È possibile trovarsi nelle circostanze (nell’Umwelt) di una «cosa», prima ancora di sapere come si chiama. È possibile avere a che fare con la «cosa» senza parlarla, senza saperla o volerla nominare, magari senza avere di che nominarla, senza avere nessun nome per significarla. È possibile «usare» la cosa, prendersene cura senza nemmeno sapere di che si tratta. È possibile averne un segno «non verbale», preverbale, prima di entrare nel giro della Parola. Prima di venire a ingorgarsi nel traffico dei simboli umani.
Ah, i vigili, i vigili! Per non dire dei semafori …
Credo di aver parlato troppe volte anch’io, come dice Totò, «sotto semaforo». Credo di aver riso anch’io a sentirlo storpiare le parole – incredibile a dirsi: senza intaccarne la significatività, anzi (non voglio esagerare) potenziando la metafora a cui stava sputando in faccia.
Solo i comici sanno s-mascherarla, la Strega.
Perciò li invidio. Non sono che un tacchino, quando invece vorrei alzarmi in volo e danzare assieme a loro sopra le parole.
Semaforo, metafora: ci sono circostanze in cui le parole non si prendono sul serio, ma non per questo sono meno rigorose di un qualunque trattato di pignoleria dialettica. Ci sono circostanze in cui le parole si sciolgono l’una nell’altra: a volte, l’una nel significato dell’altra (sinonimia), a volte invece l’una nel significante dell’altra (omofonia, assonanza), e a volte – capisci a me quando dico Totò! – l’una è trascinata, per assonanza, a simulare l’artificio di una sinonimia, fino a scippare all’altra il significato, non per negarlo, ma per elevarlo ancora più su di un grado, fino a che quel significato stesso non evapora, e finalmente – messa sotto semaforo – la Metafora è qui, dinanzi a nostri occhi, nuda e disarmata!
Altro che Salomè. È solo una vecchia Strega che spaventa i bambini.
Un esempio di stregoneria? Eccolo!
Ho detto «possibile» quando avrei dovuto dire «necessario». Perché, altro che possibile!, è necessario che ogni cucciolo della nostra specie giunga sulla soglia della Parola dopo essersi trovato in chissà quali e quante circostanze che intorno gli hanno parlato «sotto semaforo», ma lui non ha riso, non ha risposto alla provocazione, lui neanche sapeva che c’è un traffico, e tutto un mercato, di «oggetti metaforici», di «voci senza corpo», a sostenere la Realtà Umana.
Non è possibile, ma necessario che il cucciolo abbia a che fare col seno che l’allatta, senza doverlo saper nominare in una lingua di babele. Il cucciolo sa, hai voglia se sa lanciare l’appello «anonimo» quando ha fame.
Solo che non lo parla ancora, deve ancora imparare a parlarlo – il suo appello e, quando sarà il tempo, anche il suo contrappello.
Intanto, date le circostanze, lo vede, lo sente, lo tocca, lo fiuta, lo ciuccia: vuoi scommettere che per lui, quel seno, è già significativo?
In principio, prima di passare la soglia della parola, abbiamo, dice il dottore (e il filosofo conferma), «un numero quasi infinito» di queste cose che per noi sono già significative, già segnate da un valore, già marcate da una forma (Gestalt) che sintetizza l’insieme degli usi che ne facciamo e, ovviamente, delle emozioni che questi usi ci suscitano – l’insieme, dovremmo dire, degli odori, dei sapori, dei rumori e dei movimenti dell’«utilizzato». Quell’insieme che caratterizza e distingue la singola «cosa» in un insieme, in un mondo, in un ambiente (Umwelt) – che la «individua» in un mucchio di semi confusi.
Ti ricorda niente?
Mia cara Psiche, se vuoi diventare «umana», devi prima imparare a secernere, distinguere, e ordinare.
Questo, se non sbaglio, è il primo «ordine» che Venere le dà. E se non sbaglio, Psiche da sola non ce la farebbe mai, se Psiche fosse – come vuole Aristotele – una tabula rasa, non ce la potrebbe mai fare.
E invece noi sappiamo che il Racconto dice che venne una formica, e poi un esercito di formiche venne, in suo soccorso.
Il cucciolo della nostra specie già dispone di uno, anzi di molti, linguaggi. Solo la parola gli manca. Insomma, parla ma non «dice» niente. Niente di umano, niente di simbolico, niente che verbalizzi i suoi appelli: per mandarli, deve appellarsi a tutto tranne che alle parole!
Può darsi che, a un certo punto, a furia di mandarli a vuoto (nessuno gli risponde a dovere), può darsi che, dagli oggi dagli domani, si è rassegnato a starsene per conto suo. Ha un mucchio di cose «utili» da fare, di connessioni e abbinamenti immaginari con cui «giocare».
Sì, forse gioca, dice il dottore, ma non s’intrattiene più di tanto con nessun giocattolo. Attraversa i suoi giochi, nessuno veramente lo trattiene presso di sé. Trova ovunque porte aperte che danno su un altro gioco, e poi un altro ancora. Forse per questo si è stancato perfino di giocare.
Mio caro Dick, è l’ammucchiata di «cose» il tuo problema. Non che conti il numero, la quantità dei semi che pure ha la sua importanza – ma l’assenza d’ordine: ecco qual è il tuo problema. Ogni «seme», sarà pure significativo, ma è una «cosa a sé», immobilizzata nell’uso immaginario che ne hai sempre fatto, e che è sempre lo stesso, ridondante ma di una ridondanza inutile – perché, come il devoto di Kafka, lo stesso pioppo, tu un giorno lo chiami Torre di Babele, e il giorno dopo Noè ubriaco. E c’è da immaginare che domani ancora un altro «nome» gli darai. Niente è fermo, niente è (sia pure per finzione) stabile. Niente è trattenuto in una certa posizione, ma sempre fluttua e cangia di colore e di umore.
Mio caro Dick, bisogna che tu i «semi» l’impari a secernere, sempreché vuoi diventare umano – sempreché t’interessa «essere tra» umani.
Il cucciolo ha a disposizione una «ricchezza» quasi infinita di «cose segnate», eppure senti Melanie Klein che dice: dice che versa in uno stato di «povertà immaginaria». E non c’è contraddizione. Il cucciolo fa un uso «povero» di quella «ricchezza», un uso ristretto alle sole combinazioni immaginarie, un uso «avaro» per cui le cose hanno solo quella relazione utile per lui, ed egli non ha, forse, da far altro che difenderle dall’intrusione altrui.
Più le difende, più si difende lui dal Simbolo.
Non vuole farsi stregare.
Psiche non ce la fa. È la formica, la parolina buttata lì dalla dottoressa, che le dà una mano.
Cos’ha di speciale quella «parolina»?
È una «parola vera», una parola «autentica», si affretta a dire il dottore. Vera, in quanto gli apre le porte su quel mondo che l’Uomo prende per «vero», per la sua «vera» Realtà (tutto il resto son chiacchiere). E autentica, in quanto gli timbra il lasciapassare nell’ordine simbolico.
Vera e autentica, solo però, e nient’altro che, nel senso di parola che, come un arpione, s’agganci al repertorio immaginario svelandone la possibilità di un ordine che attendeva solo d’essere scoperta – che anzi era già aperta, ma che Psiche non coglieva ancora. Quel mucchio era pressoché inesauribile: che dio ci scansi e liberi da ogni infinito potenziale (… e poi … e poi …), perché è proprio l’infinità di questa voracità a negarci lo sfruttamento della potenza, della possibilità, di ciascun seme di fecondare la Terra dei simboli.
La parolina mette ordine: un ordine qualsiasi, non necessariamente quello di Edipo, che è solo uno dei tanti, e nient’affatto il più importante.
Treno = papà. Stazione = mamma.
Sarà pure un ordine sbagliato (la questione è aperta), ma è pur sempre un ordine. Un ordine qualsiasi. Un ordine che «combina» tra loro «cose» dislocate in ambiti differenti, sia pure dello stesso ambiente: i giocattoli, la famiglia. Un ordine dunque che ambisce a «familiarizzare» tra loro giochi giocati su tavoli differenti.
La Parola è un semaforo di tre colori. Su, comincia dal «seme» che vuoi, su datti da fare!
Così dice Venere, e che sia proprio Venere – la madre di Eros – deve pur voler dire qualcosa, se non altro riguardo alla Physis della Metafora. Ovvero non alla Metafora quale figura retorica, ma all’«istinto» umano a metaforizzare Se Stesso innanzi tutto, e poi anche tutto il resto delle «cose» con cui gioca.
Venere dice a Psiche: puoi disporli per grandezza, per colore, per sapore, per odore, e per mille altre qualità! Puoi disporli in «famiglie», vedi tu: ci sono tanti tipi di famiglie, quella Edipica è una delle tante.
Il cucciolo rimane cucciolo finché è intrappolato in una «infinità» titanica (ogni Titano porta il suo giocattolo al piccolo Zagreo-Dioniso: non conta il «significato» del singolo giocattolo, non c’è neanche il tempo di fermarsi alla stazione dei Significati, che arriva subito un altro giocattolo). Finché è prigioniero del «senza fine» delle vendette amletiche, il suo desiderio è intrattenuto, direbbe Platone, in una «ricchezza povera». In una ricchezza che resta povera, simbolicamente infeconda, finché non è ordinata.
Insomma, puoi sapere tutte le parole di tutte le formule magiche del mondo, ma se ancora non sai le (perché tre?) paroline, le tre «lettere Madri» direbbe il cabalista, le tre formichine che misero ordine nel tuo antico repertorio immaginario, vedi – il Racconto ti consiglia di andare, come il vecchio Väinämöinen, a procurartele nella sua stessa Pancia. E non c’è contraddizione, che sia il Racconto stesso a metterti in guardia. Perché il Racconto non è che un burattino, finito assieme al Falegname che l’ha fabbricato, nelle viscere della Metafora, la Strega – la Vecchia di Pohjola.
Il Racconto non si contraddice neanche quando dice che non sarai tu a trovarle, mio vecchio trovatore, quando dice che saranno essere a trovare te, se mai. E dice che, nel frattempo, nell’attesa dell’Eroe che non verrà, o del Messia che si è stancato dei mille Elia che mille volte sono venuti a vanvera a scriverne o a interpretarne il testamento, tu non hai da far altro che andare su e giù nello stomaco dello Stregone.
Guarda i comici! Guarda che spirito li rende così spiritosi!
Fa’ come loro: non dannarti l’anima, come gli spirituali, per venire a capo di non so quale quia «vero e autentico». I comici confidano nel solletico per farsi vomitare dal Pescecane.
Sotto sotto confidano, malgrado non ce lo dicano, che comico, stolto, basso e ridicolo fu l’inizio del Racconto. E che solo la risata sconfesserà tutte le maledizioni che vi sono state disseminate contro l’attesa di Abramo.
Che cosa, chi attendeva Abramo?
Abramo non poteva sapere che sarebbero venuti tre Angeli a visitarlo: sapeva solo che quando gli Angeli l’avessero «trovato», lui avrebbe riso con tutto il cuore.
Come all’inizio, come la prima volta che assecondò il suo «istinto metaforico» e fu felice della scoperta. Era ai piedi di una quercia, ma ci scommetto: fu la prima volta che si sentì sotto semaforo, la prima volta che ne rise. La Strega, perciò, non l’avrebbe stregato per sempre.