto e possente e si teneva dritto come un giovane.

Artu-Ginevra-crux

«Sire, – disse la damigella – quando veniste in Carmelide con tutta la vostra compagnia al servizio di re Leodagan, messere il re vi donò la figlia, la dama più valente che ci sia. Ma, al mattino dopo la notte nuziale, quando vi foste levato, la mia signora fu tradita e ingannata da colei di cui più si fidava, ché fu rapita, e questa damigella che si fa chiamare Ginevra andò a coricarsi nel letto al posto di madama, e voi non v’accorgeste di nulla, tanto meravigliosa era la somiglianza tra le due. Madama fu rinchiusa in una prigione e questa damigella credette che fosse stata uccisa. Ma madama fu salvata per volontà di Dio e grazie a questo cavaliere, che la liberò con astuzie e artifizi. Ora ella è tornata al regno di Carmelide, e i baroni l’hanno riconosciuta e le hanno reso la terra. Ed ella richiede che manteniate i vostri giuramenti e che la riprendiate come vostra sposa leale, facendo giustizia di colei che la mise in pericolo mortale. E se voi, o alcun altro, voleste affermare che madama non fu tradita, io sono pronta a provare il contrario, alla vostra corte o altrove, per mezzo di un cavaliere leale e prode».

Quando la damigella ebbe così parlato, tutta la corte fu presa da stupore e il re si segnò più volte, una dopo l’altra.
«Signora, – disse alla regina – alzatevi e discolpatevi dei fatti di cui vi si accusa. Dio mi aiuti! Se foste come dice questa damigella, voi che eravate considerata la dama più valente del mondo, sareste invero la più falsa e la più sleale!».

La regina si alzò, e non aveva l’aspetto di donna intimorita. Con lei si levarono duchi e conti; ma messer Galvano l’accompagnò fin davanti al re e prese la parola per lei.
«Damigella – disse alla pulzella – vogliamo sapere se è di madama la regina che avete parlato come avete fatto».
«Non ho affatto parlato di una regina, ma di questa falsa Ginevra, che commise il tradimento».

«In nome di Dio, madama è invero monda da tradimento! Mi facevate quasi dimenticare la cortesia verso le dame cui mai ho mancato, e vi dico che avete enunciato la più grande follia che mai donna abbia inventato. E quand’anche l’avessero giurato tutti quelli del vostro paese, ciò non renderebbe più vero quanto dite. Sire – aggiunse – eccomi pronto a difendere madama la regina contro il corpo di non importa qual cavaliere e a giurare che ella è la vostra compagna sposata in leale matrimonio».

«Signor cavaliere – rispose la damigella – bisognerà bene che conosca il vostro nome».
«Mai l’ho nascosto per timore d’alcuno: mi chiamano Galvano».
La damigella sorrise.
«Messer Galvano, son ora più lieta di quanto fossi prima di sapere il vostro nome, ché vi conosco sì valentuomo e sì leale che non affermereste con giuramento simili parole, foss’anche per il regno di Logres. Tuttavia, se osate rischiare la battaglia, l’avrete. Bertolai – ella disse al vecchio cavaliere – siete pronto a sostenere il diritto contro monsignor Galvano o alcun altro?».
Il vegliardo s’inginocchiò al re e offrì il pegno […]

Ma il re sollevò Bertolai dandogli la mano.
«Damigella – disse – non voglio decidere cosa sì importante senza consiglio e senza riunire i miei baroni. Dite alla vostra signora che la cito alla Candelora e che in quel giorno venga a Bedingran, nella marca d’Irlanda e di Carmelide, ché voglio che la cosa sia giudicata dai miei baroni e da quelli di Carmelide insieme. Ma badi a non avanzare cosa che non possa provare, ché, per Colui da cui mi viene lo scettro, quella delle due che sarà ritenuta colpevole, subirà una vendetta di cui si parlerà per sempre! E voi, signora – fece alla regina – siate pronta a difendervi quel giorno» […]

Re-ArtuRe Artù tanto cavalcò che giunse al castello dell’Incantamento, in Carmelide. La falsa Ginevra scese ad accoglierlo nel cortile, e quando egli la scorse fu molto stupito, ché credette di vedere la regina in persona.
Sappiate, infatti, che re Leodagan era il padre di questa falsa Ginevra, che aveva avuta dalla moglie del proprio siniscalco, così come era padre della vera regina, e la somiglianza tra le due figlie era sì meravigliosa che, quando entrambe avevano gli stessi ornamenti, non le si poteva distinguere l’una dall’altra.

Al tempo del matrimonio della vera Ginevra, la sorellastra aveva tentato con lei lo stesso tradimento di cui ora l’accusava, ed era stato su consiglio di Bertolai; ma ne era stata impedita da Merlino l’Incantatore, senza che alcuno lo sospettasse.
«Sire – ella disse – ora vi tengo nella mia prigione e mai ne uscirete, se non mi renderete giustizia».
Detto ciò, ordinò che si servisse il desinare e non bisogna domandare se il re ne fu onorato. Ma egli era sì sconsolato che non volle quasi mangiare, finché la dama gli ebbe offerto un beveraggio che aveva preparato con Bertolai.

Egli ne bevve, e subito divenne lieto quanto prima era stato triste.
Allora, la falsa Ginevra pensò che molto avrebbe guadagnato, se avesse potuto far sì che, in virtù del filtro e della propria persona, il re l’amasse d’amore.
Quando giunse il momento di coricarsi, il re fu condotto in una camera, dove era stato preparato un letto molto ricco, come s’addiceva a uomo sì nobile, e la dama gli disse: «Certo, se foste valentuomo, dovrei piacervi, e avreste grande gioia del fatto che Dio ci ha riuniti. Ma, se Nostro Signore lo vorrà, colei che ci ha separati avrà la sua ricompensa e, se non pagherà in questo mondo, pagherà nell’altro».
Detto questo, si misero a letto e quella notte condussero una ben piacevole vita. Fu così tutto l’inverno e, grazie al veleno che la dama gli dava da bere ogni giorno, il re cominciò ad amarla. Eppure, quando giunse Pasqua, egli disse che non poteva più sopportare di non aver notizie della propria gente.

«Dio mi aiuti! – disse la falsa Ginevra – non uscirete mai dalla mia prigione, ché so troppo bene che vi perderei, se tornaste nella vostra terra. E preferisco avervi povero qui, che sapervi signore del mondo intero, lontano da me».
«Bella e dolcissima amica, io vi amo più che alcun altro; eppure pensavo che nessuna donna potesse valere quella che mi ha ingannato con la sua slealtà; ché non c’è dama di maggior intelletto, né di sì gran cortesia, e sì dolce, sì benevola, sì generosa. In tutta la Bretagna si diceva che ella era lo smeraldo tra le dame».

Così il re lodava la moglie davanti a colei che ne voleva la rovina. Ma sempre la falsa Ginevra gli faceva bere il filtro, tanto che egli finì per prometterle di riconoscerla regina, purché i baroni di Carmelide testimoniassero davanti a quelli di Bretagna che lei era proprio la figlia di re Leodagan. Cosa che lei accettò senza timore, perché ogni giorno Bertolai s’adoprava a persuadere quelli del paese che era lei la loro vera signora […]

Quando i due baronaggi furono riuniti a Bedingran, il re così parlò: «Signori, vi ho qui convocati perché un re non deve nulla intraprendere senza il consiglio dei suoi uomini più nobili. Voi conoscete la querela e la denuncia presentata da una damigella a Camelot il giorno della Candelora. Allora pensavo che ella avesse torto, ma ora so bene che ha ragione e che colei che ha vissuto a lungo con me ha commesso tradimento; le genti del regno di Carmelide testimonieranno che ella è la figlia del siniscalco di re Leodagan. Vi ho riuniti in assemblea perché mi consigliate com’è vostro dovere».

Galeotto si fece avanti.
«Sire, tutti vi giudicano il maggior valentuomo che esista. Ma come si può sapere se madama è colei che dite? È mio avviso che ella è la regina buona e leale, quelli di Bretagna l’hanno sempre ritenuta tale».
«So bene ciò che è vero – rispose il re. – I cavalieri di questo paese conoscono meglio di quelli di Bretagna qual è la figlia di re Leodagan e della sua legittima moglie. Colei che essi concordemente designeranno come tale, sarà signora e regina».

Artu-rilievo

Fece allora portare le più preziose reliquie che si poterono trovare; poi fu chiamata la regina Ginevra, da una parte, e dall’altra quella che voleva farsi passare per lei; e il re disse ai baroni di Carmelide di giurare sui santi che avrebbero parlato senza amore né odio, e confessato la verità.

Bertolai il vecchio s’inginocchiò per primo, stese la mano sulle reliquie e si fece spergiuro, poi prese la falsa Ginevra per mano e la indicò come la figlia di re Leodagan e della regina sua sposa. Tutti i nobili di Carmelide fecero come lui, e così la vera regina Ginevra fu privata dell’onore. Di tutte le cose che fece re Artù, questa è quella di cui fu più biasimato.
«Signori – disse – vi ordino come a miei uomini ligi di giudicare ora colei che per tanto tempo m’ha fatto vivere in peccato mortale».
E avrebbe accettato che la regina fosse consegnata alla morte, tanto la falsa Ginevra gli aveva fatto prendere i suoi medicamenti. Ma messer Galvano dichiarò che non avrebbe assistito al giudizio in cui la dama che egli aveva tanto amato sarebbe stata senza dubbio condannata a essere arsa e annientata, e tutti quelli del regno di Logres dissero altrettanto.

«Se non volete procedere al giudizio – esclamò il re pieno di collera – troverò bene chi lo pronuncerà, e sarà prima di notte».
Detto ciò, ordinò a quelli di Carmelide di emettere la sentenza. E quando Bertolai il vecchio gli ebbe fatto osservare che, dal momento che un sì nobile baronaggio come quello di Bretagna rifiutava di prendervi parte, bisognava bene che egli fosse presente al parlamento di persona, si alzò e andò con loro.

I Bretoni, intanto, che erano rimasti nella sala, si chiedevano tristemente cosa avrebbero fatto se la loro signora fosse stata condannata a morte.
«Io lascerò per sempre la casa del re mio zio – disse messer Galvano – e mi esilierò in un paese straniero».
Messer Ivano e Keu il siniscalco esclamarono che avrebbero fatto lo stesso.
«In quanto a me – disse Galeotto – perderei il corpo e la terra piuttosto che lasciar morire madama la regina. Tuttavia, conviene condurre la cosa con cautela: pregate dunque monsignor il re, appena ritornerà dal giudizio, di concederle la vita e, se non vuole, prendete congedo e ritiratevi nei vostri castelli: vedrete in seguito come agirò» […]

Bertolai prese la parola: «Ascoltate ora, signori cavalieri di Bretagna, il giudizio emesso per consenso di re Artù. Colei che ha vissuto in sua compagnia contro Dio e contro ogni ragione vedrà distrutto in lei tutto ciò che è stato consacrato: poiché portò corona senza averne diritto, i capelli le saranno tagliati così come il cuoio capelluto; lo stesso con la pelle delle mani, ché sono state unte, infine gli zigomi delle guance, affinché la si possa riconoscere per sempre. Poi lascerà la terra di re Artù per non farvi mai più ritorno».
All’udire la sentenza, quelli di Bretagna gridarono che maledicevano coloro che l’avevano emessa, a eccezione di monsignore il re […]

Poi prese la parola Lancillotto e disse: «Sire, per vostra grazia sono stato compagno della Tavola Rotonda, ma me ne svesto come ho fatto col mio mantello: posso così protestare contro di voi alla vostra stessa corte. Il giudizio di madama è falso, maligno e sleale: sono pronto a provarlo con la persona e le armi. E se non basta un cavaliere, ne combatterò due, e persino tre» […]

Artu-Lancillotto«Lancillotto – disse il re – è vero che le vostre prodezze sono note, ma avete intrapreso cosa troppo grande pretendendo di invalidare il mio giudizio: mai cavaliere l’ha osato. E voi tentate da folle. A Dio non piaccia che nella mia corte io lasci combattere un cavaliere contro tre».
«Sire – esclamò Galeotto – non è giusto, davvero! Mai nel regno di Logres è stata accettata battaglia di uno contro tre».
Ma Lancillotto giurò che avrebbe combattuto così. I baroni di Carmelide erano crudelmente offesi di vederlo invalidare il loro giudizio, così come del disdegno dimostrato per il loro valore. Sicché il re dovette ricevere i pegni che le due parti gli rimisero in ginocchio […]

[Lancillotto vince il «combattimento di giustizia», e così il giudizio viene invalidato]

E quella notte stessa Nostro Signore compì una grande vendetta sulla falsa Ginevra, ché tutto il corpo fu colpito dalla paralisi, salvo gli occhi e la lingua. E subito il cuore cominciò a imputridire e il petto a emanare un tale fetore di corruzione che nessuno avrebbe potuto resistere nella camera, non fosse stato per le buone spezie che vi si mettevano.
Re Artù, che l’amava sempre, mandò a cercare i più saggi speziali che si potevano trovare; ma nessuno seppe donde venisse la malattia. In poco tempo la falsa Ginevra peggiorò talmente che il re, che menava gran duolo, fece chiamare un prete per confessarla […]

Allora quella finalmente confessò tutto il tradimento dall’inizio alla fine e senza nulla celargli.
«Signora – disse il valentuomo – vi darò una penitenza molto leggera per il corpo e molto utile all’anima. Pentitevi davanti al re e a tutti i baroni di quanto mi avete appena confessato, e dite come avete fatto bere un filtro a monsignore perché si prendesse di voi. E sarà a onta del diavolo e a onore di Dio».
Così ella fece. E quando il re udì ogni cosa, si segnò più volte; poi chiese ai baroni quale giustizia si dovesse fare della falsa Ginevra e di Bertolai il vecchio, che aveva ordito il tradimento. Chi fu d’avviso che si dovesse bruciarli, chi appenderli; ma fratello Amustant consigliò di rinchiuderli in un vecchio ospizio, ove essi di lì a poco morirono.

(Galeotto signore delle Isole Lontane, 23, 30, 31, 32, 34)