Lacan – L’appello nel campo della parola

Ritorno al caso descritto da Melanie Klein.
Il bambino è lì. Dispone di un certo numero di registri significativi. Melanie Klein – qui la possiamo seguire – sottolinea l’estrema ristrettezza di uno di loro: il campo immaginario.
Normalmente, per le possibilità del gioco di trasposizione immaginaria, si può attuare la valorizzazione progressiva degli oggetti sul piano chiamato comunemente affettivo, attraverso una demoltiplicazione, uno spiegamento a ventaglio di tutte le equazioni immaginarie, che permettono all’essere umano di essere il solo fra gli animali ad avere un numero quasi infinito di oggetti a sua disposizione, di oggetti segnati da un valore di Gestalt nel suo Umwelt, di oggetti isolati nelle loro forme.
Melanie Klein sottolinea la povertà del mondo immaginario e allo stesso tempo l’impossibilità per questo bambino di entrare in un rapporto effettivo con gli oggetti in quanto strutture. Correlazione importante da cogliere.

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De Chirico – Piazza d’Italia

Se adesso si riassume tutto quel che Melanie Klein descrive circa l’atteggiamento di quel bambino, il punto significativo è semplicemente questo: non rivolge alcuno appello.

L’appello, ecco una nozione che vi prego di conservare. Direte: Naturalmente con ciò spiattella di nuovo il suo linguaggio, il dottor Lacan. Ma il bambino ha già il suo sistema di linguaggio più che sufficiente. Prova ne è che ci gioca. Se ne serve anche per condurre un gioco d’opposizione contro i tentativi d’intrusione degli adulti.
Per esempio si comporta in un modo che nel testo è detto negativista. Quando sua madre gli propone un nome, che è capace di riprodurre correttamente, lo riproduce in modo inintelligibile, deformato, che non può servire a nulla […]

Dick si serve del linguaggio in un modo propriamente negativista.
Di conseguenza, introducendo l’appello, non è il linguaggio che introduco di straforo. Direi anche di più, non solamente non è il linguaggio, ma neppure un livello superiore al linguaggio. Se mai, se si parla di livelli, è al di sotto del linguaggio.
Non avete che da osservare un animale domestico per vedere che un essere sprovvisto di linguaggio è affatto capace di rivolgervi degli appelli, degli appelli per attirare la vostra attenzione verso qualcosa che in un certo senso gli manca.
All’appello umano è riservato uno sviluppo ulteriore più ricco, perché si produce giustamente in un essere che ha già acquisito il livello del linguaggio.

Schematizziamo.
Un certo Karl Bühler ha fatto una teoria del linguaggio, che non è la sola e neppure la più completa, ma dove si trova qualcosa che non è senza interesse; egli distingue tre stadi nel linguaggio. Sfortunatamente li ha inquadrati tramite dei registri che non li rendono molto comprensibili.

All’inizio, il livello dell’enunciato in quanto tale, che è quasi un livello di dato naturale. Io sono al livello dell’enunciato quando dico a una persona la cosa più semplice, un imperativo per esempio.
A livello dell’enunciato bisogna collocare tutto ciò che concerne la natura del soggetto. Un ufficiale, un professore non darà il suo ordine nello stesso linguaggio di un operaio o di un caposquadra. Al livello dell’enunciato, nel suo stile e fin nelle sue intonazioni, tutto ciò che apprendiamo verte sulla natura del soggetto.

In un imperativo qualunque vi è un altro piano, quello dell’appello. Si tratta del tono in cui quell’imperativo è dato. Lo stesso testo può avere valori completamente diversi a seconda del tono. Il semplice enunciato fermatevi può avere secondo le circostanze valori di appello completamente diversi.

Il terzo valore è propriamente la comunicazione, ciò di cui si tratta e il riferimento all’insieme della situazione.

Con Dick ci troviamo al livello dell’appello. L’appello prende il suo valore all’interno del sistema già acquisito del linguaggio. Ora si tratta del fatto che questo bambino non lancia nessun appello. Il sistema attraverso il quale il soggetto viene a collocarsi nel linguaggio è interrotto a livello della parola.
Non sono lo stesso, linguaggio e parola; questo bambino è fino a un certo punto padrone del linguaggio, ma non parla. È un soggetto che sta lì e che letteralmente non risponde.

La parola non gli è giunta. Il linguaggio non si è unito al suo sistema immaginario, che ha un registro eccessivamente ridotto: valorizzazione dei treni, delle maniglie delle porte, del luogo nero. Le sue facoltà, non di comunicazione ma d’espressione, sono limitate a ciò. Per lui reale e immaginario si equivalgono.

trenino2Melanie Klein deve dunque in questo caso rinunciare a ogni tecnica. Ha il minimo di materiale. Non ha neppure i giochi, questo bambino non gioca. Quando prende per un po’ il trenino, non gioca, lo fa come attraversa l’atmosfera, come se fosse invisibile o piuttosto come se tutto gli fosse in una certa maniera invisibile.
Melanie Klein non procede qui, ne ha viva coscienza, ad alcuna interpretazione. Parte, dice, dalle idee che ha, e che sono note, su ciò che avviene in questo stadio. Con molta decisione, gli dice: Dick trenino, trenone Papà-treno.
Al che il bambino si mette a giocare col suo trenino e dice la parola station, cioè stazione. Momento cruciale in cui si profila l’unione del linguaggio all’immaginario del soggetto.

Melanie Klein gli rimanda questo: La stazione è la mamma. Dick entrare nella Mamma. A partire da qui tutto si scatena. Non gli farà che cose del genere e non altre. E assai rapidamente il bambino progredisce. È un fatto.
Cosa ha fatto dunque Melanie Klein? nient’altro che apportare la verbalizzazione. Ha simbolizzato una relazione effettiva, quella di un essere, nominato, con un altro. Ha applicato la simbolizzazione del mito edipico per chiamarlo col suo nome.
È a partire da lì che, dopo una prima cerimonia consistente nel rifugiarsi nello spazio nero per riprendere contatto con il contenente, si ridesta per il bambino la novità.

Il bambino verbalizza un primo appello, un appello parlato. Domanda la bambinaia con cui era entrato e che aveva lasciato andar via come se niente fosse. Per la prima volta produce una reazione d’appello, che non è solamente un appello affettivo, mimato con tutto l’essere, ma un appello verbalizzato, che pertanto implica risposta.
È una prima comunicazione nel senso proprio, tecnico, del termine.

Le cose in seguito si sviluppano fino al punto in cui Melanie Klein fa intervenire tutti gli altri elementi di una situazione già organizzata fino al padre stesso, che viene a giocare il suo ruolo. Al di fuori delle sedute, dice Melanie Klein, i rapporti del bambino si sviluppano sul piano dell’Edipo. Il bambino simbolizza la realtà attorno a lui a partire da quel nucleo, da quella piccola cellula palpitante di simbolismo, che Melanie Klein gli ha dato.
È in quello che in seguito chiama: aver aperto le porte del suo inconscio.

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Corona – Treno Stazione

Dove e quando Melanie Klein ha fatto qualcosa che manifesti una comprensione qualunque di non so quale processo che nel soggetto sarebbe il suo inconscio?
Lo ammette immediatamente, per abitudine.
Rileggete tutti questo caso e vi vedrete la manifestazione sensazionale della formula che da sempre vi do: l’inconscio è il discorso dell’altro.

Ecco un caso dove è assolutamente evidente. Non vi è alcuna specie d’inconscio nel soggetto. È il discorso di Melanie Klein che innesta brutalmente sull’inerzia egoica iniziale del bambino le prime simbolizzazioni della situazione edipica.
Melanie Klein fa sempre così coi suoi soggetti, più o meno implicitamente, più o meno arbitrariamente.

Nel caso drammatico, in questo soggetto che non ha avuto accesso alla realtà umana perché non fa intendere alcun appello, quali sono gli effetti delle simbolizzazioni introdotte dalla terapeuta?
Esse determinano una posizione iniziale a partire dalla quale il soggetto può far giocare l’immaginario e il reale e conquistare il suo sviluppo. S’ingolfa in una serie di equivalenze, in un sistema in cui gli oggetti si sostituiscono gli uni agli altri. Percorre tutta una successione di equazioni, che lo fanno passare da quell’intervallo tra i due battenti della porta dove andava a rifugiarsi come nel nero assoluto del contenente totale a degli oggetti che lo sostituiscono, la bacinella dell’acqua per esempio.
Dispiega e articola così tutto il suo mondo. E poi dalla bacinella dell’acqua passa al radiatore elettrico, a oggetti sempre più elaborati. Accede a contenuti via via più ricchi come alla possibilità di definire il contenuto e il non-contenuto.

Perché parlare in questo caso di sviluppo dell’ego? si confonde come sempre l’ego con il soggetto.
Lo sviluppo non ha luogo che nella misura in cui il soggetto s’integra al sistema simbolico, vi si esercita, vi si afferma tramite l’esercizio di una parola vera. Non è neppure necessario, lo noterete, che questa parola sia la sua.
Nella coppia momentaneamente formata tra terapeuta e soggetto, anche nella sua forma meno carica affettivamente, può essere apportata una parola autentica. Indubbiamente, non una parola qualsiasi; è lì che vediamo la virtù della situazione simbolica dell’Edipo.

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Boccioni – Treno che passa

È veramente la chiave, una chiave assai ridotta […]
Ma che importa. Quanto a noi, analisti, ce ne siamo accontentati fino ad oggi. Certo, si cerca anche di elaborarla un po’, ma assai timidamente. Ci si sente sempre orribilmente impacciati, perché si distingue male tra immaginario, simbolico e reale.

Adesso voglio farvi notare questo. Quando Melanie Klein gli consegna lo schema dell’Edipo, la relazione immaginaria che il soggetto vive, benché estremamente povera, è già abbastanza complessa perché si possa dire che ha il suo mondo a sé.
Ma questo reale primitivo è per noi letteralmente ineffabile.
Finché non ce ne dice nulla, non abbiamo alcun mezzo per penetrarvi, se non tramite delle estrapolazioni simboliche che fanno l’ambiguità di tutti i sistemi come quello di Melanie Klein – ci dice per esempio che all’interno dell’impero del corpo materno il soggetto è assieme a tutti i suoi fratelli, senza contare il pene del padre, ecc.
Veramente?

Non importa, dato che in ogni caso possiamo cogliere come questo mondo si mette in movimento, come immaginario e reale cominciano a strutturarsi, come si sviluppano gli investimenti successivi, che delimitano la varietà degli oggetti umani, cioè nominabili.
Tutto questo processo prende avvio da quel primitivo affresco costituito da una parola significativa, la quale formula una struttura fondamentale, che, nella legge della parola, umanizza l’uomo.

Come dirvelo ancora in altro modo?
Chiedetevi cosa rappresenta l’appello nel campo della parola.
Ebbene, è la possibilità del rifiuto. Dico la possibilità. L’appello non implica il rifiuto, non implica nessuna dicotomia, alcuna bipartizione.
Ma potete constatare che, nel momento in cu si produce l’appello, nel soggetto si stabiliscono le relazioni di dipendenza. Accoglierà allora la bambinaia a braccia aperte e, andandosi a nascondere di proposito dietro la porta, manifesterà a un tratto di fronte a Melanie Klein il bisogno di avere un compagno in quell’angolo ristretto, che ha occupato per un momento.
La dipendenza verrà dopo.

In questo caso vedete dunque giocare indipendentemente nel bambino la serie delle relazioni preverbali e post-verbali. E vi accorgete che il mondo esteriore, quello che noi chiamiamo mondo reale, e che non è altro che un mondo umanizzato, simbolizzato, fatto di trascendenza introdotta nella realtà primitiva attraverso il simbolo, non può costituirsi se non quando si sono verificati, al posto giusto, una serie d’incontri.

(Lacan, Il Seminario: 1)