Mi ricordo che sin dall’età di otto anni, e anche prima, mi sono sempre chiesto chi fossi, che cosa fossi e perché vivere, mi ricordo all’età di sei anni in una casa del viale della Blancharde a Marsiglia (al n.59 per l’esattezza) di essermi chiesto all’ora della merenda, pane e cioccolata che una certa donna chiamata madre mi dava, di essermi chiesto cosa fosse, essere e vivere, che cosa fosse vedersi respirare, e di aver voluto respirarmi allo scopo di provare il fatto di vivere e di vedere se mi convenisse, e in cosa mi convenisse …
(frate Antonino Artaud)
Il bambino è un essere metafisico, commenta Deleuze. Nei suoi interrogativi, come nel cogito cartesiano, non sussistono genitori. Nella sua immaginazione non ci sono ancora più o meno rigide parentele a «ordinare» il mucchio di semi delle sue fantasie. Eppure c’è già all’opera una certa formichina a capo di un esercito di formiche dalla testa rossa, e altrettante, forse più forse meno, dalla testa nera, per non parlare di quelle miriadi di zampette fosforescenti (Dante le chiama «le candide stole») di certe angeliche formichine dalla testa bianca.
Le parentele o equazioni immaginarie ci sono, ma poiché si estinguono sul momento, poiché sono prodotte e consumate sul posto, a beneficio esclusivo del Satiro parassita che se le pappa, poiché spuntano come funghi nei vasti campi dell’ansia e, come questa, vanno colti freschi, sennò marciscono ammorbano e deprimono – proprio perciò sono impotenti a darsi, si rifiutano, oserei dire, di darsi una regolata.
Perciò, quando immagina, il bambino è sempre un orfano. Come Melchisedec, si aggira nel mondo immaginario, che non ha né padre né madre.
Ecco perché, a chi vuole entrare nel «regno dei cieli», a chi vuole penetrare nei cieli della sua propria infanzia – di quella sua età «originaria» non ancora iniziata al linguaggio simbolico, in cui ancora il Discorso dell’altro non aveva inoculato il primo seme d’inconscio umano – il Vangelo consiglia di abbandonare il padre e la madre.
Perché il padre e la madre vengono dopo a ordinare il mucchio.

Inquadrando la vita del bambino nell’Edipo, facendo delle relazioni familiari l’universale mediazione dell’infanzia, ci si condanna a misconoscere la produzione dell’inconscio stesso – dice Deleuze. Ci si condanna a perdere di vista tutta la produzione «istintiva» di desiderio che precede l’avvento del bambino nel linguaggio simbolico, o per dirla all’antica: che precede la sua caduta dalle stelle (de sideribus) dell’immaginazione nell’inferno di questa nostra Parola maledetta.
Maledetta, perché dice male di Se Stessa – quando dice d’avere un padre e una madre. E soprattutto se al bambino lo dice mentre sta giocando. Vi ricordate dei Signori di Xibalbá? Venite a giocare qui da noi! – questo mandarono a dire ai bambini. È solo un gioco, fatti incatenare – dissero gli dèi al Lupo.
La Parola entra nel gioco immaginario. Vi entra perché, in principio, è gioco pur essa. Gioca a fingere. Si finge orfana. Gioca a ingannare gli orfani: venite a respirarvi qui, gli dice, venite a vedere quanti bei balocchi ci sono, pane e cioccolata, aringhe e farinata a volontà!
Doppia Sophia – doppia perché la Parola sa parlare due lingue, l’Antica e la Moderna. Le parla, questo è il bello, tutt’e due insieme. Ogni suo vocabolo gode di questo strabismo che, non a caso, è detto di Venere. Ogni sua sillaba ha un suo proprio repertorio di smorfie e di seduzioni, ispirate tutte a una sola ambiguità. Quella che la vuole Vergine Madre.
Come il bambino – la parola è un essere patafisico. Due sillabe, da-da, appena due sillabe per dire mamma e papà, o per dire treno, e il gioco è fatto. Era un cucciolo, ora è stato umanizzato.
La Parola rimuove il disordine, il caos, il mucchio, la confusione. La Parola ordina, la Parola comanda i suoi comandamenti a chi la parla.
Il fratello povero, dice il Racconto, non aveva niente da mettere in tavola la notte di Natale, aveva solo due o tre paroline per andare a chiedere al fratello ricco (ricco di semi immaginari): dammi qualcosa da mettere in bocca!
Aveva in bocca solo le due o tre parole per lanciare quest’appello. Eppure, sta’ a sentire, gli bastarono per procurarsi un prosciutto d’avanzo alla mensa del fratello ricco.
Un prosciutto? – sai com’è, la Favola prende sempre le cose a pazziella. Sta scritto prosciutto, ma potrebbe essere miele per le mosche, specchio per le allodole, luce per le falene notturne. Sta scritto prosciutto, s’intende qualcosa che attiri il diavolo, che lo prenda per la gola.
Da un prosciutto, il fratello povero, il codice simbolico, è riuscito a procurarsi il macinino del diavolo! e da allora la Parola macina il grano immaginario, lo falcia e lo porta al mulino delle equazioni simboliche. Ma se la Parola vuole giungere a dire l’«arcaico» della sua stessa preistoria, è pregata di deporre le pagnotte della dialettica nella credenza da cui le ha prese. Ne abbiamo avuta già tanta di dialettica, da Platone in qua ne è stata macinata talmente tanta, e ce ne siamo talmente arricchiti che è ora di sapercene anche impoverire.
Se vogliamo «dire» l’inizio, bisogna che a parlare sia la parola dell’inizio, quella non ancora iniziata a una «famiglia simbolica», sia essa o no l’Edipo di una dialettica o il triangolo rettangolo di Pitagora.
Non sarà dunque il povero arricchito a dover parlare, ma nemmeno il ricco impoverito. Sarà il bambino ritrovato nel pleroma della sua insensatezza all’ultimo di Paradiso. Sarà il nervo iniziale, il primo che fu toccato in una miracolosa contingenza di due fuochi linguistici: Ulisse e Diomede, ricco d’astuzie e di parole il primo, quanto di rancori muti e d’indicibili rimpianti l’altro.
Nell’inferno della Parola maledetta, le parti si rovesciano: è la Sophia sterile che partorisce, mentre la sapiente a stento sa di essere ignorata. È vergine, ma tutti la prendono per puttana. È la diavoleria di un angelo doppio che, a ogni parola che dice, loda e bestemmia il suo duende. Il seme della sua semenza.
Ogni bambino è un angelo ricco e un povero diavolo. Ogni desiderio, dice Platone, è figlio di povertà e di ricchezza. Ogni viandante ha nel labirinto dei segni due guide: il Gatto e la Volpe. Ogni segno ha sempre due sacramenti: il malocchio e la maledizione, il codice immaginario e il codice verbale. Solo il Bicorne, dice il Racconto, può valicare l’ambigua muraglia di Gôg e Magôg.
Sophia è due sapienze in una: è la sapienza molteplice, una sola che mai è la stessa. È sempre differente, ma è sempre lei, la Molteplice.
L’hai sentita? Non importa il nome che le dai, chiamala come vuoi. Non ti chiede nient’altro che d’essere messa in bocca.
Mangiami, dice, mangiami – sono un prosciutto che fa gola, e tu sei un diavolo, se di me sei goloso (precisa il talmudista).
Mangiaci, dicono i dolcetti che Cappuccetto rosso portava alla nonna, e il lupo per assaggiarli, non c’è bisogno che ti rammenti a quali e quante astuzie dovette ricorrere.
Se c’è un peccato originale, facci caso: in tutti i racconti che assieme fanno il Racconto dell’Uomo, si racconta che fu un peccato di gola.
Pane e cioccolata a colazione a volte scatenano pensieri senza capo né coda: i bambini diventano criminali per una caramella.
L’uomo non divenne Uomo per una mela?