È sconcertante: tornano tutti da un fallimento. Gli Eroi, sì, i Grandi di cui il Racconto racconta le gesta, tornano tutti che si sono fatti la bua. Sono andati in capo al mondo, e non hanno trovato quello che cercavano. Orfeo non ha riavuto indietro la sua Amata, Gilgameš non ha conquistato il segreto degli immortali, il vecchio intrepido Väinämöinen non ha recuperato le tre parole magiche, e a Seth che era andato in paradiso a raccattare un goccio dell’olio di misericordia, l’angelo con la spada ha detto: «fermo là, se no ti taglio la mano!».
E allora cos’è, cosa mi significa tutto questo «andare a vuoto»? questo andare in capo al mondo in cerca dell’eternità, per poi doversi rassegnare a un’eterna «impotenza»? tu non mi vedrai, tu non mi saprai, tu non mi avrai – che razza di tesoro è mai questo, a cui diamo la caccia, per poi dover scoprire di essere stati cacciati noi dal suo godimento?
Sarà che non ci capisco niente. Il dottore dice: non è niente di serio, si tratta solo di equivalenze immaginarie, in cui uno dei due termini «viene meno», per eccesso o per difetto, all’altro. No, dice, non c’è da preoccuparsi, si tratta solo di uno «sterminio» necessario: non si può scambiare tutto con tutto, c’è un limite al di là del quale non si può continuare a «prendere», senza sapere da chi, e soprattutto, che cosa, e a quale prezzo, si prende.
Non ora, non subito – dice l’angelo a Seth. – Ripassa il giorno del Giudizio. Torna quando avrai messo giudizio e non dirai più bugie – dice la lavandaia che lava le parole alle canzoni di Väinämöinen. Quando sarai capace di resistere ai colpi di sonno, dice Utnapištim a Gilgameš. Quando avrai la pazienza di non guardare indietro finché non sarai uscito da quest’inferno, sentenzia l’oracolo a Orfeo.
Da allora, è tutto un andare «eroico» incontro al fallimento. Gli Eroi si votano al «credo», dice Kierkegaard, e perciò succede – nella loro «credenza», s’intende! – che il «creduto» può sopravvivere al «fallito».
Succede che dio non esaudisce il desiderio di Abramo, ma anche che Abramo continua a credere al desiderio a cui ha dovuto rinunciare – questo, dice Kierkegaard – dice che è questo propriamente il «successo» umano.
L’Uomo, se ho capito bene, «succede» a un dio che non l’accontenta. Succede che, nello scontento – di più: nello sconforto e nella disperazione di quel «no» – può darsi l’occasione che «umanizza» l’Eroe, che ne «sposta» le gesta in un altro territorio, che le «trasporta» (le metaforizza) in un altro dominio, in cui quel desiderio a cui aveva dovuto rinunciare, continua a essere fecondo e a «figliare», sia pure in tarda età.
Non si chiama forse la pianta «Vecchio ringiovanisci»? e Abramo non era più che vecchio quando con la sua ancor più vecchia sposa «generò» il seme di tutte le nazioni benedette della Terra? che dire? non è insistentemente detto e ripetuto che l’intrepido Väinämöinen era, anzitutto, Vecchio? ed Enki che si ubriaca e si fa scippare i segreti della sua sapienza da Inanna, non era solo un vecchio che fingeva con se stesso di non sapere in che guaio si stava andando a cacciare con la ragazza?
L’Uomo succede a un (Antenato) vecchio, delle cui gesta non eredita che un «termine», quello che non fu terminato, quello «non esaudito», quello rimasto inascoltato, incompiuto – perché, dice Kierkegaard, è quello che ha generato «attesa», quello che ancora attende di essere compiuto.
Non so come dirlo. L’Uomo ha ereditato il futuro di un’incompiuta. È figlio di un desiderio irrealizzato. Gilgameš poteva arrendersi: non sono stato bravo. La «cosa», l’hai presentata male! – dice Totò a Peppino. La possiamo chiudere qui, e pensare a un’altra. Non sarò immortale, potrebbe dirsi Gilgameš, ma non importa: sarò qualche altra cosa. Ho gettato via lo scudo, dice sfacciatamente Archiloco. Dice: non importa, me ne comprerò domani un altro!
E invece … invece non è andata così, a quel che riesco a immaginare.
Immagino che Gilgameš ha «trovato» proprio quell’Immortalità di cui era in cerca. Solo che non era quella che lui s’immaginava. Non era questa vita prolungata in eterno. Non era un’eterna dannazione a vivere l’incubo della morte! Ha ragione Amleto: fosse facile morire, se bastasse andare a nanna e chiudere gli occhi, dove sarebbe il problema?
Il problema è che il nostro Antenato (reale o immaginario che sia) non ha diritto a morire. Il problema è suo. È il dio o la bestia che ci portiamo dentro le nostre radici – è lui a essere nei guai, negli infiniti guai senza fine.
Umano è fare la sciocchezza di farcene carico noi. E va bè, facciamola pure – questa sciocchezza, ma per favore voglio anch’io «essere» la mia parte delle «benedizioni» di Abramo. Voglio pur io «ringiovanire» come Gilgameš, e fare figli – sebbene sia da un pezzo sterile.
Voglio una briciola del loro pan degli Angeli. Mi contenterò di essere quel tanto di «umano» che serve a ri-vedere quello che hanno visto loro, nell’Ora del Fallimento.
L’Uomo è «successivo» a un dio, da cui non può più prendere, a meno che non si prende lui pure per dio, finché non si scambia (in un miraggio) con dio. È più o meno da queste parti che a Mastro Dante tocca «indiarsi» se vuole andare più avanti nel suo «comico» viaggio.
Non puoi prendere l’immortalità se non ti confondi, se non ti fondi – dice il mistico – col dio della tua credenza, col dio a cui ti credi debitore del segreto dell’immortalità.
Bisogna che tu, a questo punto, ti deifichi – dice Utnapištim a Gilgameš. – Se vuoi procedere fino al termine della Commedia, come un dio tu devi stare eternamente eretto, su tutto il mondo vigilare eternamente desto.
Come un dio?
Ma non è proprio così che K. se lo sogna il suo Guardiano-Segretario, al secolo Bürgel? non se l’immagina, tra veglia e sonno, come la statua eretta di un dio greco? Solo che però non ha nessun’aura di santità, e tanto meno di virilità, ma squittisce come un’oca, come una femminuccia ha paura!
L’altra faccia, mi direte. Questa è la faccia comica di un dio che però rimane terribile: al secolo l’Amministratore del condominio umano. La faccia con cui in sogno K. lo s-maschera, direte, è solo una rivincita illusoria. Il guardiano, il custode, la sentinella, il gendarme, sono le nuove maschere del Drago che continua a interdirci il termine, il compimento, l’esaudimento di un desiderio. Cosa c’è di comico, direte, in questa beffa?
Di comico c’è che era un’illusione sin dalla prima parola, tutto il Racconto. Di comico c’è che, malgrado l’abbia chiamata Commedia, qualcuno ci ha voluto appiccicare quel «divina» che ci porta fuori strada.
Certo, mi direte voi, Boccaccio avrà sentito starnazzare tutte le oche, nonché a una a una tutte le pollastrelle del suo Decamerone, le avrà immaginate che in coro gli dicevano all’orecchio: dacci una mano a farci sentire dalla gente, siamo le strofe di un vecchio cantore, siamo le muse comuni a tutti i poeti, fa’ in modo che ci possano intendere.
Per questo, forse, s’è sentito autorizzato a nascondere la «comicità» del poema (sai com’è, i comici sono sempre un po’ blasfemi) per trascinarla a prendersi sul serio, a beneficio della sua personale «conversione».
Da «laico» in gioventù, s’è fatto «credente» da vecchio. Che ne può sapere lui che viaggia contromano a uno che, come Mastro Dante, ha creduto e ha desiderato ciò in cui credeva, ha desiderato e non è stato esaudito, ma ha continuato a credere nel desiderio che aveva dovuto abbandonare, fino a «indiarsi» nel dio della sua credenza, fino a «sacrificargli» il suo «creduto» più caro, la figlia più cara alla sua immaginazione, il termine dispari della sua poesia, l’impareggiabile Beatrice, fino a perderla di nuovo, questa volta sì immortalandone la perdita, svuotandone dell’icona la sua credenza, in modo da non avere niente più da scambiare col dio della sua credenza, nient’altro più che Se Stesso, e il proprio fallimento, e nientemeno ridere di questo, starne, anche solo per un istante, fuori da tutto questo, un istante di gioia, l’istante in cui Mastro Dante e quel tale che risponde all’anonimo nome K., ciascuno per il suo verso ovviamente, si scoprono nel nirvana della distanza da ogni credenza, e così, non avrebbero mai immaginato che proprio così, si prendono una rivincita sulla Metafora che l’ha inghiottiti da bambini, e per un istante – ma quale «divino» vai cercando? – è un gioco da ragazzi, oplà: la capriola metaforica, il salto si può fare pure alla rovescia.
Forse che Antero Vipunen non rovescia Väinämöinen? E il lupo Cappuccetto Rosso e la Nonna? E il pescecane non vomita Pinocchio e Geppetto? Pardon, stavo per dire: Abramo e Isacco.
Sarà che non ci capisco niente. Il dottore dice: non è niente di serio, si tratta solo di svenimenti immaginari. Il pescecane, la Metafora vorace, è malata d’asma. Si tratta solo di aspettare il momento che tossisce: perché quello è il momento buono per rinvenire all’umanità.
Oppure puoi fare come Väinämöinen: ti metti ad andare su e giù nella pancia del Racconto, in modo da fargli il solletico.
Allora può darsi l’occasione che il Racconto ti risputi alla luce del sole.
In ogni caso, è consigliato uno «sterminio» comico, simultaneo, di tutte le parole di tutte le chiacchiere del mondo. Un lasciarsi andare al proprio analfabetismo. E insieme un ri-vedersi trasportati nel buco nero della prima «credenza»: quella che ci aprì la Porta sul Racconto Umano. E poterne ora, finalmente, entrare e uscire a piacimento.
Il dottore dice: aspettiamo il prossimo colpo di tosse. Andrà tutto a posto!