Inanna e la parola quando è femmina

La parola che avevano parlato era parola di desiderio.
Giocarono a litigare e venne febbre di amarsi.

Si fa presto a dire: Inanna è la dea sumera dell’amore.
Chiedetelo a Dumuzi se si è sentito più «amato» o più «ucciso» dalla dea.
Bisogna andarci piano con le parole – perché l’«amore» di cui qui si narra, è quello che strappa, quello che spezza, quello che distrugge l’«amato».
È l’amore prima dei menestrelli e dei cantastorie. È l’amore prima della poesia. È l’amore prima della parola. È il desiderio che, quando incontra la parola, l’assoggetta a dire desiderio, anche a costo di bisticciare col senso a cui la trova già asservita.

female-goddessInanna è la Natura che irrompe nella parola. È la Venere venefica che, i suoi amanti, li intossica. È la libidine distruttiva che, i suoi giocattoli, li immola al gioco del piacere e della morte. Lei che nel Paese dei morti c’è scesa, e ne è uscita viva per miracolo. Lei «uccide» ancora. Non può fare a meno di amare uccidendo.

Vi ricordate di Stella?
Era dea tra gli dèi una volta. Poi fu cacciata di casa. La svergognata. Faceva l’amore con gli alberi! – dicono le leggende maya. No, era una brava ragazza, si affrettano a dire i miti greci – solo che era troppo bella, e tutti gli dèi non facevano che pensare a lei.
Tutti i fantasmi immaginari del bambino le andavano dietro. E lei ogni volta li portava nel bosco. A cogliere il «che ne viene viene» di un momento.
A quanto pare, ne veniva sempre una morte, tutt’altro che lenta. Ne veniva un’estinzione sull’istante.

Adesso i racconti dicono che quella non era Inanna, ma Lilith. Che non era la «vera», ma la «falsa» Sophia.
Era una sapienza custodita nella cavità del legno di cui è fatto il Mondo dell’immaginazione infantile. Era la Signora Molteplice. Regnava in una terra non ancora raggiunta dalla Parola Umana.
Eravamo là, dove la parola era ancora tra l’acqua e l’argilla. Era desiderio a parlarla, desiderio che allora sapeva parlarla, la parola che era ancora all’impasto.

Adesso i racconti dicono che quella non era Afrodite, che sì era Afrodite ma un’altra: l’Afrodite Urania – mentre quest’altra, questa che simboleggia col nostro concetto di amore (che brutta fine ha fatto desiderio!), quest’altra è la sola Afrodite sexy che imperversa nelle perversioni dei suoi spasimanti.
Come si fa a dire di Lei, la «seconda» Eva della Genesi, che è «peccatrice», mentre si continua a misconoscere il «peccato» della «prima»? o viceversa, come si fa a «demonizzare» Lilith, se poi è Inanna la prima a scendere all’inferno?

Bisogna andarci piano con le parole, e soprattutto con la parola «amore», quando si dice che Inanna è la dea sumera dell’amore. L’unico dato certo è che Inanna è sumera. Solo questo: che fu la lingua sumera a produrla – questa variante fra le migliaia sparse a tutte le latitudini del Racconto, in cui si torna a raccontare di quella potenza della Natura che ha (o avrebbe, fate voi) aperto la via alla mia e alla vostra umanità.
C’è una sapienza latente che s’annida nel nostro midollo. Un sapere antico, un sapere «animale», un sapere «immaginario» su cui non è ancora passato l’Attila dei simboli umani.

I Sumeri non le davano un nome: non erano (ancora) caduti nella trappola delle antinomie a venire.
Se quella «sapienza», se quel «sapore di legno» di cui non può non sapere il burattino che assapora il suo midollo (e hai voglia se l’assapora), se essa è quello che è, non può essere che «anonima». Essa non è entrata ancora nel Tempio dell’Ordine Simbolico, e non si è ancora misurata coi suoi dottori e amministratori vari.
Sono i talmudisti, e poi i cabalisti a nominarla, e già solo per questo a «demonizzarla».
Guai a chi s’azzarda a «copulare» con Lei. Vietato fare all’amore con un tale «oggetto» d’antiquariato. Suvvia, modernizziamolo – diamogli un nome. Uno che abbracci la sua molteplicità. Uno che nel nome dell’unità contempli sette giri intorno all’Innominabile. Solo Lui ha diritto a esserlo.
Non più Lei, capisci? Lui, non più Lei ha diritto al suo anonimato.

GimbutasMa per fortuna ci sono varianti del Racconto di Stella che non si fanno gli scrupoli, e dunque, le antinomie del cabalista. Varianti che non hanno avuto bisogno di mettere a partorire un maschio. Il bisogno di escludere la donna dalla maternità della loro madre-lingua.
Quella sumera, se non altro per ragioni cronologiche, ne è immune. O quasi – perché è per noi come una fotografia scattata all’alba del maschilismo. O il che è lo stesso: al tramonto del culto della Grande Madre. Per informazioni rivolgersi alla Gimbutas.

Della carriera sumera di questa Grande Madre, i testi di cui disponiamo, per quanto frammentari, ci consentono di ricostruire i tre momenti decisivi, le tre tappe che in successione scandiscono la sua «discesa» nel Paese della morte.
La storia d’amore che la lega al pastore Dumuzi non è che il momento culminante di un dramma che, in qualche modo, è già annunciato nelle due scene precedenti: quella in cui la dea, sradicato l’albero di huluppu, se lo trascina nel giardino di casa per farne un trono e un letto, e quella in cui è investita da Enki, il Signore Sapienza di Mesopotamia, dei sacri poteri, i me, che sono insieme le misure cosmiche del Paese della morte e i segreti della Vita Immortale.

L’huluppu della Donna fa innalzare il cedro del Maschio. Non c’è bisogno di parole. Qui è la Natura muta a «simboleggiare» tra i due sessi. Le parole vengono dopo. Vengono, è vero, da quell’istinto naturale a scambiarsi, a metaforizzarsi, a migrare nella permuta con l’Altro, a desiderare d’essere l’Altro, e a estinguersi nell’istante di questo desiderio – ma vengono dopo, molto dopo. Vengono ai «sopravvissuti». E quando vengono, come vengono sulla bocca del pastore Dumuzi, si riducono a dire solo questo: «Aprimi, mia Signora!».

Dall’inguine del re eretto sorse il cedro.
Piante spuntarono ai suoi fianchi, giardini rigogliosi in fiore …

Mesci per me, Inanna:
ciò che tu offri, tutto io lo berrò …

Mi bagnai per il toro selvaggio …

La Regina del cielo, cui Enki donò i sacri me,
Inanna, figlia della Luna, elargì allora a Dumuzi
i suoi poteri …

Stringi stringi: Inanna seduce.
Tutto qua: chiunque parli il sumero, non è che un «sedotto da Inanna». Punto. Questo è il solo dato certo: che sotto quel nome riposa (tutt’altro che in santa pace) la sua «anonima» concorrente.
Che l’unico «fatto reale» è l’inizio dell’eterno conflitto in cui la Nominata e l’Anonima (il Simbolico e l’Immaginario) si contendono la dominazione sulla lingua del Maschio. Niente di legale – visto che se la scippano con la forza della loro «natura».

La sapienza non si contratta. Si ruba e si dona. Punto.
Inanna sa dell’Anonima: per sedurre il Maschio, per attrarne su di sé il flusso immaginario, Inanna deve peccare dello stesso peccato di Lilith – per dirlo in lingua ebraica, o giù di lì: Inanna deve parlare la stessa lingua che Eva parlò al serpente.

Certo, il lettore attento non si sarà lasciato sfuggire che tutta la messinscena di Inanna si riduce, nelle intenzioni dell’antico narratore, a tracciare soltanto un «passaggio di consegne» dei me (i pesi e le misure del mondo) da Maschio a Maschio, da Enki/Ea a Dumuzi. Dal Signore di Sapienza a un umile pastore. Inanna non sarebbe dunque che il Tramite di questo passaggio. La «colpevole» della Colpa.

Da Oriente a Occidente, da Sud a Nord,
dal Mare superiore al Mare inferiore,
dalla terra dell’albero di huluppu alla terra del cedro,
concedigli la sovranità e il comando.

Perciò, dico, il sumero già si avvia a parlare contro natura.
A parlare di desiderio anziché lasciar parlare desiderio. A parlare della Donna solo per tapparle la bocca.
Volete sapere la via più breve? È semplice: basta dire di lei che è la dea dell’amore, per rinnegare la sua dominazione.
Bisognerà, nientemeno, aspettare Mastro Dante, dico millenni dopo, per risvegliare la femminilità, la Bella Addormentata, che giace in fondo a tutti i desideri e a tutte le immaginazioni umane.
Bisognerà aspettare lui per rendere trasparente il velo di Inanna, pardon di Beatrice, per tornare a vedere l’Anonima, la Madonna, l’Istinto alla Metafora, il duende di tutta la sua sapienza, e soprattutto della sua lingua. Della lingua che egli dovrà ripercorrere per tutt’e i regni sorti dalle tre paroline magiche del suo primo simbolismo, per ri-trovare, lui sì Trovatore della Provenza Eterna, di nuovo la «lingua volgare quella che riceviamo imitando la nutrice, senza bisogno di alcuna regola» (De vulgari eloquentia, I, 1: 2).
Per tornare, un istante, a parlare la lingua prima dei menestrelli e dei cantastorie, la lingua prima della poesia, la lingua al servizio della sua Natura. La lingua quando è femmina e partorisce e genera «senza alcuna sintassi».

Il mistico griderà al miracolo: la sua madre-lingua, Vergine madre, non contaminata da nessuna intrusione simbolica, è figlia di suo figlio. Edipo e anti-Edipo in un sol colpo! Il miracolo sarà aver ri-trovato alla fine del viaggio quell’«istinto alla metafora», di cui solo il suo prodotto, solo suo figlio, il Simbolico può assumersi la «paternità».
Detto in parole povere (perché mi accorgo di essere stato un po’ contorto): solo la Parola può dirci del Paese Anonimo da cui proviene.
Tutto sta a trovare le parole più povere di significato, e a scommettere che sono, esse, le più ricche di quella «cosa sumera» che noi, chissà perché, ci intestardiamo a chiamare amore.
Malgrado le stragi quotidiane.